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ESAME AVVOCATO - SESSIONE 2012
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Da: commissario2 | 12/12/2012 14:03:07 |
Tanto tutti sanno che copiate, quindi mettete la modifica | |
Da: maty1983 | 12/12/2012 14:03:33 |
SECONDO ME LA MODIFICA NON VA MESSA è TROPPO NUOVA PER ESSERE CONOSCIUTA DAI PIù PER QUANTO RIGUARDA STI IMBECILLI KE ROMPONO LE P..... ANDATE A FARVI F..... E LEVATEVI DI TORNO TRISTI SFIGATI INFELICI PROSSIMI AL SUICIDIO | |
Da: aoxomoxoa | 12/12/2012 14:11:49 |
SVOLGIMENTO TRACCIA NOTAIO (MODIFICATO FINALE IN BASE ALLA LEGGE L. 6.11.2012, n. 190) Col parere oggetto di svolgimento mi si chiede di illustrare la fattispecie penale individuabile dalla condotta del Notaio Tizio con particolare riferimento alle possibilità di confisca per equivalente dei beni previamente sottoposti a sequestro. Al fine di rendere il parere richiesto appare quindi necessario muovere dall'istituto della confisca così come previsto dall'art. 322-ter c.p. per i fini che a noi interessano. La previsione di cui all'art. 322 ter introduce la confiscabilità per equivalente nel caso in cui i beni costituenti il "profitto" o il "prezzo" del reato non siano aggredibili per qualsiasi ragione. La norma prevede che la confisca possa riguardare beni dei quali il reo abbia in ogni caso "la disponibilità " per un valore corrispondente a quello che avrebbe dovuto altrimenti costituire oggetto della confisca. Nell'ambito delle misure di sicurezza assume un ruolo peculiare la figura della confisca, la cui disciplina generale è contenuta nell'art. 240 c.p. Attraverso detta misura ablatoria vengono acquisiti dallo Stato beni che per la loro intrinseca natura, ovvero per un collegamento funzionale con un illecito penale, devono considerarsi criminosi. Per quanto attiene ai presupposti applicativi della confisca occorre precisare che questa, a differenza della altre misure di sicurezza, prescinde dall'accertamento della pericolosità sociale del reo, essendo sufficiente la commissione di un reato o di un quasi reato. In linea generale, essa è di applicazione facoltativa (art. 240, comma 1, c.p.) ovvero obbligatoria (art. 240, comma 2, c.p.). Attraverso la l. 29 settembre 2000, n. 300, che ha inciso sul titolo dedicato ai delitti contro la Pubblica Amministrazione, la confisca obbligatoria è stata estesa, grazie alle previsioni contenute nell'art. 322 ter c.p.. ad alcune fattispecie ivi previste e, inoltre, è stato inserito l'istituto della confisca per equivalente, già contemplato dal nostro ordinamento in materia di usura (l. 7 marzo 1996, n. 108). Il tratto che connota tale figura giuridica consiste nella possibilità , per l'autorità giudiziaria, di procedere, qualora manchino i beni che si identificano con il profitto e il prezzo del reato, all'ablazione di beni diversi per un valore equivalente al prezzo del reato (art. 322 ter, comma 1) ovvero al profitto del medesimo (art. 322 ter, comma 2, c.p.). Fin dall'introduzione dell'istituto della confisca si è aperto un dibattito relativo alla natura giuridica di tale sanzione penale. Precisamente, ci si è chiesti se, conformemente all'intitolato legale, debba considerarsi una misura di sicurezza ovvero assuma i tratti di una vera e propria pena. La distinzione è di non poco momento, atteso che, ai sensi dell'art. 200 c.p., si applica alle misure di sicurezza un divieto di retroattività temperato, in forza del quale può trovare applicazione la legge in vigore al tempo dell'esecuzione della misura di sicurezza, ancorché sia diversa da quella prevista al tempo del reato commesso, mentre per le pene vale il principio di irretroattività sancito nell'art. 2, comma 1, c.p., il quale ammette deroghe soltanto a favore del reo. Secondo la tesi tradizionale, la ratio di tale opzione normativa riposa sulla diverse funzioni perseguite dalla pena e della misura di sicurezza. Nel primo caso prevalgono esigenze di prevenzione generale, nel secondo caso, invece, è valorizzato il contenuto terapeutico della misura sanzionatoria, sicché trova giustificazione l'applicazione di uno strumento più moderno, sebbene diverso da quello previsto al tempo della perfezione dell'illecito. Resta inteso che, per non svuotare di contenuto le garanzie del reo, è necessario che la previsione di una misura di sicurezza applicabile per il fatto realizzato già sussista al momento della commissione di questo. Proprio in materia di confisca per equivalente, le indicazioni provenienti dalla l. 29 settembre 2000, n. 300 orientano a ritenere che la confisca abbia una natura giuridica assimilabile a quella della pena. L'art. 15 (Norma transitoria), preclude infatti l'applicazione retroattiva della confisca per equivalente. Detto rilievo, già condiviso dalla giurisprudenza delle Sezioni unite in materia di responsabilità degli enti dipendente da reato (Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008 - 2 luglio 2008, n. 26654), è stato recentemente confermato dalla Corte costituzionale (Corte cost., 2 aprile 2009, n. 97) la quale, recependo l'approccio sostanzialistico in materia penale, tipico della giurisprudenza della Corte della Europea dei Diritti dell'Uomo, ha riconosciuto nella confisca per equivalente i tratti dell'afflittività , tipici della pena. Poste queste premesse, la Consulta ha statuito che un'applicazione retroattiva dell'istituto di cui all'art. 322 ter c.p. violerebbe l'art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, a tenore del quale nessuno può essere punito con un pena più grave di quella prevista al momento in cui è stato commesso il fatto e, conseguentemente, contrasterebbe con l'art. 117, comma 1, Cost. che impone al legislatore italiano di esercitare la potestà legislativa rispettando i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. La prima problematica che viene in rilievo nel caso di specie attiene alla possibilità di ritenere integrati gli estremi del delitto di peculato dalla condotta di Tizio, il quale riveste la qualità di soggetto pubblico. Nella giurisprudenza della Suprema Corte si osserva un indirizzo interpretativo pacifico secondo il quale il momento consumativo del delitto di peculato deve individuarsi nel comportamento appropriativo dell'agente avente a oggetto il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia il possesso per ragioni d'ufficio o di servizio. Ed in effetti, a mente della Cassazione penale, sez. V, sentenza n° 47178/2009, il notaio che ometta il versamento di somme, affidategli da clienti, destinate al pagamento dell'imposta di registro in relazione ad atti rogati incorre nel delitto di peculato. La condotta appropriativa del notaio deve essere qualificata come peculato. Infatti, la qualifica di pubblico ufficiale spetta al notaio non solo nell'esercizio del suo potere certificativo in senso stretto, ma in tutta la sua complessa attività , disciplinata da norme di diritto pubblico e diretta alla formazione di atti pubblici. Occorre ora chiedersi se effettivamente la misura cautelare, funzionale a quella ablativa, potesse o meno avere a oggetto i beni nella disponibilità di Tizio. La questione si colloca nel contesto relativo alla definizione dello spettro operativo della confisca per equivalente disciplinata nell'art. 322 ter c.p. L'art. 322 ter, introdotto nel codice penale dalla l. 29 settembre 2000, n. 300, in occasione delle ratifiche da parte del nostro Paese di specifiche convenzioni internazionali volte a contrastare i fenomeni corruttivi, dispone al comma 1, che in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei delitti contro la Pubblica Amministrazione previsti negli articoli da 314 a 322 c.p. è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono "il profitto o il prezzo" salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando questa non sia possibile, la confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità , per un valore corrispondente a tale "prezzo" (c.d. confisca per equivalente). Nei termini chiariti dall'autorevole insegnamento delle Sezioni unite della Suprema Corte, la ratio dell'istituto della confisca per equivalente risiede nella scelta di privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall'attività criminosa, anche di fronte all'impossibilità di aggredire l'oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale misura che assume a tutti gli effetti i tratti distintivi di una vera e propria sanzione (Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008 - 2 luglio 2008, n. 26654). Stando alla formulazione letterale della disposizione (art. 322 ter, comma 1, c.p.), come rilevato dalla costante e più recente giurisprudenza di legittimità , la confisca per equivalente non è applicabile in relazione al profitto del delitto di peculato (art. 314 c.p.), dovendo ritenersi limitata al solo tantundem del prezzo del reato (Cass. pen., Sez. VI, 5 novembre 2008 - 7 aprile 2009, n. 14966; Cass. pen., Sez. VI, 10 marzo 2009, n. 10679). Depongono a favore di questa soluzione argomenti di diversa natura. In prospettiva sistematica, si esclude che il legislatore abbia utilizzato nell'art. 322 ter c.p. il termine prezzo in senso atecnico, così da comprendere qualsiasi utilità connessa al reato, derogando alla disciplina generale stabilità nell'art. 240 c.p., ove le nozioni di prezzo e profitto sono nettamente distinte. Da un punto di vista esegetico, poi, sembra chiara la volontà del legislatore di escludere, salvo le ipotesi del comma 2 dell'art. 322 ter c.p., il profitto del reato dalla confisca per equivalente. In senso contrario si registra un isolato orientamento che aderisce a una interpretazione estensiva secondo la quale, riguardo al delitto di peculato, sono assoggettabili a confisca, ai sensi dell'art. 322 ter c.p., comma 1, beni nella disponibilità dell'imputato per un valore corrispondente a quello relativo al profitto o al prezzo del reato (Cass. pen., Sez. VI, 29 marzo 2006 - 17 luglio 2006, n. 24633). Di recente, a dirimere l'illustrato contrasto giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni unite della Suprema Corte. La Corte ha precisato che, in difetto di una nozione legale di profitto del reato, può accogliersi la ricostruzione semantica di tale concetto offerta dalla dominante giurisprudenza di legittimità secondo la quale esso deve essere identificato con il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al prodotto e al prezzo del reato. In particolare, il prodotto rappresenta ciò che materialmente deriva dall'illecito, vale a dire le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato, il prezzo, invece, deve individuarsi nel compenso dato o promesso a una determinata persona, a titolo di corrispettivo dell'esecuzione dell'illecito (ex plurimis, Cass. pen., S.U., 3 luglio 1996 - 17 ottobre 1996, n. 9149). Le Sezioni unite, pertanto, alla luce della netta distinzione fra le nozioni di prezzo e profitto del reato, unitamente alla mancanza di una chiara indicazione legislativa che attribuisca a tali termini un significato diverso da quello comunemente assegnato dalla giurisprudenza di legittimità , ritengono che non sussista alcun elemento idoneo a far ritenere che il legislatore, nella formulazione dell'art. 322 ter, comma 1°, c.p., abbia usato il termine prezzo in senso atecnico, così da includere qualsiasi utilità connessa al reato sicché, con riferimento al delitto di peculato può disporsi la confisca per equivalente prevista dall'art. 322 ter, comma 1, ultima parte c.p., soltanto del prezzo e non anche del profitto (Cass. pen., S.U., 25 giugno 2009 - 6 ottobre 2010, n. 38691). Nel caso di specie, accedendo all'ultimo indirizzo delle Sezioni unite, Tizio potrà ottenere, previa istanza di riesame del sequestro preventivo, la restituzione dei propri beni. Premesso quanto sopra, deve tuttavia essere rilevato che la L. 6 novembre 2012, n. 190 ha parzialmente modificato il citato articolo 322-ter, primo comma: infatti, dopo le parole: «a tale prezzo» sono state aggiunte le seguenti: «o profitto». A seguito dell'intervento del Legislatore, non v'è pertanto dubbio che, per quanto concerne la misura di sicurezza della confisca per i delitti contenuti nel titolo II del Libro I del codice penale, ai sensi del novellato art. 322-ter c.p., in caso di condanna, è possibile disporre l'ablazione per equivalente non solo del prezzo del reato (cioè del corrispettivo per l'acquisto dell'utilità ) ma anche del suo profitto, estendendo quindi la ritenzione a beni il cui valore corrisponde all'utilità economica immediatamente derivante dall'avvenuto compimento del fatto illecito. Laddove, quindi, le condotte criminose di Tizio fossero totalmente o parzialmente posteriori all'entrata in vigore della L. 6 novembre 2012, n. 190, i beni di Tizio potranno essere validamente confiscati. | |
Da: mg | 12/12/2012 14:14:59 |
novità sulle soluzioni????????? | |
Da: consegna a Roma | 12/12/2012 14:22:09 |
sapete l'ora di consegna a Roma? notizie? | |
Da: s28 | 12/12/2012 14:26:40 |
ragazzi sul post fatto per la traccia della pedopornografia. | |
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Da: sangelom | 12/12/2012 14:31:30 |
Parere COMPLETO Traccia Pedopornografia Il parere in questione si propone di esaminare la questione relativa alla configurabilità o meno della fattispecie penale di cui all'art. 600 - quater cp. Nel caso in cui un soggetto detenga immagini pedopornografiche su disco rigido del proprio computer. Istituti Riferimenti Normativi: Art 600 - quater cp. (detenzione di materiale pornografico) Art 600 - ter quarto comma (divulgazione di materiale pornografico) Giurisprudenza Cassazione penale 26/06/2012 n.36024 Il delitto di detenzione consapevole di materiale pedopornografico e' un reato commissivo e permanente,la cui consumazione inizia con il procacciamento di materiale e si protrae per tutto il tempo in cui permane alla gente la disponibilita' del materiale. Cassazione penale sez III 13/01/2011 n. 639 Commette il reato di detenzione di materiale pornografico minorile,di cui all'articolo 600 - quater cp,anche colui che ha nell'hard disk del proprio computer file con immagini pornografiche destinati al cestino e quindi cancellati. Cassazione penale sez III 8/11/2007 n.41067 Nel reato di detenzione di materiale pornografico,l'elemento oggettivo consiste nelle condotte,tra loro alternative,del procurarsi che implica qualsiasi modalita' di procacciamento,compresa la via telematica e del disporre,che implica un concetto piu' ampio della detenzione,mentre l'elemento soggettivo,costituito dal dolo diretto, consiste nella volonta' di procurarsi o detenere materiale pornografico proveniente dallo sfruttamento dei minori. Svolgimento La legge n.38/2006 "Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo internet" ha modificato la precedente n. 269/1998 "Norme contro lo sfruttamento della prostituzione,della pornografia,del turismo sessuale in danno di minori,quali nuove forme di riduzione in schiavitu'". Ha sostituito l'art. 600 - quater cp il quale mira alla tutela del processo di formazione della personalita' del minore,ovvero al suo corretto sviluppo fisico,morale e psicologico. L'oggetto giuridico del reato in esame e' costituito dal bene della dignita' o nel caso di detenzione previa produzione del materiale per uso personale,dai plurimi beni della liberta' sessuale,della personalita' individuale,della dignita' della persona. Esso prevede il delitto di materiale pornografico. Sul piano obiettivo,i suoi elementi costitutivi sono la detenzione avente l'indicato contenuto; sul piano soggettivo,la consapevolezza della detenzione del materiale,ma soprattutto della natura illecita e inspecifico riguardante lo sfruttamento di minori del materiale stesso. La condotta consiste nel procurarsi o detenere materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni 18. Quindi per configurarsi tali reato e' necessario che il soggetto detenga o si procuri mediante materiale pornografico ottenuto utilizzando minori di anni 18,in quanto nel nostro ordinamento e' lecita la detenzione di materiale pornografico. La novella del 2006 ha provveduto a sostituire il termine sfruttamento "con quello di utilizzazione" onde evitare interpretazioni condizionate dal concetto di sfruttamento elaborato in dottrina e giurisprudenza con riferimento al delitto di sfruttamento della prostituzione previsto dalla legge Merlin,secondo cui,ai fini della sussistenza dello sfruttamento e quindi del reato,era essenziale la finalita' lucrativa o commerciale. Sul punto infatti erano intervenute anche le sezioni unite della corte di cassazione che con la celebre sentenza n.13 del 05/07/2000,avevano accolto una concezione ampia del termine sfruttamento,non circoscritta alle sole condotte implicanti la realizzazione di un lucro in senso stretto,bensi' tale da comprendere tutte le attivita' in grado di determinare il concreto pericolo di diffusione del materiale pornografico. Cio' detto,e' facilmente comprensibile il motivo per cui il legislatore ha eliminato dal testo il richiamo al concetto di sfruttamento: ai fini della realizzazione del fatto tipico,il legislatore ha inteso essere sufficiente aver fatto uso di minori di eta' per la produzione di esibizioni o materiale pornografici,seppure in assenza di finalita' lucrative o commerciali. In quanto il legislatore mira alla punizione del consumatore finale di materiale a contenuto pedopornografico. Per cui nella fattispecie cui analizzata e' punito il consumatore finale in quanto si ritiene rilevante il mero possesso di tale materiale. Il reato si perfeziona nel momento dell'acquisita disponibilità del materiale,si tratta quindi di un reato istantaneo e non permanente;soggetto attivo puo' essere chiunque per cui trattasi di reato comune l'elemento soggettivo e' il dolo generico che consiste nella volontà di acquisire o di tenere a propria disposizione il materiale pornografico con la consapevolezza che il materiale riguardi minori infra quattordicenni e che è stato prodotto durante lo sfruttamento dei medesimi. Il secondo comma dell'art. 600 ter cp,sanziona invece il commercio di materiale pornografico ed è quindi teso ad anticipare la tutela penale mediante l'indebolimento dei canali di distribuzione di tale materiale. Il terzo comma invece incrimina le condotte di distribuzione,divulgazione, pubblicizzazione e divulgazione del materiale in oggetto. Questi tipi di condotte,sono punite poiche' sottendono l'instaurarsi di una relazione comunicativa con piu' soggetti,espressiva della loro concreta pericolosita' per il bene protetto. La clausola relativa alla relizzabilità della condotta anche per via telematica è diretta a prevenire quelle condotte di sfruttamento e reificazione dei minori che tali oggetti presuppongono o incentivano. Appare evidente quindi che lo scopo della norma è reso piu' palese dall'inciso "con qualsiasi mezzo" il quale stà a significare che la condotta tipica possa essere realizzata a prescindere dall'attività che viene posta in essere per la diffusione del materiale. Il quarto comma sanziona con la pena congiunta della reclusione e della multa la condotta di "cessione o offerta" anche a titolo gratuito di materiale pedopornografico. In ultimo la legge 38 del 2006 ha introdotto al quinto comma dell'art 600 ter una circostanza aggravante ad effetto speciale per i reati previsti dal terzo e quarto comma,da applicarsi ogni qualvolta la diffusione e cessione riguardi un'ingente quantità di materiale pornografico. Nel caso in esame,occorre accertare se la condotta possa configurare il reato ex art 600 quater cp. Nella fattispecie in esame è fondamentale la verifica del carattere consapevole e volontario della memorizzazione sul disco rigido del pc,detenuto da Tizio delle immagini di carattere pornografiche rinvenute in un file. Ora alla luce delle considerazioni svolte,nel caso di specie,deve ritenersi che la condotta realizzata da Tizio è configurabile il reato di cui all'art. 600 quater ma il concorso con il delitto di cessione di materiale pedopornografico e' escluso,in quanto la condotta di detenzione rappresenta un antefatto non punibile rispetto a quella di cessione rimanendo assorbita a quest'ultima. Cassazione 10/07/2008 - 23/09/2008 n.364 . Per cui Tizio è punibile del reato di cui all'art. 600 ter quarto comma il quale prevede la reclusione fino a tre anni e con la multa da euro 1549 a 5164 con l'aumento della pena previsto dal quinto comma ove il materiale sia di ingente quantità . | |
Da: avvocatoinvocato | 12/12/2012 14:34:44 |
Ma come è possibile per un candidato conoscere la legge 190 del 2012???? Un codice cartaceo non può ancora essersi così aggiornato!! | |
Da: masicla | 12/12/2012 14:37:19 |
ache ora consegna padova? Novità ? | |
Da: annannnanna | 12/12/2012 14:39:51 |
mi serve l introduzione del parere x la pedopornografia,,,,, help.. | |
Da: poveri ragazzi | 12/12/2012 14:39:55 |
Qualcuno sa a che ora si consegna a Roma? | |
Da: comma | 12/12/2012 14:41:04 |
x la pedopornografia????????????????? | |
Da: asterix01 | 12/12/2012 14:56:27 |
Ricorrono L. Maria M. N., A.M. e G. avverso la ordinanza emessa in data 7 giugno 2011 dal Tribunale di Chieti, in funzione del giudice del riesame, con la quale è stato rigettato l'appello avverso l'ordinanza di quel Gip, con cui era stata negata la revoca del sequestro preventivo della somma di euro 250.000.000 versata dall'indagato C. L. e dai ricorrenti, suoi figli, a soddisfazione dei crediti per tributi evasi vantati dalla amministrazione finanziaria. A C. L., notaio, era, infatti, addebitato ex art. 314 c.p. di essersi impossessato della somma di euro 324.277,71, riscossa dagli acquirenti di beni immobili per imposte di registro, ipotecarie e catastali, nonché della somma di euro 157.052 per omesso versamento IVA per l'anno 2008. I L. denunciano che il tribunale, in violazione di legge, ha mantenuto ferma la misura, nonostante fosse pacifico che la somma di euro 250.000 appartenesse ai figli, persone estranee al reato, che avevano contratto, successivamente ai fatti, un mutuo bancario per assolvere ai tributi, come indicati nell'ordinanza cautelare emessa dal GIP di Vasto in data 12 ottobre 2010 e che, quindi, non ricorreva l'ipotesi della confisca per equivalente, non essendo il denaro in alcun modo riconducibile all'indagato. Inoltre essi non avevano tratto dal reato alcun profitto, sicché era palese la violazione dei presupposti dell'applicazione dell'art. 322 ter c.p.p. nei loro confronti. Inoltre era errata la asserzione che essi nel richiedere indietro la somma intendano mutarne la destinazione, giacché la revoca del vincolo è finalizzata all'esatto adempimento fiscale, non ancora eseguito dalla autorità giudiziaria, e quindi a garantire l'Erario. Considerato in diritto 1. La previsione di cui all'art. 322 ter introduce la confiscabilità per equivalente nel caso in cui i beni costituenti il "profitto" o il "prezzo" del reato non siano aggredibili per qualsiasi ragione. La norma prevede che la confisca possa riguardare beni dei quali il reo abbia in ogni caso "la disponibilità " per un valore corrispondente a quello che avrebbe dovuto altrimenti costituire oggetto della confisca. Nel caso in esame, il tribunale distrettuale ha individuato la disponibilità in capo all'indagato, osservando che nel momento in cui i figli diedero al padre la possibilità di uso della somma sopra indicata, costui ne fece effettivo impiego, a nulla rilevando che la provenienza non fosse strettamente collegata alla persona del L., cui il denaro era stato procurato, mediante la volontaria accensione di un mutuo dagli odierni ricorrenti, estranei al reato. Tale ragionamento, che, è in linea con i principi espressi da questa corte in ordine al concetto di "disponibilità ", che è inteso come relazione di appartenenza e di riferibilità al reo, che subisce la misura "per equivalente" su beni che non sono il profitto del reato, ma ne hanno un valore corrispondente, al fine evidente di individuare anche le forme di investimento susseguenti al delitto ed idonee ad evitare l'apprensione del maltolto mediante le ordinaria misura ex art. 240 c.p., poggia tuttavia sul presupposto che non risulta evidente dalla documentazione in atti ed è affrontato nel provvedimento con una mera affermazione assertiva. Risulta, infatti, che la somma in questione venne, con la dichiarazione del 25 ottobre 2010, allegata al deposito (g 15 del fascicolo PM trasmesso al Tribunale della libertà ), offerta dai tre figli dell'indagato per l'estinzione del debito tributario, ed in tale prospettiva essa era stata erogata da un istituto bancario di Vasto - presso cui era stato acceso un mutuo - mediante accreditamento sul conto corrente n. (…). Ora, tale dichiarazione lascia del tutto irrisolta la questione se il notaio avesse o meno acquisito in quel momento la disponibilità della somma; si tratta invero di denaro conseguito dai figli, mediante una operazione bancaria riferibile solo a loro; pertanto, per la operatività della confisca per equivalente occorreva acquisire la ragionevole certezza che tale somma fosse in concreto entrata nel patrimonio dell'indagato. Senza una siffatta dimostrazione, la dichiarazione assume altro valore, ossia quello di una semplice destinazione di scopo del denaro, che, come ribadito dai ricorrenti, è stato approntato per la definizione della posizione tributaria e che tale finalità manterrebbe anche in caso di dissequestro. La impugnata ordinanza è dunque da annullare sul punto, affinché venga accertato lo snodo fondamentale della effettiva disponibilità in capo al notaio L. e gli atti sono, dunque, da rimettere al Tribunale di Chieti per un nuovo esame. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Chieti Depositata in Cancelleria il 20.10.2011 | |
Da: tacchiman77 | 12/12/2012 14:57:52 |
io la conoscevo da 20 giorni, infatti avevo anche stampato il testo penale con tutte le modifiche. La confisca l'hanno fatta uscire sia perchè modiifcata nel testo sia perchè vi era un dibattito lunghissimo proprio sulle questioni a ciò legate. Ormai le novità sono all'ordine del giorno se uno aspetta solo di limitarsi ai codici è perso. Il peggio è diritto amminsitrativo : ogni due giorni vi sono modifiche legislative (vedi codice contratti pubblici). | |
Da: caludiacali | 12/12/2012 14:58:32 |
- Messaggio eliminato - | |
Da: allarme per salerno | 12/12/2012 14:59:55 |
stanno passando con i metal detector attenzione | |
Da: Esami maledetti | 12/12/2012 15:00:54 |
Chi mi sa dire se vale la data di commissioni del fatto o di scoperta dell'illecito? | |
Da: MARRRR | 12/12/2012 15:01:55 |
nessuno ha redatto il parere sulla pedopornografia? è corretto inserire la l 269/98 | |
Da: xclaudiacali | 12/12/2012 15:02:48 |
un bel vedere,......ma nn t vergogni????devi aspettare l'esam d abilitaz x vedere qlks...pensa cm stai mexa.......invece d stare qua sul sito e cazzeg nei bagni a vedere i piselli.....vai a scrivere!!qst vuol dire fare l'avvocato???vergognaaaaaaaaaaaaaaaaatiiiiiiii | |
Da: asterix01 | 12/12/2012 15:09:49 |
TRIBUNALE DI COSENZA II SEZIONE PENALE - Riesame Il Tribunale, riunito in Camera di Consiglio, composto dai sigg. magistrati: Dott. ssa Antonia Gallo Presidente 1 Cass. 1996, n. 10020 e 2000, n. 8128. 2 Sez. VI, n. 12852, 13/3/2006-11/4/2006, P.M. in proc. Ingravallo, Rv. 233742; Sez. VI, 13 marzo 2006, dep. 11 aprile 2006, n. 12853, P.M. in proc. Fornarelli, , e Sez. VI, n. 17566, 13/3/2006-22/5/2006, P.M. in proc. Tortorici. 3 Cass. 7 aprile 2005, n. 33369, Posteraro. 4 Cass. S.U. 28/4/1999 n. 9. 5 Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2005, Muci. 6 Cass. 14/6/2006 n. 31988 e 4/11/2003 n. 46780. 7 Cass. Sez. Un. 25/10/2007, n. 10280. Dott. Francesco Branda Giudice relatore Dott. Piero Santese Giudice decidendo sull'istanza di riesame presentata, in data 19/5/09 nell'interesse di L. G., n. a X. il ****, avverso il decreto di sequestro preventivo, emesso dal GIP di Castrovillari in data 8/5/09 ed eseguito il 12 successivo, in cui il L. risulta indagato per i reati di cui all'art. 314 c.p.p, consumati in Castrovillari dal marzo 2008 al marzo 2009; esaminati gli atti pervenuti presso questo Ufficio in data 26/5/09; rilevata la regolare costituzione del rapporto processuale per avere le parti ricevuto i prescritti avvisi ex combinato disposto artt. 322 e 324 c.p.p.; rilevata la tempestività della richiesta ex art. 322 c.p.p.; letti gli artt. 322 ter c.p., 321 co 2 cp.p.p; a scioglimento della riserva assunta all'udienza del 4/6/09, ha pronunciato la seguente ORDINANZA In fatto e diritto Il Gip del Tribunale di Castrovillari, in data 8/5/09, disponeva il sequestro preventivo ai sensi dell'articolo 322 ter, I comma, ultima parte, avente ad oggetto una serie di beni immobili e mobili, nonché conti correnti e titoli, intestati al notaio L. G., ritenendo che i suddetti beni costituissero l'equivalente del profitto del reato di peculato. L'ipotesi posta a base della misura era integrata dalla condotta del L., che in qualità di notaio delegato ex art. 591 bis c.p.c. dal Giudice dell'esecuzione presso il Tribunale di Castrovillari, avendo per ragione del suo ufficio il possesso o comunque la disponibilità di euro 3.372.495,59 provento delle vendite delegate, se ne sarebbe illecitamente appropriato. In proposito, il GIP evidenziava una serie di gravi indizi, tra cui le sommarie informazioni rese dal giudice dell'esecuzione, gli esiti delle intercettazioni telefoniche e degli accertamenti bancari, peraltro già apprezzati dal Tribunale del riesame- misure personali, che aveva confermato gli arresti domiciliari applicati all'indagato. Pertanto, al fine di salvaguardare le esigenze cautelari preordinate alla confisca, disponeva il sequestro per equivalente, ai sensi dell'articolo 322 ter c.p. , ancorato all'ipotesi di reato prevista e punita dall'articolo 314 c.p., ritenendo che la misura potesse essere rapportata non soltanto al "prezzo", come espressamente previsto dalla predetta disposizione del codice di rito, ma anche al "profitto", sulla base di una lettura complessiva della norma. La tesi difensiva, prospettata nella richiesta di riesame ed elaborata nell'udienza camerale, si articola in tre proposizioni, così sintetizzate. Con la prima eccezione, è stata dedotta l'insussistenza del fumus, difettando elementi da cui desumere l'interversione nel possesso delle somme provenienti dalle vendite dei beni subastati. La doglianza è priva di fondamento. Va innanzitutto evidenziato che - come emerge dagli atti trasmessi - l'indagato ha ammesso di aver versato sul proprio conto personale il ricavato delle vendite giudiziarie delegategli, deducendo, inverosimilmente, di essere stato a ciò autorizzato dal giudice dell'esecuzione. La prospettata autorizzazione, non rinvenuta in alcun atto delle procedure esecutive, è stata espressamente negata dai magistrati dell'ufficio esecuzione, sentiti a sommarie informazioni, i quali oltre a negare di aver mai dato tale assenso, hanno pure aggiunto di aver sollecitato reiteratamente il notaio a versare le somme su libretti di deposito giudiziario vincolati alle procedure, accesi con gravissimo ritardo, in alcuni casi anche dopo sette anni dall'aggiudicazione dei beni. Ed addirittura, anziché ottemperare all'ordine di versare su tali libretti il ricavato delle vendite, costui chiese un proroga, implicitamente riconoscendo di non aver più a disposizione il danaro ricevuto dagli aggiudicatari. In effetti, come emerge dalle intercettazioni, l'indagato contestualmente si attivò cercando il sostegno economico di amici e colleghi per poter provvedere alla restituzione delle somme da depositare, con ciò dimostrando che egli aveva utilizzato, per fini propri, il ricavato delle vendite giudiziarie, non avendone più la materiale disponibilità . Tanto basta a configurare ben più del fumus in ordine al reato di peculato, ravvisabile nella condotta del pubblico ufficiale che omette o ritarda di versare ciò che ha ricevuto per conto della pubblica amministrazione; costui infatti non è inadempiente ad un debito pecuniario nei confronti della predetta, ma all'obbligo di consegnare il denaro al suo legittimo proprietario (la p.a.): pertanto sottraendo la "res" alla disponibilità di quest'ultima realizza l'appropriazione sanzionata dall'art. 314 cod. pen. (peculato) intesa come interversione del titolo di possesso.1 Con il secondo motivo, si sostiene che, in ipotesi di peculato, la confisca per equivalente, e quindi il sequestro strumentale alla misura ablatoria, debba avere come parametro il solo "prezzo" del reato, come impone la lettera della disposizione applicata, conseguendone l'inapplicabilità nei confronti di beni il cui valore sia rapportato al "profitto". La censura deve essere accolta. La Suprema Corte, nei casi in cui è stata chiamata a pronunciarsi espressamente in ordine al sequestro (finalizzato alla confisca) per l'equivalente del profitto ottenuto dal peculato, ha dato finora risposta negativa, valorizzando il dato letterale contenuto nell'ultima parte dell'articolo 322 ter comma 1, c.p.p., che appunto prevede la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità , per un valore corrispondente a tale prezzo, da individuarsi nel compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell'esecuzione dell'illecito 2. La Suprema Corte si è costantemente attenuta alla configurazione del profitto e del prezzo, così delineata in senso tecnico, non accogliendo le istanze volte a dilatare il termine "prezzo", così da includervi qualsiasi utilità connessa al reato. 3 In difetto di alcuna specifica definizione normativa, ha -in linea generale - affermato che il profitto del reato va identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato, contrapposto al "prodotto" e al "prezzo" del reato. Il prodotto è il risultato empirico dell'illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato; il prezzo va individuato nel compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell'esecuzione dell'illecito. Carattere onnicomprensivo ha attribuito -poi- alla locuzione "provento del reato", che ricomprenderebbe "tutto ciò che deriva dalla commissione del reato" e, quindi, le diverse nozioni di "prodotto", "profitto" e "prezzo". 4 Il Supremo Collegio non si è mai discostato dalla delineata distinzione dei concetti in senso tecnico; e, infatti, laddove ha ritenuto - come nel caso della truffa aggravata - di poter estendere il sequestro per equivalente al profitto, non ha seguito la via della interpretazione in senso atecnico ed estensivo del termine "prezzo" indicato al primo comma dell'articolo 322 ter c.p.p., bensì ha seguito il percorso della applicabilità al caso esaminato del comma successivo, che appunto consente il sequestro per equivalente del profitto; e ciò in virtù del richiamo esplicito contenuto nell'articolo 640 quater c.p. all'intero articolo 322 ter, senza alcuna distinzione di parti5. Dunque, ed in sintesi, nella giurisprudenza della Suprema Corte è assolutamente prevalente la tesi secondo cui, in ipotesi di confisca per equivalente avente il peculato come reato presupposto, permane il limite rapportato al prezzo del reato, nozione in cui non è riconducibile il profitto. Per completezza, si deve sottolineare che, come pure segnalato dal P.M., nella memoria trasmessa a questo Tribunale, la questione - sulla confiscabilità per l'equivalente del profitto nel peculato - è attualmente pendente dinanzi alla Sezioni Unite. Tuttavia, dato l'obbligo di provvedere in ordine all'istanza di riesame nel termine perentorio di giorni 10 dalla ricezione degli atti, non è possibile attendere il pronunciato del Collegio più autorevole. A sommesso avviso di questo Tribunale non resta che aderire - obtorto collo - all'orientamento restrittivo finora seguito dalla Suprema Corte. Infatti, la disciplina che, in relazione al reato di peculato, limita la confisca all'equivalente del solo prezzo, pur palesando un evidente errore da parte del legislatore, non appare colmabile attraverso alcuna forma di interpretazione che non si risolva in una sostanziale interpolazione giurisprudenziale del dettato normativo, certamente non consentita. Il fatto che in tutto ciò possa ravvisarsi una manchevolezza è facilmente desumibile dall'excursus legislativo. Com'e' noto, le norme innovative de quibus sono state introdotte nel nostro ordinamento con la legge n. 300 del 29 settembre 2000, che autorizzo' la ratifica di una serie di importanti convenzioni internazionali, fra cui, in particolare, la Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunita' europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, la Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunita' europee o degli Stati membri dell'Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997, e la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. In quest'ultimo atto, sulla scia del gia' ricordato indirizzo inaugurato negli anni '80, volto a impegnare gli Stati all'adozione di strumenti piu' incisivi per colpire i vantaggi economici derivanti dall'attivita' criminosa, facendo anche ricorso, oltre che alla confisca in forma specifica dei proventi, a quella ricadente su beni di valore ad essi "equivalente" (c.d. confisca di valore), si prevedeva, fra l'altro (all'art. 3, par. 3), che ciascuna Parte adottasse le misure necessarie affinche' la «tangente» ed i «proventi derivanti dalla corruzione» di un pubblico ufficiale straniero, o «i beni il cui valore corrisponde a quello di tali proventi», fossero soggetti a sequestro e a confisca o comunque a sanzioni pecuniarie di analogo effetto. Il Rapporto esplicativo chiariva che con il termine «proceeds» dovevano intendersi «i profitti o gli altri benefici derivati al corruttore dalla transazione» o «gli altri vantaggi ottenuti o mantenuti attraverso la corruzione». Nella Relazione illustrativa del progetto di iniziativa governativa (A.C. 5491) della legge di ratifica dei suddetti atti internazionali, presentato alla Camera dei deputati il 4 dicembre 1998, si sottolineava, con riferimento alla Convenzione OCSE sulla corruzione dei funzionari stranieri, la necessita' di un apposito intervento di adeguamento sia per «stabilire l'obbligatorieta' della confisca dei proventi dei fatti di corruzione» - in quanto la disposizione generale dell'art. 240, primo comma, c.p., prevedeva la confisca del «profitto» del reato soltanto come meramente facoltativa -, sia per «introdurre la possibilita' della confisca cosiddetta "di valore"», destinata ad operare nei casi in cui la confisca «diretta» della tangente o dei «proventi della corruzione» fosse risultata, per qualunque ragione, non praticabile, ed avente ad oggetto beni del reo di pregio corrispondente. Il progetto di legge, nel prevedere l'introduzione della confisca di valore, ne aveva esteso il campo di applicazione - per non «dar luogo a disparita' di trattamento prive di razionale giustificazione» - a tutte le ipotesi di corruzione (e di concussione) gia' contemplate dall'ordinamento, non limitandolo a quelle specificamente prese in considerazione dallo strumento internazionale, riguardanti il solo funzionario straniero. Il testo del d.d.l. con riferimento all'art. 322 ter c.p. era per l'esattezza il seguente: "Nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per alcuno dei reati previsti dagli articoli da 317 a 322-bis, e' sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non e' possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilita', per un valore corrispondente a tale profitto o prezzo". Nei successivi passaggi dei lavori parlamentari la disposizione sulla confisca contenuta nell'art. 322 ter c.p. fu oggetto di ripetuti assestamenti. Il primo significativo passaggio si ebbe nel corso dei lavori del Senato, dopo che la Camera aveva approvato la versione dell'art. 322 ter c.p. proposta dal disegno di legge. In seno alle Commissioni riunite II (Giustizia) e III (Affari esteri) del Senato, il Comitato ristretto presento' una nuova versione dell'art. 322 ter c.p., nella quale si introdusse una distinzione formale e sostanziale fra la disciplina della confisca relativa alla fattispecie del pubblico ufficiale corrotto e quella riguardante invece il corruttore. Per il primo, la confisca obbligatoria veniva estesa, oltre che al prezzo ed al profitto, alle «altre utilita' indebitamente ricevute», e la confisca per equivalente veniva parametrata al valore corrispondente a quello «del denaro o delle altre utilita' ricevute». Nella diversa ipotesi del corruttore (di cui all'art. 321 c.p.), la confisca obbligatoria riguardava il solo «profitto» del reato, e quella per equivalente era commisurata al valore corrispondente a quello di detto profitto ed in ogni caso non inferiore a quello del denaro o delle altre utilita' date o promesse al pubblico ufficiale corrotto. Nella definitiva stesura si ebbero, quindi, ulteriori modifiche, tra cui - per quanto di interesse - l'inserimento, fra i reati richiamati, di quello di peculato nella norma corrispondente all'attuale comma 1 dell'art. 322 ter; l'espresso riferimento al "prezzo" quale parametro di corrispondenza del valore dei beni da assoggettare alla confisca per equivalente; il ripristino del secondo comma dell'articolo 322 ter, relativo alla fattispecie di cui all'art. 321 c.p., con la confermata necessita' di operare una distinzione «tra le diverse situazioni del corruttore e del corrotto rispetto all'applicazione della confisca»; il ripristino della disposizione (di cui al terzo comma) sui compiti "indicativi" del giudice; Appare evidente che, nella formulazione ultima dell'articolo, il dichiarato disegno - che e' alla base della separazione e del diverso tenore dei commi primo e secondo - di tenere distinte, rispetto all'applicazione della confisca, la situazione del corrotto (cui veniva assimilato il concussore) e quella del corruttore, e' rimasto in parte offuscato dall'estensione della applicazione della disposizione del primo comma a fattispecie delittuose - tra cui il peculato - in cui non e' normalmente ravvisabile la percezione di un quantum, erogato da terzi, da parte di un pubblico operatore o addirittura neppure un'attivita' criminosa propria di quest'ultimo. Tale circostanza rende indubbiamente "stonata", rispetto alle fattispecie aggiunte, la limitazione al solo "prezzo" del parametro di riferimento per il calcolo del valore dei beni da assoggettare alla confisca per equivalente (e tale stonatura si e' accresciuta a seguito dell'emanazione del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che, nello stabilire la responsabilita' dell'ente in ordine a taluni delitti, per lo piu' coincidenti con quelli richiamati dagli artt. 322 ter e 640 quater c.p., ha in via generale - in attuazione di una specifica delega contenuta nella stessa L. 300 del 2000 - previsto, all'art. 19, in caso di condanna, la obbligatoria confisca nei confronti dell'ente del prezzo o del profitto del reato, salvo per la parte che possa essere restituita al danneggiato, ed, in caso di impossibilita', la confisca di «somme di denaro, beni o altre utilita' di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato»). Di recente, con la Legge 25 febbraio 2008, n. 34, contente «Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria 2007», è stata delegata al Governo l'attuazione, entro 12 mesi, di varie decisioni-quadro dell'Unione europea, tra le quali la decisione quadro 2005/212/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 2005, relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato. Con quest'ultima Decisione-quadro è stata chiesta agli Stati membri dell'U.E. l'adozione, entro il 15 marzo 2007, delle «misure necessarie per poter procedere alla confisca totale o parziale di strumenti o proventi di reati punibili con una pena privativa della libertà superiore ad un anno o di beni il cui valore corrisponda a tali proventi» (lo strumento qualifica come «provento» «ogni vantaggio economico derivato da reati») (art. 28). Salvo il limite di pena edittale, è evidente l'estensione generalizzata della confisca su altri beni di valore equivalente a quello delle cose che costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto del reato. I relativi decreti legislativi non sono stati emanati. Si pone perciò la questione di stabilire se sia consentita una interpretazione dell'articolo 322 ter conforme alla suddetta decisone quadro. E'da ritenere che non vi sia spazio per una interpretazione adeguatrice che permetta di riportare la sfera applicativa della norma nel quadro delle convenzioni internazionali, a cui avrebbe dovuto dare attuazione, estendendo la confisca per equivalente anche in relazione al profitto del reato di peculato. Le linee direttrici della cosiddetta interpretazione adeguatrice sono state puntualmente illustrate in una recente decisione della grande sezione Corte di Giustizia delle Comunità Europee- sentenza 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino - in cui sono stati affermati i seguenti prinicipi. Premesso che "il principio di interpretazione conforme si impone riguardo alle decisioni quadro adottate nell'ambito del titolo VI del Trattato sull'Unione europea, applicando il diritto nazionale, il giudice del rinvio chiamato ad interpretare quest'ultimo è tenuto a farlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo della decisione quadro al fine di conseguire il risultato perseguito da questa e di conformarsi così all'art. 34, n. 2, lett. b), UE. Occorre tuttavia rilevare che l'obbligo per il giudice nazionale di far riferimento al contenuto di una decisione quadro quando interpreta le norme pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, ed in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività . Questi principi ostano in particolare a che il detto obbligo possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione quadro e indipendentemente da una legge adottata per l'attuazione di quest'ultima, la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni (v., per quanto riguarda le direttive comunitarie, in particolare, sentenze X, citata, punto 24, e 3 maggio 2005, cause riunite C 387/02, C 391/02 e C 403/02, Berlusconi e a., Racc. pag. I 3565, punto 74). L'obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una decisione quadro nell'interpretazione delle norme pertinenti del suo diritto nazionale cessa quando quest'ultimo non può ricevere un'applicazione tale da sfociare in un risultato compatibile con quello perseguito da tale decisione quadro. In altri termini, il principio di interpretazione conforme non può servire da fondamento ad un'interpretazione contra legem del diritto nazionale. Tale principio richiede tuttavia che il giudice nazionale prenda in considerazione, se del caso, il diritto nazionale nel suo complesso per valutare in che misura quest'ultimo può ricevere un'applicazione tale da non sfociare in un risultato contrario a quello perseguito dalla decisione quadro". In sintesi, alla luce dei fondamentali principi di certezza del diritto e di irretroattività delle norme di portata sostanziale e sanzionatoria, la pur auspicata interpretazione adeguatrice non può comunque arrivare a stravolgere in peius il significato letterale della norma di diritto nazionale. Con riferimento al caso di specie, si ritiene che non sia possibile estendere il sequestro (finalizzato alla confisca) di beni per il valore equivalente al profitto tecnicamente inteso. Premesso che la misura in esame, costituendo una «forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti», viene ad assumere un carattere preminentemente sanzionatorio (vedi, Cass 16/1/2004, Napolitano), va innanzitutto precisato che, ovviamente, non potrebbe essere ammessa una portata di estensione «analogica» dell'eccezionale istituto della confisca per equivalente; estensione costituzionalmente inibita in campo penale. Inoltre, il principio di certezza del diritto, ostacola irrimediabilmente una interpretazione, contro la lettera della legge, che possa consentire la fusione dei concetti, sino ad oggi nettamente distinti, di prezzo e di profitto del reato. E tutto ciò con il peso di una applicazione sostanzialmente retroattiva in peius, in considerazione della univoca elaborazione giurisprudenziale finora formatasi, appunto nel senso che la confisca ( e quindi il sequestro strumentale) per equivalente debba essere limitato in relazione al prezzo dei reati catalogati al primo comma dell'articolo 322 ter c.p.p.. Di certo, la "stonatura", effettivamente emerge, ma può essere riaccordata soltanto dallo stesso legislatore; non dal giudice, il quale, diversamente operando, oltrepasserebbe i limiti della giurisdizione. Quale conseguenza applicativa delle superiori argomentazioni, va disposta la revoca del sequestro per l'equivalente del profitto del reato di peculato, avente ad oggetto beni non direttamente ottenuti mediante la condotta delittuosa. Ciò non significa che tutto il compendio dei beni in sequestro debba essere restituito. Si impongono alcune distinzioni, che portano a ritenere legittimamente sottoposti a vincolo le somme di danaro depositate in banca ovvero investite in titoli. Al riguardo autorevole dottrina ha evidenziato che va comunque verificata la praticabilità della cosiddetta "confisca diretta" del profitto ai sensi dell'articolo 322 ter, comma 1, prima parte, laddove sia stata sottoposto a vincolo un bene tipicamente fungibile quale una somma di danaro. Infatti, in costanza di indizi utili a dimostrare che il danaro costituente profitto del peculato sia stato depositato in banca o investito in titoli, nulla esclude la possibilità del sequestro di tali depositi, poiché data la fungibilità del suddetto bene, non è necessario dimostrare l'esatta corrispondenza con quello materialmente oggetto di indebita appropriazione. Non altrimenti la giurisprudenza ha inteso la nozione di profitto, osservando che questa presuppone l'accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell'agente: occorre cioè una correlazione diretta del profitto col reato e una stretta affinità con l'oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità , dall'illecito.6 Sia ben chiaro, non è necessario che si tratti dello stesso bene ricevuto in conseguenza del reato, dovendosi ricomprendervi anche il bene acquistato col denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, dato che tale reimpiego è comunque casualmente ricollegabile al reato e al profitto "immediato" dello stesso.7 E ciò per l'ovvia esigenza di evitare che l'autore dell'illecito possa sottrarre il profitto alla misura ablativa ricorrendo all'escamotage di trasformare il bene ricevuto in altra utilità , individuabile nel frutto del reimpiego; anche questo, infatti, può essere causalmente ricollegabile in modo univoco all'attività criminosa posta in essere dall'agente. Nel caso di specie, sia pure nell'ottica propria del giudizio di riesame connotato dalla verifica della astratta riconducibilità dei fatti alle ipotesi di reato contestate, si ravvisano indizi per ritenere che tali somme siano riconducibili all'attività illecita. Infatti, come emerge dagli atti - e in ciò consiste il nucleo fondamentale della contestazione - il notaio L. era solito non versare il ricavato delle vendite in libretti vincolati alle procedure esecutive, ma nelle proprie casse, così da realizzare l'interversione nel possesso che concreta il peculato. E ciò fino al punto che, richiesto dal giudice dell'esecuzione di provvedere a versare il ricavato delle vendite, non è stato in grado di provvedere immediatamente, come invece avrebbe potuto fare in caso di deposito su conti separati vincolati alle procedure, ma ha addirittura richiesto proroghe per ricostituirsi la provvista, con ciò dimostrando che il danaro proveniente dalle aggiudicazioni era stato utilizzato a proprio piacimento e gestito sui conti personali, i quali perciò possono essere direttamente aggredibili con il sequestro. Tali circostanze e argomentazioni rendono evidente l'infondatezza della ulteriore censura, attinente alla non riferibilità dei beni in sequestro al profitto derivante dal peculato. Restano pertanto legittimamente in sequestro i conti correnti e i titoli in deposito. Non ugualmente è a dirsi per i beni immobili e per l'autovettura, non ravvisandosi indizi per ritenere che gli stessi siano stati acquistati mediante il reinvestimento delle somme di danaro oggetto di illecita appropriazione. Per completezza, va evidenziato che la soluzione adottata non è ostacolata dall'originaria qualificazione del sequestro per equivalente anziché in forma diretta, essendo noto infatti che rientra tra i poteri del giudice del riesame diversamente qualificare la misura, rispetto alla originaria prospettazione formulata dal giudice a quo (Cass. 2000, n. 3817). P.Q.M. Accoglie in parte la richiesta di riesame sopra specificata e, per l'effetto, annulla il decreto di sequestro relativo ai beni, mobili ed immobili, come in esso individuati laddove mantiene ferma, ai sensi dell'art. 321 co. 2 c.p.p., la misura relativamente ai conti correnti e ai dossier dei titoli da essa misura attinti. | |
Da: avv | 12/12/2012 15:12:11 |
qnd consegna ct? | |
Da: eipigreco | 12/12/2012 15:20:52 |
e poi dicono che i matematici sono strani .... | |
Da: Avvocato 1980 | 12/12/2012 15:20:55 |
PARERE 1 La prima problematica che viene in rilievo nel caso di specie attiene alla possibilità di ritenere integrati gli estremi del delitto di peculato dalla condotta di Tizio, il quale, come si evince dalla traccia, riveste la qualità di pubblico ufficiale. L'art. 314 c.p., come da ultimo novellato dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, prevede espressamente che "Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni". Nella giurisprudenza della Suprema Corte si osserva un indirizzo interpretativo pacifico secondo il quale il momento consumativo del delitto di peculato deve individuarsi nel comportamento appropriativo dell'agente avente a oggetto il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia il possesso per ragioni d'ufficio o di servizio. In particolare, peraltro, a detta della Corte, l'interesse all'integrità patrimoniale della Pubblica Amministrazione viene leso dal comportamento incompatibile con il titolo per il quale si possiede il bene pubblico (ex plurimis, Cass. pen., Sez. VI, 3 novembre 2003 - 20 gennaio 2004, n. 1256) indipendentemente, quindi, dalla mancanza di danno patrimoniale conseguente all'appropriazione. In tale ipotesi, difatti, la condotta dell'agente lede l'altro interesse tutelato dalla disposizione, vale a dire il buon andamento, la legalità e l'imparzialità dell'amministrazione (Cass. pen., Sez. VI, 4 ottobre 2004 - 31 gennaio 2005, n. 2963). A ciò si aggiunga che, secondo l'opinione della Suprema Corte "Non v'è dubbio che la condotta appropriativa del notaio vada qualificata come peculato. La qualifica di pubblico ufficiale spetta al notaio non solo nell'esercizio del suo potere certificativo in senso stretto, ma in tutta la sua complessa attività , disciplinata da norme di diritto pubblico (legge notarile) e diretta alla formazione di atti pubblici! (Cass. Pen. SEZ. V, 11 dicembre 2009, n. 47178) Tornando al caso di specie, la circostanza che il notaio sia responsabile d'imposta ed assuma come tale la veste di coobbligato solidale, che la legge affianca al soggetto passivo d'imposta, al fine di agevolare la riscossione dei tributi, non vale certo ad escludere la qualifica pubblicistica che gli compete. Configurandosi pertanto l'ipotesi di reato prevista dall'art. 314 c.p.c., Tizio potrà essere "punito con la reclusione da quattro a dieci anni" (art. 314 c.p. così come modificato dalla, L. 6 novembre 2012, n. 190.). Nel caso di specie si ritiene peraltro che ricorra altresì la c.d. "continuazione" del reato in esame, in quanto Tizio con più azioni ha commesso una pluralità di violazioni della stessa disposizione di legge, in esecuzione del medesimo disegno criminoso. Premesso quanto sopra, occorre ora chiedersi se effettivamente la misura cautelare della confisca possa o meno avere a oggetto i beni nella disponibilità di Tizio. Nell'ambito delle misure di sicurezza la figura della confisca, la cui disciplina generale è contenuta nell'art. 240 c.p., assume un ruolo peculiare, Attraverso detta misura ablatoria vengono acquisiti dallo Stato beni che per la loro intrinseca natura ovvero per un collegamento funzionale con un illecito penale devono considerarsi criminosi. Per quanto attiene ai presupposti applicativi della confisca occorre precisare che questa, a differenza della altre misure di sicurezza, prescinde dall'accertamento della pericolosità sociale del reo, essendo sufficiente la commissione di un reato o di un quasi reato. In linea generale, essa è di applicazione facoltativa (art. 240, comma 1, c.p.) ovvero obbligatoria (art. 240, comma 2, c.p.) Attraverso la l. 29 settembre 2000, n. 300, che ha inciso sul titolo dedicato ai delitti contro la Pubblica Amministrazione, la confisca obbligatoria è stata estesa, grazie alle previsioni contenute nell'art. 322 ter c.p.. ad alcune fattispecie ivi previste e, inoltre, è stato inserito l'istituto della confisca per equivalente, già contemplato dal nostro ordinamento in materia di usura (l. 7 marzo 1996, n. 108). Il tratto che connota tale figura giuridica consiste nella possibilità , per l'autorità giudiziaria, di procedere, qualora manchino i beni che si identificano con il profitto e il prezzo del reato, all'ablazione di beni diversi per un valore equivalente al prezzo del reato (art. 322 ter, comma 1) ovvero al profitto del medesimo (art. 322 ter, comma 2, c.p.). Nel caso di specie, la questione si colloca, insomma, nel contesto relativo alla definizione dello spettro operativo della confisca per equivalente disciplinata nell'art. 322 ter c.p. L'art. 322 ter, introdotto nel codice penale dalla l. 29 settembre 2000, n. 300, in occasione delle ratifiche da parte del nostro Paese di specifiche convenzioni internazionali volte a contrastare i fenomeni corruttivi, dispone al comma 1, che in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei delitti contro la Pubblica Amministrazione previsti negli articoli da 314 a 322 c.p. è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono "il profitto o il prezzo" salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando questa non sia possibile, la confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità , per un valore corrispondente a tale "prezzo" (c.d. confisca per equivalente). Nei termini chiariti dall'autorevole insegnamento delle Sezioni unite della Suprema Corte, la ratio dell'istituto della confisca per equivalente risiede nella scelta di privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall'attività criminosa, anche di fronte all'impossibilità di aggredire l'oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale misura che assume a tutti gli effetti i tratti distintivi di una vera e propria sanzione (Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008 - 2 luglio 2008, n. 26654). Stando alla formulazione letterale della disposizione (art. 322 ter, comma 1, c.p.), come rilevato dalla costante e più recente giurisprudenza di legittimità , la confisca per equivalente non è applicabile in relazione al profitto del delitto di peculato (art. 314 c.p.), dovendo ritenersi limitata al solo tantundem del prezzo del reato (Cass. pen., Sez. VI, 5 novembre 2008 - 7 aprile 2009, n. 14966; Cass. pen., Sez. VI, 10 marzo 2009, n. 10679). Depongono a favore di questa soluzione argomenti di diversa natura. In prospettiva sistematica, si esclude che il legislatore abbia utilizzato nell'art. 322 ter c.p. il termine prezzo in senso atecnico, così da comprendere qualsiasi utilità connessa al reato, derogando alla disciplina generale stabilità nell'art. 240 c.p., ove le nozioni di prezzo e profitto sono nettamente distinte. Da un punto di vista esegetico, poi, sembra chiara la volontà del legislatore di escludere, salvo le ipotesi del comma 2 dell'art. 322 ter c.p., il profitto del reato dalla confisca per equivalente. In senso contrario si registra un isolato orientamento che aderisce a una interpretazione estensiva secondo la quale, riguardo al delitto di peculato, sono assoggettabili a confisca, ai sensi dell'art. 322 ter c.p., comma 1, beni nella disponibilità dell'imputato per un valore corrispondente a quello relativo al profitto o al prezzo del reato (Cass. pen., Sez. VI, 29 marzo 2006 - 17 luglio 2006, n. 24633). Di recente, a dirimere l'illustrato contrasto giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni unite della Suprema Corte. La Corte ha precisato che, in difetto di una nozione legale di profitto del reato, può accogliersi la ricostruzione semantica di tale concetto offerta dalla dominante giurisprudenza di legittimità secondo la quale esso deve essere identificato con il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al prodotto e al prezzo del reato. In particolare, il prodotto rappresenta ciò che materialmente deriva dall'illecito, vale a dire le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato, il prezzo, invece, deve individuarsi nel compenso dato o promesso a una determinata persona, a titolo di corrispettivo dell'esecuzione dell'illecito (ex plurimis, Cass. pen., S.U., 3 luglio 1996 - 17 ottobre 1996, n. 9149). Le Sezioni unite, pertanto, alla luce della netta distinzione fra le nozioni di prezzo e profitto del reato, unitamente alla mancanza di una chiara indicazione legislativa che attribuisca a tali termini un significato diverso da quello comunemente assegnato dalla giurisprudenza di legittimità , ritengono che non sussista alcun elemento idoneo a far ritenere che il legislatore, nella formulazione dell'art. 322 ter, comma 1 c.p., abbia usato il termine prezzo in senso atecnico, così da includere qualsiasi utilità connessa al reato sicchè, con riferimento al delitto di peculato può disporsi la confisca per equivalente prevista dall'art. 322 ter, comma 1, ultima parte c.p., soltanto del prezzo e non anche del profitto (Cass. pen., S.U., 25 giugno 2009 - 6 ottobre 2010, n. 38691). Premesso quanto sopra deve tuttavia essere rilevato, la L. 6 novembre 2012, n. 190 ha parzialmente modificato il citato articolo 322-ter, primo comma: dopo le parole: �«a tale prezzo�» sono difatti state aggiunte aggiunte le seguenti: �«o profitto�». A seguito dell'intervento del Legislatore, non v'è pertanto dubbio che, per quanto concerne la misura di sicurezza della confisca per i delitti con¬tenuti nel titolo II del Libro I del codice penale, ai sensi del novellato art. 322-ter c.p., in caso di condanna, è possibile disporre l'ablazione per equivalente non solo del prezzo del reato (cioè del corrispettivo per l'acquisto dell'utilità ) ma anche del suo profitto, estendendo quindi la ritenzione a beni il cui valo¬re corrisponde all'utilità economica immediatamente derivante dall'avvenuto compimento del fatto illecito. A ciò si aggiunga che, come affermato dalla Corte di cassazione in numerose pronunce - la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all'assenza di un "rapporto di pertinenzialità " (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni, conferiscono all'indicata confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura "eminentemente sanzionatoria", che impedisce l'applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell'articolo 200 del codice penale, secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, e possono essere, quindi, retroattive (ex multis, Cassazione penale, sentenze 39173, 39172 e 21566 del 2008). A tale conclusione si giunge sulla base della duplice considerazione che il secondo comma dell'articolo 25 della Costituzione vieta l'applicazione retroattiva di una sanzione penale, come deve qualificarsi la confisca per equivalente, e che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto in contrasto con i princÃpi sanciti dall'articolo 7 della Convenzione l'applicazione retroattiva di una confisca di beni riconducibile proprio a un'ipotesi di confisca per equivalente (Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 307A/1995, Welch v. Regno unito). Stando così le cose, si ritiene che, nel caso di specie, 1. laddove il reato sia stato commesso prima l'entrata in vigore della L. 6 novembre 2012, n. 190, Tizio potrà ottenere, previa istanza di riesame del sequestro preventivo, la restituzione dei propri beni; 2. laddove il reato sia stato commesso dopo l'entrata in vigore della L. 6 novembre 2012, n. 190, i beni di tizio potranno essere validamente confiscati. | |
Da: avvmilano | 12/12/2012 15:26:09 |
Ma se i candidati non hanno legge 2012 n 190 con se come risolvono???? | |
Da: asterix01 | 12/12/2012 15:26:48 |
ANCORA CON QUESTO 190 DEL 6 NOVEMBRE 2012....... MI SAI SPIEGARE AVVOCATO 1980 DOVE LO PRENDONO SUL CARTACEO QUESTO BENEDETTO 190? GLI FAI INVALIDARE IL COMPITO | |
Da: huih | 12/12/2012 15:27:37 |
- Messaggio eliminato - | |
Da: osservazioni | 12/12/2012 15:27:47 |
Dalla traccia non si evince con alcuna certezza che le case siano state acquistate dal notaio con le somme intascate...!pertanto,secondo me,al di là della differenza tra profitto e prezzo,le case non sono confiscabili! si può anche discutere sul tempo in cui è stato commesso il reato,sulla modifica della norma sulla confisca...ecc ecc...ma io concluderei in senso dubitativo sulla non confiscabilità delle case per l'impossibilità di evincere dalla traccia se sono "profitto " del reato"! non so se siete d'accordo | |
Da: Avvocato 1980 | 12/12/2012 15:28:41 |
ASTERIX - se sei un avv. in teoria dovresti aggiornarti indipendentemente da quello che c'è scritto sul codice che magari hai comprato 1 anno fa | |
Da: MARRRR | 12/12/2012 15:30:04 |
mi chiedo il motivo per cui hanno optato tutti o quasi per la 1 traccia, nonostante le difficoltà evidenti connesse ad essa.. è possibile dibattere con qualcuno sul secondo parere? | |
Da: dubbioatroce | 12/12/2012 15:31:18 |
Traccia pornografia Qualcuno può confermare la teoria secondo cui le prove sarebbero illegittime ai sensi della L.269/98 (applicabilità delle prove solo in riferimento al 600-ter commi 1,2,3 E NON 600-ter co.4 e 600 quater)? Inoltre, visto che il testo parla di fattispecie al plurale, ritenete si debba citare altro (es. reato informatico?). Grazie | |
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