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ESAME SCRITTO 2010
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Da: alfredo14/12/2010 12:41:28
salernitano invece di dire cazzate,perche nn ti rendi utile

Da: Tizzy14/12/2010 12:42:07
Si a Napoli hanno iniziato e mi hanno dato conferma delle tracce

Da: skeggetta14/12/2010 12:42:27
giosal vedi pag 51 "ale"

Da: VVV14/12/2010 12:42:57
(Ragazzi, scusate, notizie da Roma? a che ora hanno iniziato a dettare?)

Da: anna maria14/12/2010 12:43:25
qualcuno mi dice comwe va a lecce

Da: Big14/12/2010 12:43:59
Altro materiale da rielaborare

2.1. Il recesso per giusta causa.
Se al cliente il diritto di recesso è riconosciuto dalla legge nella forma più ampia, soprattutto a motivo dell' intuitus personae, che caratterizza il contratto d'opera intellettuale, anche al professionista viene concessa la facoltà di recedere dal rapporto, ma con alcune limitazioni.
In base all'art. 2237, comma 2, c.c., infatti, il prestatore d'opera può recedere solo per giusta causa.
La differente disciplina del recesso per il cliente e per il professionista ha dato adito a dubbi circa la conformità alla Costituzione dell'art. 2237 c.c.; dubbi peraltro fugati dalla Corte costituzionale, che non ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, motivando la sua decisione con la sostanziale diversità dei due rapporti (34)

(34) Sull'infondatezza della questione di costituzionalità dell'art. 2237 c.c., in rapporto al principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., (questione promossa da Pret. Postiglione 17 dicembre 1969, in Giur. cost., 1971, p. 1385 e da App. Roma 20 novembre 1972, in Temi, 1974, p. 299), nella parte in cui regola il recesso del professionista in modo diverso da quello del committente, si veda Corte cost. 13 febbraio 1974, n. 25, cit.
Secondo tale pronunzia, il diritto di recesso unilateralmente riconosciuto al cliente non dà origine ad una disparità di situazioni nei confronti del prestatore d'opera, ma si sostanzia in una posizione negoziale che deriva razionalmente dalla struttura stessa del rapporto contrattuale e dalla differente natura delle rispettive prestazioni.
Considerata la natura del negozio, è pienamente razionale che il prestatore d'opera non abbia diritto alla prosecuzione del rapporto, una volta che il cliente abbia revocato l'incarico, così come è razionale che lo stesso professionista non possa recedere discrezionalmente dal contratto se non per giusta causa e in maniera da evitare qualsiasi pregiudizio al committente. .
In particolare, può dirsi che la differenza di posizioni si fonda nella evidenza pubblica dell'esercizio della professione e, quindi, nella natura pure pubblica dell'interesse da tutelare, che incorpora in sé l'interesse delle parti private (35)

(35) Sul punto, si veda G. Giacobbe, voce Professioni intellettuali, cit., p. 1082. .
In ogni caso, la previsione del diritto di recesso, sia pure condizionato, in capo al professionista trova la sua ragione d'essere nella tutela della libertà morale e di pensiero del professionista medesimo, nonché in una certa rilevanza, anche per esso, dell'elemento fiduciario. Infatti, un cliente poco affidabile potrebbe non fornire adeguate garanzie circa la corresponsione del compenso oltre ad essere nocivo per l'immagine del professionista (36)

(36) In materia, si rimanda a G. Giacobbe e D. Giacobbe, Il lavoro autonomo, cit., p. 216.
Circa la natura del diritto di recesso per giusta causa, si registra l'affermazione di Sangiorgi, Rapporti di durata e recesso ad nutum, cit., p. 182, che ritiene trattarsi di un diritto potestativo, al contrario del recesso discrezionale. .
Può, inoltre, ritenersi che l'art. 2237, comma 2, c.c. sia suscettibile di deroga nelle pattuizioni contrattuali, consentendo, così, al professionista di godere egualmente della possibilità di recesso discrezionale, con il limite, a nostro parere, necessario per la tutela del contraente più debole, di un congruo termine di avviso, affinché il cliente sia messo in grado di provvedere diversamente alle proprie necessità (37)

(37) Circa la possibilità di concedere negozialmente al professionista la possibilità di recedere senza la necessità della sussistenza di una giusta causa, per la dottrina, si veda Sangiorgi, Rapporti di durata e recesso ad nutum, cit., p. 160.
Per la giurisprudenza, circa la deroga convenzionale al disposto dell'art. 2237, comma 2, c.c., cfr. Cass. 6 agosto 1975, n. 2995, in Foro it., 1975, I, c. 2458. .
Per quanto attiene alla definizione della giusta causa, necessaria, in base alla normativa codicistica, per il recesso del professionista, si è rilevato come sia difficile stabilirne una individuazione a priori, poiché si concreta, in genere, in circostanze la cui valutazione può essere compiuta solo caso per caso.
Si ritengono, comunque, qualificabili come giuste le cause che interferiscono sul necessario affidamento nei riguardi della prestazione anche da parte di chi si è impegnato a porla in essere, venendo, perciò, in rilievo circostanze sopravvenute tali da non consentire al professionista di adempiere ai suoi obblighi con l'obiettività e le cognizioni richieste dalla natura della prestazione.
Venendo a qualche esempio pratico, una giusta causa di recesso può rinvenirsi nel comportamento del cliente (ad esempio, il mancato anticipo delle spese occorrenti, il rifiuto di collaborare quando la collaborazione condizioni la prestazione, la sopravvenuta condanna del cliente per reati infamanti secondo la coscienza popolare e in relazione alla natura del rapporto professionale, ecc.).
Su questo punto, si rinvengono alcune limitazioni nei principi e nelle regole di deontologia professionale, in particolare in materia di professione medica, poiché la tutela della salute e la preminenza dell'interesse del malato dominano il rapporto in ogni sua vicenda (38)

(38) In materia, si veda Lega, Le libere professioni intellettuali nelle leggi e nella giurisprudenza, cit., p. 796.
Più in generale, il concetto di giusta causa del recesso da parte del prestatore d'opera intellettuale è trattato da Burragato, Riflessioni in tema di recesso nel contratto d'opera intellettuale e rapporti di durata, cit., p. 1024 ss.; SantoroPassarelli, voce Professioni intellettuali, cit., p. 27; Torrente, Del lavoro, in Commentario del codice civile, V, t. 2, Torino, 1962, p. 51; Cattaneo, La responsabilità del professionista, cit., p. 39.
Perulli, Il lavoro autonomo, cit., p. 732 ne dà un'ampia esemplificazione, inserendo, fra l'altro, i motivi di coscienza, come nella fattispecie del medico obiettore di coscienza in caso di interruzione volontaria di gravidanza.
Secondo Carnelutti, Del recesso unilaterale nel mandato di commercio, cit., p. 260, per giusta causa deve intendersi l'avvenimento «esteriore che influendo sullo svolgimento del rapporto determina la prevalenza dell'interesse di una parte alla estinzione, sull'interesse dell'altra alla conservazione del rapporto». Si tratta, dunque, di una fattispecie di sopravvenienza, come sostengono, ad esempio, Betti, Lezioni di diritto civile sui contratti agrari, Milano, 1957, p. 73 e Molitor, Problemi della disdetta, in Nuova riv. dir. comm., 1954, p. 349, il quale, con riguardo all'ipotesi di recesso straordinario, fa riferimento alla clausola rebus sic stantibus.
Per ciò che riguarda il concetto di giusta causa nell'ipotesi di prestazione intellettuale svolta in regime di subordinazione, come nella fattispecie del giornalista, cfr. Cass. 16 giugno 1982, n. 3654, in Mass. Foro it., 1982, c. 765. .
2.2. Il compenso del professionista nella fattispecie di suo recesso per giusta causa.
Mentre nella fattispecie di recesso del cliente il professionista riceve un compenso pieno per l'opera che ha svolto, nel caso in cui sia esso a recedere per giusta causa dal contratto ha diritto, oltre che al rimborso per le spese sostenute, ad un onorario determinato con riguardo al risultato utile che il cliente abbia conseguito (art. 2237, comma 2, c.c.).
Con questa precisazione, il legislatore implicitamente ammette che il diritto al compenso potrebbe anche non esservi, se il risultato non presentasse utilità alcuna. Infatti, la normale irretroattività del recesso viene ad essere ancora operante, in subordine all'esistenza di un risultato utile e, in quanto tale, non ricusabile dalla controparte. L'utilizzabilità della prestazione effettuata dovrebbe essere accertata, di preferenza, con criteri obiettivi (39)

(39) In proposito, si vedano Lega, Le libere professioni intellettuali nelle leggi e nella giurisprudenza, cit., p. 721; RivaSanseverino, Lavoro autonomo, cit., p. 246; Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, cit., p. 54.
Secondo Perulli, Il lavoro autonomo, cit., p. 733, l'art. 2237, comma 2, c.c., collegando il compenso professionale nel caso di recesso per giusta causa al risultato utile per il cliente, smentisce la convinzione, invalsa soprattutto nella giurisprudenza, che l'obbligazione assunta dal professionista intellettuale sia ascrivibile alla categoria delle obbligazioni di mezzi. .
Secondo parte della dottrina, invece, poichè è regola costituzionalmente protetta che l'attività lavorativa vada retribuita e poiché spesso, nei rapporti professionali di natura intellettuale, l'attività stessa si esplica in meri comportamenti, il compenso è comunque dovuto, pure se non si giunge ad alcun utile risultato.
Così, non potrebbe ammettersi che il professionista recedente per giusta causa abbia prestato invano la sua opera. Tale affermazione resta ferma anche nell'ipotesi che oggetto del contratto sia un opus. Il criterio dell'utilità potrebbe, invece, essere applicato per la determinazione di un compenso anche superiore ai minimi di tariffa, qualora dall'esecuzione parziale derivi un qualche vantaggio per il cliente (40)

(40) Così, si esprime Lega, Lelibereprofessioniintellettualinelleleggienellagiurisprudenza, cit., p. 798. .
Anche nella fattispecie prevista dall'art. 2237, comma 2, c.c. il compenso spettante al professionista va determinato secondo il criterio di gradualità delle fonti stabilito dall'art. 2233 c.c. e, quindi, in primo luogo, nella misura convenzionale, con i pattuiti sconti e «bonifici» e con esclusione di ogni diritto al risarcimento del danno corrispondente al mancato guadagno (41)

(41) In proposito, cfr. Cass. 13 gennaio 1979, n. 271, in Rep. Foro it., 1979, voce Professioniintellettuali, n. 76. .
2.3. Recesso del professionista e tutela dell'interesse del cliente.
In base al terzo comma dell'art. 2237 c.c., il recesso del professionista intellettuale deve, comunque, venire esercitato in modo da non arrecare pregiudizio al cliente.
La previsione della norma sopra menzionata può concretizzarsi, ad esempio, a seconda dei casi, nel segnalare o, addirittura, procurare al cliente un sostituto oppure nel non lasciare scadere, nello svolgimento dell'opera professionale, termini ravvicinati e nel predisporre, comunque, eventuali provvedimenti d'urgenza, ecc.
Anzi, benché la norma non lo preveda espressamente, grazie ad essa può legittimamente argomentarsi di un diritto del cliente ad un termine, comunque, circoscritto al periodo minimo indispensabile a reperire un sostituto.
Può, dunque, concludersi che l'art. 2237, comma 3, c.c. appare indicativo, da un lato, dell'esigenza di una particolare tutela delle ragioni del cliente, per il quale sono spesso in gioco beni primari (quali la salute, la libertà, ecc.), e, dall'altro, dell'applicazione del principio di correttezza, che deve informare l'operato del professionista, in base a disposizioni aventi natura sia civilistica (quali l'art. 1175 c.c.), sia deontologica.
2.4. Il recesso ingiustificato del professionista.
La legge dispone che, per poter esercitare il diritto di recedere dal contratto, il professionista debba invocare la presenza di una giusta causa.
Quid iuris qualora il prestatore d'opera intellettuale receda senza che possa giustificare il suo atto secondo quanto disposto dall'art. 2237, comma 2, c.c.?
Secondo un'opinione, il complesso della normativa conferma la sussistenza di un'intima connessione fra interesse pubblico ed interesse privato, che è tipica del rapporto di prestazione d'opera intellettuale e ne giustifica la differente disciplina, rispetto a quella prevista per il contratto d'opera manuale.
Si deve, a tal riguardo, sottolineare che il limite della giusta causa, per il recesso del professionista, non incide sul vincolo sinallagmatico.
Infatti, la prestazione, analogamente a quella d'opera manuale, ha carattere infungibile e non se ne può ottenere l'esecuzione coattiva. Più precisamente, se per la seconda sarebbe, in ipotesi, astrattamente possibile un'esecuzione ad opera di terzi, a spese del prestatore inadempiente, ciò non è configurabile in ordine alla prestazione di carattere intellettuale, che è, evidentemente, strutturalmente legata alla persona di colui che la deve eseguire.
Di conseguenza, deve ritenersi che la manifestazione di volontà di recesso produca egualmente l'effetto estintivo del rapporto. Tuttavia, il cliente, ove ne sussistano i presupposti, può domandare ed ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito dell'illegittima cessazione del rapporto medesimo, sempre che l'esistenza di un danno risarcibile sia provata (42)

(42) Così, G. Giacobbe e D. Giacobbe, Il lavoro autonomo, cit., p. 217.
Sull'argomento, si vedano anche G. Giacobbe, voce Professioni intellettuali, cit., p. 1082; SantoroPassarelli, voce Professioni intellettuali, cit., p. 27; RivaSanseverino, Lavoro autonomo, cit., p. 246. .
Altra parte della dottrina ritiene, invece, che il recesso privo di una giusta causa non produca alcun effetto estintivo del rapporto, ma che il professionista si renda inadempiente per violazione dell'obbligo negoziale di prestare la sua opera, per cui è applicabile il diritto comune in tema di risoluzione per inadempimento (art. 1453 c.c.) (43)

(43) In tal senso, si pronunziano: Perulli, Il lavoro autonomo, cit., p. 733; Lega, Le libere professioni intellettuali nelle leggi e nella giurisprudenza, cit., p. 797; Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, cit., p. 66.
Per la giurisprudenza, cfr. App. Venezia 19 giugno 1957, in Corti Brescia Venezia Trieste, 1957, p. 530. .
In questo senso, è, ad esempio, l'art. 10, comma 3, l. 2 marzo 1949, n. 144, recante l'approvazione della tariffa degli onorari per le prestazioni professionali dei geometri, secondo cui, nel caso di interruzione del lavoro per una causa di forza maggiore o per recesso del geometra senza giusta causa, i rapporti fra il professionista ed il cliente sono regolati dalle norme del codice civile.

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Da: preoccupato per una collega14/12/2010 12:44:01
raga ma è vero che a napoli hanno schermato i padiglioni della mostra d'oltremare per impedire di usare i cellulari???

Da: sil14/12/2010 12:44:11
@Tizzy: per che ora dovrebbero finire??quali tracce ti hanno confermato?

Da: pa14/12/2010 12:44:13
salernitano lo sai che cosa sei?......... sei solo un salernitano!

Da: anna maria14/12/2010 12:44:19
a che ora finisce a lecce

Da: alicebimba314/12/2010 12:44:28
notizie su Reggio Calabria

Da: pepia14/12/2010 12:46:09
a reggio calabria hanno iniziato a dettare alle 11.00

Da: napoletano14/12/2010 12:47:09
sei la solita latrina salernitana
taci, inferiore

Da: aiuto14/12/2010 12:48:18

aiuto
materiale utile per la seconda traccia:"Obbligazioni di mezzo ed obbligazioni di risultato nella responsabilità civile dell'avvocato e riflessioni sulla nozione di "colpa lieve"

di Riccardo Conte

Trib. Milano, 29 marzo 2005

Cass. civ. Sez. II, 19 novembre 2004, n. 21894

Cass. civ. Sez. II, 30 luglio 2004, n. 14597

FONTE
Corriere Giur., 2005, 10, 1409
Libere professioni - Avvocati

1. Negli ultimi decenni le questioni inerenti la determinazione degli obblighi dell'avvocato nell'espletamento della sua attività sono state più volte affrontate ed approfondite in giurisprudenza, la quale ha avuto modo di enuclerare le ipotesi tipiche di responsabilità dell'avvocato (1).

Il cammino non è stato lineare: non sono mancate contraddizioni ed eccessive genericità, specie per quanto concerne la determinazione delle nozioni di "problemi tecnici di speciale difficoltà" e di "colpa lieve", che, come è noto, ai sensi dell'art. 2236 c.c., consentono di escludere la responsabilità del professionista ("se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave"). Tuttavia sono stati completamente superati quegli orientamenti ancora dominanti negli anni Cinquanta del secolo scorso, e che trovavano fondamento in un precedente della Suprema Corte (2), i quali "concedevano" una sostanziale "impunità" all'avvocato rispetto a sue gravi dimenticanze (per esempio, la mancata proposizione di un appello), sul presupposto che, potendosi la responsabilità affermare solo laddove si possa stabilire con certezza un rapporto tra diligenza ed esito favorevole, ciò era impossibile in subiecta materia: "ogni sentenza è condizionata da una quantità di fattori assolutamente inimmaginabili" - si diceva - talché si tendeva "a negare un danno risarcibile, anche in presenza di un'accertata negligenza professionale" (3).

Ciò non toglie che ancora oggi vi sia una certa "indulgenza" nel vaglio delle responsabilità e i casi presi in considerazione dalle due sentenze della Corte Suprema, che si pubblicano, sono particolarmente significativi.

Ad esempio, nel caso preso in esame dalla sentenza n. 14597, un avvocato aveva richiesto al proprio assistito la corresponsione di competenze per 11.525.568 di vecchie lire per tutta l'attività espletata per il recupero della somma di 1.500.000. La domanda era stata accolta sia in primo che in secondo grado. Solo la Corte Suprema ha ribaltato le sorti della causa, affermando che la "natura della obbligazione assunta dal professionista come obbligazione di mezzi non esime quest'ultimo dal dovere di prospettare al cliente tutti gli elementi contrari, (ipotizzabili in virtù di quella preparazione tecnica e di quell'esperienza medie caratterizzanti l'attività professionale alla luce degli evidenziati parametri normativi) per i quali, nonostante il regolare svolgimento di tale attività, gli effetti a questa conseguenti possano essere inferiori a quelli previsti, oppure in concreto nulli o persino sfavorevoli, determinando in tal modo un pregiudizio rispetto alla situazione antecedente; il professionista, infatti, deve porre in grado il cliente di decidere consapevolmente, sulla base di una adeguata valutazione di tutti gli elementi favorevoli ed anche di quelli eventualmente contrari ragionevolmente prevedibili, se affrontare o meno i rischi connessi all'attività richiesta al professionista medesimo".

Analogo discorso sembrerebbe valere per quanto concerne il caso preso in esame dalla sentenza n. 21894. Sia in primo grado che in secondo grado non si era ravvisata una responsabilità del professionista, che non aveva più presenziato alle udienze a cominciare dalla prima udienza istruttoria, non aveva depositato la comparsa conclusionale, non aveva nemmeno avvertito l'assistito dell'esito negativo della causa. La Suprema Corte ha cassato la sentenza di secondo grado, ritenendo che i giudici d'appello avessero "omesso di verificare l'andamento effettivo del processo e di porre in relazione con esso la condotta del [professionista] in considerazione del fatto che il danno derivato all'[assistito] era stato, appunto, mediato dal concreto svolgersi della procedura e che l'esclusione del nesso causale postulava la dimostrazione certa che la lite, anche con l'intervento continuo e diligente del difensore, avrebbe sortito comunque l'esito totalmente negativo che in effetti ebbe".

Gli esempi di differenti soluzioni in relazione allo stesso caso potrebbero continuare (si veda per un'altra ipotesi infra a nota 26), ma, avendo già affrontato in altra sede tale aspetto, non mi resta che rinviare il lettore, che fosse interessato, al mio precedente studio (4), volendo qui soffermarmi su diverse questioni della materia.

Tuttavia, a scanso di equivoci, mi pare opportuno precisare che se le due sentenze della Suprema Corte costituiscono un esempio correttivo di casi di eccessiva "indulgenza", non mancano casi del tutto inversi - a cui pure accennerò nel corso di questo studio (vedi infra nel testo all'altezza delle note 40 e 51) - in cui la soluzione della Corte di legittimità mi è sembrata ispirata a criteri eccessivamente rigidi.

Vedremo, comunque, tra breve quali sono le ipotesi tipiche di responsabilità dell'avvocato in relazione a gravi dimenticanze, di cui la sentenza n. 21894 della Suprema Corte ci offre un esempio.

Occorre, peraltro, avvertire che i profili di responsabilità non possono esaurirsi in tali aspetti. E le altre due sentenze che si pubblicano, una della Suprema Corte (la n. 14597 del 2004), l'altra del Tribunale di Milano del marzo 2005 (che alla prima si richiama) ci offrono l'occasione per soffermarsi su alcune questioni inerenti la determinazione degli obblighi dell'avvocato nell'espletamento della sua attività, nonché su alcune ipotesi della sua responsabilità civile, in particolare per ciò che concerne la distinzione tra obbligazioni di mezzo ed obbligazioni di risultato e sulla nozione di colpa lieve.



2. Il contratto che lega l'avvocato al proprio assistito è un contratto d'opera intellettuale, avente, in generale, per oggetto due possibili tipologie di attività: quella giudiziale e quella extra-giudiziale. La prima comporterà un'attività di rappresentanza e difesa; la seconda un'attività di consiglio, informazione, redazione e/o assistenza nella stipulazione di contratti o altri negozi (5).

Il codice civile, come è noto, disciplina il contratto di prestazione d'opera intellettuale negli artt. da 2229 a 2238. Tuttavia il rapporto tra avvocato ed assistito trova una fonte della sua normativa anche nel rapporto di mandato (ex artt. 1703 ss. c.c.) e ciò in virtù del combinato disposto degli artt. 2230 e 2222 c.c., ed essendo il mandato il contratto col quale il mandatario, munito o meno di rappresentanza, si obbliga a compiere per conto del mandante uno o più atti giuridici (6).

È principio consolidato quello per cui "l'inadempimento del professionista avvocato non può essere desunto, senz'altro dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell'attività professionale, ed in particolare, al dovere di diligenza, ... commisurato alla natura dell'attività esercitata, sicché la diligenza che il professionista deve impiegare nello svolgimento della sua attività è quella media, cioè la diligenza posta nell'esercizio della propria attività, dal professionista di preparazione professionale e di attenzione medie. La responsabilità dell'avvocato, pertanto, può trovare fondamento in una gamma di atteggiamenti subiettivi, che vanno dalla semplice colpa lieve, al dolo, a meno che la prestazione professionale da eseguire in concreto involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, nel qual caso la responsabilità è attenuata, configurandosi, secondo l'espresso disposto dell'art. 2236 c.c., solo nel caso di dolo o colpa grave" (7).

Massima che offre più spunti di riflessione, poiché non solo ci introduce alla tradizionale distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, ma, sotto altro profilo, dà anche àdito alla questione di individuazione di chi sia il professionista medio, e pone il problema di determinare le nozioni di "colpa lieve" e "problemi tecnici di particolare difficoltà".

Al di là delle distinzione tra obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato, dico subito che in tutti e tre gli altri casi ci si trova di fronte non solo a concetti relativi (sia nello spazio che nel tempo), ma anche alquanto vaghi.

Nel mio precedente studio sul tema (8), ho già affermato che quanto alla definizione di diligenza media, a me sembra difficile enuclearne la nozione in astratto. Certamente, l'avvocato medio è colui che si aggiorna; l'avvocato medio è colui che studia tutte le carte del processo. Ma evidentemente tutto ciò non è sufficiente. Probabilmente il concetto di diligenza media si può ricavare solo in correlazione a fatti negativi: mi sembra difficile definire la nozione di diligenza media per poi dire se un avvocato ha rispettato quel canone nella sua attività. Occorre probabilmente seguire un percorso inverso: stabilire, cioè, che cosa rientra nel concetto di negligenza, per poi poter dire in che cosa consiste la diligenza media. È negligente l'avvocato che non propone appello o opposizione a decreto ingiuntivo tempestivamente, o che non iscrive a ruolo questi procedimenti tempestivamente, o che non rileva un problema di prescrizione, ecc. ecc.

In questa sede, comunque, limitiamoci a tali dati, in linea di sommaria enunciazione: l'avvocato, come ogni parte contrattuale, risponde del proprio inadempimento colposo ex art. 1218 c.c., sia esso dovuto a negligenza, o a imperizia, o ad imprudenza. Tuttavia, ai sensi dell'art. 2236 c.c., "se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà", egli "non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave" e, quindi, con l'esclusione della colpa lieve (9).



3. Ma veniamo alla distinzione tra obbligazioni di mezzo ed obbligazioni di risultato (10).

Come è avvenuto per altre professioni (11), anche per quella dell'avvocato essa deve essere oggetto di parziale riconsiderazione.

Sgomberiamo il campo da equivoci di sorta: non voglio negare che la prestazione dell'avvocato costituisca un'obbligazione di mezzi (peraltro riaffermata nella sentenza n. 14597 del 2004), poiché non v'è dubbio che egli non può garantire l'esito favorevole di una causa. Intendo dire, tuttavia, che, accanto a questo tipo di prestazione, ne esistono altre che non possono essere ritenute di mezzo, ma sono di risultato (12).

Se un cliente conferisce ad un avvocato l'incarico di verificare l'esistenza di procedure esecutive immobiliari in cui intervenire, l'erronea risposta del professionista, che impedisce al mandante di intervenire e soddisfarsi può essere considerata alla stregua di un inadempimento ad un'obbligazione di risultato, non di mezzo (13). Analogamente, se l'avvocato riceve l'incarico di interrompere i termini di prescrizione di un credito con raccomandata, oppure di proporre appello ed omette poi di farlo (14).

Si tende a ricondurre ad un'obbligazione di risultato anche la violazione del dovere di informazione da parte dell'avvocato, che rinunci al mandato, e non segnali la necessità di determinati incombenti processuali (15) (con la precisazione che questo aspetto non esaurisce l'intero contenuto dell'obbligo di informazione, come meglio vedremo e come risulta dalla sentenza n. 14597 e dalla sentenza del Tribunale milanese).

Occorre, tuttavia, precisare che in tutti questi casi un risarcimento del danno dovrà essere riconosciuto, ma sempre che, pur su una base probabilistica, l'esatto adempimento avrebbe consentito in concreto di raggiungere il risultato sperato: viene qui in rilievo la problematica sulla perdita di chance, a cui è possibile qui solo fare cenno, ma su cui, sebbene ancora per sommi capi, tornerò infra (nel testo, dopo il richiamo a nota 33).

Ritengo poi di condividere l'assunto per cui un'obbligazione di risultato possa configurarsi in relazione ad attività di redazione di contratti (16).

Tuttavia occorre chiedersi quale sia il risultato che l'avvocato deve assicurare. Ovviamente, il risultato della prestazione non consisterà nel buon esito dell'operazione economica oggetto del contratto,

L'esperienza di ogni giorno ci conferma che la redazione di un buon contratto è prestazione intellettuale particolarmente difficile. Occorre comprendere quale sia la volontà delle parti; occorre capire e saper descrivere quale sia la prestazione oggetto del contratto (quante volte capita di avere difficoltà di fronte a contratti di riuscire a comprendere quale ne sia l'oggetto effettivo! La nullità per indeterminatezza dell'oggetto o per mancanza di causa non è un'ipotesi solo scolastica!). Occorre poi prevedere adeguate garanzie; segnalare all'assistito la vessatorietà di clausole richieste dalla controparte; avvertirlo delle conseguenze negative che derivano dall'accettazione di alcune condizioni, eccetera.

Ed è qui, in relazione a queste situazioni che mi pare possano profilarsi ipotesi di responsabilità. Tuttavia occorre distinguere.

La responsabilità non può derivare da scelte del cliente. È fuor di dubbio che l'avvocato nel redigere un contratto debba curare di non inserire clausole nulle. È anche dovere dell'avvocato informare il proprio assistito della portata di alcune clausole e delle possibili conseguenze. Penso, ad esempio, che l'avvocato debba avvertire il proprio assistito che rispetto a una determinata garanzia potrebbe ravvisarsi la violazione di una norma imperativa (es.: il divieto del patto commissorio ex artt. 1963 e 2744 c.c.); come sarebbe stato importante - nel regime precedente alla modifica apportata all'art. 669-quinquies c.p.c. dalla legge 80 del 2005, nonché, per quanto riguarda il diritto societario, precedente all'introduzione dell'art. 35, 5° comma, del d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 - che l'avvocato, di fronte alla presenza di una clausola compromissoria per arbitrato irrituale, informasse il proprio assistito che, secondo la giurisprudenza maggioritaria, gli sarebbe stato impedito, in caso di lite, il ricorso alla tutela cautelare.

Tuttavia, a me sembra che l'obbligazione dell'avvocato si esaurisca qui. Una volta che l'assistito è stato informato dei rischi connessi ad una certa operazione, nulla potrà addebitare al proprio avvocato laddove ad un certo tipo di clausola siano conseguite situazioni negative.

La questione allora è di vedere quali possano essere le conseguenze nel caso sia mancata una corretta informativa.

Se, nel regime precedente alla modifica dell'art. 669-quinquies c.p.c., l'avvocato avesse mancato di informare l'assistito che, a fronte di una clausola compromissoria per arbitrato irrituale non sarebbe stato possibile, secondo la giurisprudenza maggioritaria, richiedere, in costanza di un grave inadempimento della controparte, un provvedimento cautelare, fino a che punto avrebbe potuto rispondere delle conseguenze negative che fossero ricadute sull'assistito stesso, che non avesse poi potuto ricorrere alla corrispondente tutela?

E ancora occorre chiedersi fino a che punto l'avvocato potrà rispondere nei confronti del cliente per non aver rilevato e non aver fatto rilevare che un determinato patto (il cui contenuto le parti contrattuali avevano già predeterminato, rinviando all'avvocato la formulazione in termini giuridici), ponendo in concreto una violazione del divieto del patto commissorio, inficiava l'intera pattuizione, esponendo l'assistito a gravi conseguenze patrimoniali.

Mi sembra difficile dare una risposta in concreto, anche perché - restando all'esempio - non sempre è agevole determinare quando in concreto vi sia la violazione di un patto commissorio: si pensi a tutta la complessa problematica che si è avuta in materia di sale and lease back. Probabilmente alcuni criteri orientativi potranno venirci dalla nozione di "colpa lieve", su cui mi soffermerò nell'ultima parte di questo scritto, e dalla questione della responsabilità per perdita di chance.

Inoltre, bisogna tener conto dei mutamenti giurisprudenziali: e questa è un'altra variabile di non poco momento se solo si pone mente al fatto che quella che poteva sembrare una lite temeraria fino a qualche anno fa, oggi è risultata tesi vincente: mi riferisco alla tematica dell'anatocismo bancario.

Queste rapide considerazioni mi sembra che ci consentano di affermare un principio ed una riserva: l'informazione dell'assistito sta diventando anche per gli avvocati un momento importante. Tuttavia va sottolineato che il diritto del cliente ad essere informato ed il corrispondente dovere dell'avvocato di rendere quest'informazione non possono diventare sic et simpliciter la base su cui decidere un'azione di responsabilità. L'avvocato non ha a che fare con dei protocolli di cura e non ha a che fare con delle complicazioni per lo più prevedibili. La strategia processuale non è in alcun modo paragonabile ad una corretta tecnica di intervento chirurgico o di costruzione edile. L'interpretazione della norma è troppo variabile; oscillazioni giurisprudenziali vi sono all'interno della stessa Suprema Corte. La logica (anche quella giuridica) si sottrae ad inquadramenti certi ed indiscutibili, come vediamo dalle continue evoluzioni giurisprudenziali, e ciò a prescindere dalle modifiche legislative. L'esito di una causa dipende da una serie di variabili di non poco conto: "nel calcolo concorrono elementi di difficile valutazione, quali l'opinione personale del giudice, l'apprezzamento che egli dovrà fare delle prove, l'apprestamento delle stesse per opera dei vari litiganti, il regolare corso del processo, l'attività delle parti, le loro risorse defensionali, ecc." (17).

Ne consegue che l'esame ex post del comportamento dell'avvocato deve essere effettuato con estrema prudenza, procedendosi ad una valutazione ex ante, tenendo conto del contesto giurisprudenziale in cui l'ipotesi di responsabilità si è configurata. Non può configurarsi un'ipotesi di responsabilità sic et simpliciter per il fatto che l'avvocato - al di là di ciò che può essere qualificato sicuramente come suo errore (supponiamo: non aver ravvisato una tipica ipotesi di nullità per divieto del patto commissorio) - non abbia rilevato, per restare all'esempio, un difetto nella garanzia, che si è manifestato successivamente, nel momento della patologia del contratto, a seguito di eccezione sollevata dalla controparte.



4. Ma veniamo alle ipotesi tipiche di responsabilità dell'avvocato, di cui in particolare la sentenza n. 21894 della Corte Suprema e la sentenza del Tribunale di Milano offrono esempi.

Del contenuto della prima sentenza già abbiamo detto. Nella seconda sentenza il profilo della responsabilità dell'avvocato è stato ravvisato, in primo luogo, nell'aver errato nell'individuazione del soggetto legittimato passivamente in una causa relativa al mancato pagamento di una provvigione per attività di mediazione e, in secondo luogo, nell'aver promosso l'azione nei confronti dei legittimati passivi quando già il diritto alla provvigione era prescritto: il che si è ritenuto giustificare l'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. in relazione alla richiesta di pagamento degli onorari (quanto al danno subito dall'attore per la perdita della provvigione e per la soccombenza nelle cause, il giudice non ha dovuto pronunciarsi, essendo intervenuta sulla relativa domanda una transazione tra il danneggiato e l'assicurazione del professionista).

Entrambe le decisioni mi pare che rientrino nell'orientamento dominante.

Dall'esame della giurisprudenza in materia, infatti, mi sembra che, al di là di alcune contraddizioni a cui si è già fatto riferimento, si evincano almeno cinque ipotesi tipiche: a) per il colposo mancato rilievo di una prescrizione: l'avvocato risponde se non eccepisce la prescrizione, se (come nell'ipotesi presa in considerazione dal Tribunale milanese) ha iniziato la causa senza aver rilevato l'esistenza di una prescrizione del diritto azionato (18), se, eccepita ritualmente la prescrizione dal convenuto in corso di causa, egli non l'abbia riferito puntualmente al proprio assistito (19), e, a fortiori, se la prescrizione sia maturata a seguito di inattività dello stesso difensore (20); b) per il maturare di una decadenza a danno della parte per la colposa mancata proposizione di una valida (21) impugnazione (22) o redazione di atto (23), ovvero per la mancata intimazione di testi (24), ovvero ancora per la colposa erronea interpretazione di una norma (25), anche con riguardo a strategie processuali in punto deduzione istruttorie (26); c) per il pregiudizio derivante alla parte per altri negligenti comportamenti, quali la mancata partecipazione alle udienze o l'omesso deposito di atti difensivi (è il caso della sentenza in epigrafe, n. 21894 del 2004); d) per l'omessa informazione relativa ad essenziali scelte processuali (27); e) per l'inadempimento all'obbligo di rendiconto (28).

La sentenza del Tribunale milanese introduce una sesta ipotesi di responsabilità: l'erronea individuazione del soggetto legittimato (passivo, nel caso concreto, ma, mutatis mutandis, anche attivo).

Non è il caso di soffermarsi qui sulle singole ipotesi, alcune delle quali sono di evidenza immediata. È opportuno, invece, chiarire la portata di alcune di esse, in particolare per quanto concerne le questioni connesse ai doveri di informazione e rendiconto [punto sub e)], nonché all'erronea interpretazione di una norma [punto sub b)], processuale o anche - come nel caso preso in esame dal Tribunale di Milano - di merito.



5. Per quanto concerne i doveri di informazione e rendiconto (e su cui si sofferma anche la sentenza della Corte Suprema n. 14597) il discorso è piuttosto complesso.

Non v'è dubbio che sussiste la responsabilità del professionista, il quale ometta una doverosa attività extra-processuale, come la mancata tempestiva informazione del cliente, posto che la condotta del legale deve essere tale da garantire la tutela degli interessi affidatagli (29); come non v'è dubbio che "il legale che, incaricato di curare determinati interessi di un cliente, non ritenga opportuno promuovere l'azione più direttamente prevista dalla legge per i casi del genere [nella specie, un'opposizione a stato passivo], ha il dovere di informare tempestivamente della sua opinione il cliente, in modo da metterlo in condizioni di evitare decadenze o prescrizioni, ove egli intenda dissentire dal suddetto parere" (30).

A quest'ultimo proposito un particolare problema si pone sotto il profilo dell'appello. In giurisprudenza, infatti, si è affermato che "la proposizione di un appello infondato può integrare talora [il corsivo è mio] una attività defensionale apprezzabile, e di vantaggio per l'appellante. A parte, infatti, l'ipotesi di debito di valuta (...) può il gravame servire a fini dilatori e defatigatori, per allontanare lo spettro dell'esecuzione in debitore in fase "terminale", e per indurre il creditore ad accettare una transazione. È vero che tutta codesta attività può essere rilevante ai fini del disposto degli artt. 88 e 96 c.p.c. Ma non comporta certo, di per sé, responsabilità professionale dell'avvocato verso il cliente (...)" (31).

Affermazione che dice e non dice: si usa l'avverbio "talora", si ipotizza una responsabilità per lite temeraria e per violazione del dovere di probità.

E tuttavia la portata di questa affermazione va correlata con quell'orientamento giurisprudenziale che ha evidenziato - forse un po' troppo frettolosamente - l'esistenza di un danno nella stessa perdita di chance legata ad un appello, indipendentemente da ogni dovuta proiezione circa le concrete possibilità di accoglimento dell'impugnazione.

A esempio, in un caso in cui un domiciliatario (commercialista) non aveva comunicato la notificazione di un atto impositivo, impedendone l'impugnazione, la Suprema Corte ha distinto tra "danno da mancata impugnazione" e "danno da perdita della possibilità d'impugnazione", precisando che tale secondo danno va "liquidato in ragione d'un criterio prognostico basato sulle concrete ragionevoli possibilità di risultati utili, assumendo come parametro di valutazione il vantaggio economico complessivamente realizzabile dal danneggiato diminuito d'un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo e deducibile, questo, caso per caso, dagli elementi costitutivi della situazione giuridica dedotta od, ove tale criterio risulti di difficile applicazione, con ricorso al criterio equitativo" (32).

A parte il fatto che i criteri dettati mi sembrano di difficile applicazione, se rapportiamo questi principi all'appello, si rischia di sanzionare la condotta del professionista in sé, senza contare che l'affermazione di un tale principio potrebbe portare ad un incremento di cause d'appello. Lo sconsigliare un appello - che potrebbe ben rientrare nei doveri di dissuasione sottolineati dalla Suprema Corte nella sentenza n. 14597 (33) - potrebbe equivalere, paradossalmente, ad una perdita di chance (34).

Non basta, dunque, una perdita di chance generica, ma occorre che essa abbia un contenuto verosimile (35). In altri termini, "la chance è giuridicamente rilevante soltanto in caso di apprezzabile probabilità di successo finale, essendo destinata in caso contrario a rimanere confinata nell'alveo degli interessi materiali privi di tutela per l'ordinamento giuridico" (36), altrimenti si ha un "ingiustificato arricchimento" della potenziale parte lesa.

Ed in tal senso mi sembra che vadano recenti pronunce, che hanno affermato che "il cliente che chieda il risarcimento del danno subìto a seguito di una tardiva proposizione di un'impugnazione, derivante da una condotta colposa dell'avvocato, deve specificare le circostanze che avrebbero portato ad un esito favorevole nel giudizio d'appello" (37).

Per ovviare alle incertezze che ne derivano, ho l'impressione che la soluzione prudente sia quella dell'informazione adeguata, come già fu ipotizzato in una risalente pronuncia: "la semplice accettazione del mandato per una causa destituita di fondamento non implica un caso di culpa in re ipsa, neppure quando l'infondatezza della causa appaia palese, in quest'ultima ipotesi essendo sufficiente ad escludere la responsabilità del legale la comunicazione al cliente dell'impossibilità di raggiungere con la promuovenda azione un risultato positivo, secondo quanto prescrive l'art. 1338 c.c., applicabile indubbiamente anche in materia contrattuale" (38).

Occorre chiedersi se potremmo, in ipotesi, concludere che, come il medico deve informare il paziente dei rischi, allo stesso modo l'avvocato dovrebbe informare il cliente. Ma tale conclusione, come ho già detto (supra, nel testo, all'altezza del richiamo di nota 17), non potrebbe essere presa nella sua integralità, poiché l'esito di una causa dipende da una serie di variabili di non poco conto, ma indubbiamente la sentenza testé richiamata fa riferimento ad un'informazione minimale, che a me pare comunque dovuta.

Il dovere di informazione del professionista (su cui, come si è visto, si è soffermata la Suprema Corte nella sentenza n. 14597) si manifesta in particolar modo sia in relazione alla disamina iniziale della causa, sia successivamente. Si legge in una nota sentenza dell'inizio degli anni Settanta che "il conferimento dell'incarico ... comporta anzitutto, e preliminarmente, il dovere, per l'avvocato, di studiare il caso litigioso prospettatogli, cioè di identificare il fatto nei suoi elementi essenziali, di qualificarlo giuridicamente rilevando le varie questioni prospettabili e di scegliere la linea difensiva più idonea", secondo la diligenza dell'avvocato medio [figura che, peraltro, come ho già detto, non ha i contorni ben definiti]. "Fatto lo studio del caso, l'avvocato deve riferirne al cliente, consigliandogli la linea difensiva da lui ritenuta più opportuna, poiché spetta al cliente, una volta edotto delle questioni che si prospettano e delle probabilità di un esito positivo e (o ?) negativo del processo, decidere se adire o meno il giudice" (39). La Corte specificava che "una volta rilevata l'avvenuta prescrizione del diritto vantato dal cliente, o la prospettabilità di una questione di prescrizione, rientra sempre nella diligenza dell'avvocato medio il dovere di informare il cliente: spetta a questi, infatti, e non all'avvocato, decidere se adire ugualmente il giudice, sperando che la controparte non sollevi l'eccezione di prescrizione, quando l'avvenuta prescrizione del diritto vantato risulti evidente, ovvero sperando che la questione di prescrizione, se opinabile e se sollevata dalla controparte, venga risolta in senso a lui favorevole".

Il dovere di informazione, poi, si pone in modo particolarmente intenso in relazione al recesso del professionista.

Il disposto dell'art. 2237, comma 3, c.c. è sufficientemente chiaro: "il recesso del prestatore d'opera deve essere esercitato in modo da evitare pregiudizio al cliente". Tuttavia, a tale proposito, occorre verificare se si possono profilare delle responsabilità del professionista in ordine ad incombenti che avrebbe potuto effettuare, ma non ha ancora effettuato, essendovi ancora tempo sufficiente.

Si è affermato che "la cessazione del rapporto, se impedisce al professionista di svolgere poi l'attività non svolta prima [nella fattispecie, deduzioni istruttorie], non gli impedisce ed anzi lo onera, in relazione all'obbligo di prestare con diligenza la propria attività, di rappresentare al cliente che l'attività di deduzione delle prove resta da svolgere (ciò in caso di revoca) o di svolgerla lui prima di cessare dall'incarico (in caso di rinunzia)" (40). E si precisa: "in mancanza, la condotta del professionista si atteggia come omissione e come omissione colposa, proprio per il fatto che resta definitivamente consumata la possibilità che egli tenga la condotta dovuta". Sul piano del nesso causale, la sentenza ha cura di precisare che "la individuazione d'un rapporto di causalità tra evento e l'ultimo fattore causale [nella fattispecie, la negligenza anche del nuovo difensore] non esclude la rilevanza di quelli anteriori che abbiano avuto come effetto di determinare la situazione, su cui il successivo è venuto ad innestarsi. Il limite alla configurazione del rapporto di causalità tra antecedente ed evento è rappresentato solo dalla idoneità della causa successiva ad essere valutata - per la sua eccezionalità rispetto al decorso causale innescato dal fattore remoto - come la causa sufficiente ed unica del danno". Devo dire che questo orientamento della Suprema Corte non mi convince. Mi sembra, infatti, preferibile la soluzione adottata dalle due corti di merito, che avevano rigettato la domanda di condanna del professionista, e ciò per due ordine di ragioni. La prima, non mi sembra fondato affermare che il professionista che rinuncia al mandato deve preoccuparsi di svolgere le deduzioni istruttorie, che non abbia ancora formalizzato: ciò è vero laddove le modalità del recesso non consentano che un nuovo difensore possa provvedere (ho già richiamato il disposto del comma 3 dell'art. 2237 cod. civ.). Laddove la barriera preclusiva sia sufficientemente distante nel tempo, il professionista ha un solo obbligo: informare il cliente (anzi, l'ex cliente) delle incombenze che restano da espletare. La seconda, nella fattispecie si era inserita nella sequenza degli eventi che avevano portato ad una soluzione negativa della causa il comportamento omissivo del nuovo difensore, che ha svolto nello specifico caso la funzione di unica causa sufficiente.



6. E veniamo all'ipotesi di erronea interpretazione di una norma (processuale o sostanziale).

In particolare occorre chiedersi se risponde verso il proprio assistito l'avvocato che erra nell'interpretare una norma e su questo errore incentra una causa.

Nell'affrontare il problema occorre tener conto che certi orientamenti minoritari sono poi divenuti talvolta prevalenti. (41).

La difficoltà è distinguere l'errore dall'interpretazione minoritaria.

In tal senso: supponiamo che, prima della nota sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte in tema di perfezionamento della notifica a mezzo posta, nelle forme della compiuta giacenza (42), sul presupposto - condiviso all'epoca dalla giurisprudenza dominante - per cui la notificazione, in caso di irreperibilità del destinatario, si avesse per perfezionata non nel momento in cui il plico fosse stato depositato presso l'ufficio postale, ma nel momento in cui fosse stato ritirato (43), un avvocato avesse ritenuto di non coltivare un'opposizione a decreto ingiuntivo perché notificata tardivamente (nell'ipotesi: l'atto di citazione introduttivo del giudizio è ritirato successivamente alla scadenza del termine per proporre opposizione); probabilmente, con un giudizio ex ante, non si sarebbe esposto, per questa decisione, ad un'azione di responsabilità (sempreché, ovviamente, non si potesse sindacare la scelta del mezzo usato per la notificazione, che, peraltro, è ritenuto un mezzo ordinario di notificazione).

Discorso diverso - verificatosi nella pratica - deve essere fatto in relazione ad un avvocato che sicuramente ha errato nell'interpretazione pacifica di una norma in materia di notificazione ed ha abbandonato un'opposizione agli atti esecutivi sul presupposto della validità della notifica di un'ordinanza, invece sicuramente viziata (44).

Anche l'incertezza sull'impignorabilità di certi beni, come ho già detto, può essere motivo di esimente in un'azione di responsabilità (45).

Come si vede, dunque, non è neppure possibile affermare, in assoluto, che la disamina stessa del caso non possa essere fonte di responsabilità: e la sentenza del Tribunale milanese mi sembra che confermi tale assunto.

Di regola si dice che il merito della causa, la strategia di difesa copre un àmbito che si pone al di fuori dell'azione di responsabilità (46).

Qui si aprono, tuttavia, dei settori d'indagine estremamente insidiosi: come dovrebbe comportarsi un professionista di fronte ai casi limite. Si pensi ai casi dubbi di invalidità del contratto, di inadempimento, ecc.

Molto probabilmente l'esito positivo della causa dipende da una molteplicità di variabili, non solo relativi alla prova del fatto in sé (è stata data prova adeguata o no), ma alla valutazione (es.: un inadempimento può apparire grave e invece non lo è, e viceversa; un licenziamento può apparire legittimo e invece non lo è).

La risposta negativa, per cui il professionista non sarebbe mai responsabile in tali casi, non è affatto appagante, alla luce dei casi già visti (decidere di non proporre un'opposizione, o di abbandonarla, su un presupposto manifestamente erroneo, non può non dar luogo a responsabilità), essendo necessario un esame caso per caso.

Ho già ricordato che secondo una corrente di pensiero anche un appello infondato può svolgere una certa, utile funzione.

Ed allora, ancora una volta, non resta che ribadire l'opportunità di una corretta informazione al cliente dell'attività svolta, delle prospettive e delle finalità.


7. Dobbiamo ora soffermarci sulla questione della colpa lieve, quale esimente della responsabilità ex art. 2236 c.c.

Due mi sembra che siano le questioni che si pongano in proposito. In primo luogo, quali siano i problemi tecnici di particolare difficoltà; in secondo luogo che cosa sia la colpa lieve.

La casistica in materia non ci aiuta molto.

In una risalente pronuncia degli anni Cinquanta del secolo scorso, la Cassazione ritenne che non potesse configurarsi un'ipotesi di responsabilità dell'avvocato che aveva errato nel determinare la pignorabilità o no di certi beni: la questione consisteva nell'inquadramento di questi nell'àmbito del patrimonio disponibile o indisponibile di un Comune (47).

Sempre in quegli anni fu oggetto di discussione se poteva ravvisarsi un'ipotesi di responsabilità professionale nel caso di un avvocato, il quale non aveva contestato un provvedimento, emesso dal collegio in sede di appello, che, revocando un'ordinanza del Consigliere Istruttore, ammissiva di un accertamento tecnico preventivo, aveva disposto una consulenza tecnica d'ufficio. Le risultanze di quest'ultima - pregiudizievoli per la parte difesa dall'avvocato nei cui confronti fu proposta l'azione di responsabilità - erano state esattamente opposte a quelle e a cui era giunto il tecnico nominato per l'accertamento preventivo. La Suprema Corte, poi, aveva ritenuto che certamente il giudice d'appello aveva errato nel ritenere che l'istruttore non potesse disporre accertamento tecnico preventivo, ma che, in assenza di ogni contestazione in proposito nello stesso giudizio d'appello, ogni doglianza fosse preclusa. Di qui l'azione di responsabilità nei confronti dell'avvocato che non aveva formulato doglianze rispetto all'ordinanza del giudice d'appello con cui era stata affermata l'illegittimità del provvedimento ammissivo dell'accertamento tecnico preventivo.

Il Tribunale, investito dell'azione di responsabilità (48), respinse ogni addebito nei confronti dell'avvocato, affermando che il comportamento tenuto era dipeso "da un'apprezzabile valutazione quale quella che il ... [giudice d'appello], disponendo una nuova consulenza tecnica aveva fatto uso di una sua incontestabile facoltà". Il Tribunale osservò, inoltre, che non era affatto provato che, laddove la Corte di cassazione avesse accolto l'impugnazione relativa all'illegittimità della revoca dell'ordinanza ammissiva dell'accertamento tecnico preventivo, nel giudizio di rinvio il giudice avrebbe accolto proprio le conclusioni a cui si era pervenuti nel corso dell'istruttoria preventiva.

Una questione analoga a quella affrontata dalla Suprema Corte nel 1957, e cioè relativa all'inquadramento di una fattispecie, fu oggetto di una sentenza del Tribunale di Benevento del 1982 (49): si contestava all'avvocato di aver accettato di difendere un preteso creditore in una complessa vicenda in cui si poteva configurare la nullità del contratto da cui nasceva il diritto di credito; sennonché, nel caso concreto, il Tribunale non solo ritenne che la controversia costituisse un caso in cui entravano in gioco problemi tecnici di particolare difficoltà, ma non ravvisò nel comportamento dell'avvocato alcuna ipotesi neppure di colpa lieve.

Ma ritorniamo ad alcune pronunce della Suprema Corte. In una decisione della fine degli anni Sessanta (50) si ritenne non addebitabile alcunché ad un avvocato per non aver rilevato la necessità che il P.M. concludesse avanti al Collegio in causa (terminata in quel grado con esito vittorioso) relativa ad una querela di falso (il P.M. aveva assistito alla presentazione della querela). Il processo era stato annullato per difetto di integrazione del contraddittorio col P.M. La Corte, tuttavia, non affrontò la questione se questa mancanza poteva o no rappresentare una colpa lieve. Affermò che l'obbligo di provocare l'intervento del P.M. incombeva al giudice e nulla poteva addebitarsi al difensore: non il ritardo dovuto all'annullamento del processo; non un danno conseguente al ritardo dovuto alla necessità di rifare il processo (danno nel ritardo che, peraltro, avrebbe dovuto ricadere sulla parte che fosse risultata definitivamente soccombente).

Lascia perplessi, invece, una sentenza del 1997 (51) con cui è stata è stata dichiarata la responsabilità dell'avvocato per non aver inviato, nell'interesse del locatore, una nuova disdetta del contratto di locazione, nell'incertezza della validità di una disdetta precedente (relativa ad un precedente contratto inter partes). Peraltro va detto che nella causa tra locatore e conduttore il giudice di primo grado aveva ritenuto valida la disdetta, talché l'imprudenza contestata al professionista poteva forse ritenersi lieve, tanto più che l'errore che cade sulla scadenza del contratto non inficia la validità della disdetta in relazione al termine effettivo, né sulla effettiva volontà di porre termine al rapporto (52). Ma la S.C. non ha condiviso tale assunto.

Sembrerebbe, invece, da condividere la decisione della Suprema Corte, a cui ho già fatto riferimento a nota 26, che ha negato rientrare nella categoria dei problemi tecnici di particolare complessità quella dell'avvocato che formula impropriamente dei mezzi di prova, poi rivelatisi pregiudizievoli.

La casistica fin qui esaminata non ci dà, tuttavia, dei criteri precisi su quel che deve ritenersi una colpa lieve.

Una corrente di pensiero ritiene che la colpa lieve attenga solo a profili di perizia, giammai ai profili di negligenza e imprudenza (53).

Questa distinzione non mi convince. Non vedo, infatti, perché non si possa parlare di colpa lieve per un avvocato che dimentica di citare un solo teste di un lunga lista e provoca, così, la decadenza dall'onere della prova, limitatamente a quel teste. Senza dubbio è un profilo di colpa, sussumibile sotto la categoria della negligenza, anche se, detto profilo, in un particolare contesto, potrà essere ritenuto di carattere lieve (ad es., perché il teste era chiamato solo a corroborare le deposizioni già rese da altri).

Sennonché, a tal proposito, penso che vi sia da chiarire un equivoco in cui anch'io sono caduto. Nel mio precedente studio sulla questione avevo formulato una serie di ipotesi di colpa lieve. In tal senso: a) il caso di una parte, che pur risultata vittoriosa al termine di una causa particolarmente complessa, si dolga che il proprio difensore non abbia formulato un'eccezione preliminare di merito che avrebbe potuto portare il processo ad una conclusione anticipata (es.: un'eccezione di decadenza o di prescrizione); b) il caso di una parte che lamenti che il proprio difensore abbia omesso di sollevare un'eccezione in rito (es.: un'eccezione di incompetenza); c) il caso di una parte di una parte risultata soccombente che si dolga che il proprio avvocato non abbia dedotto una prova su un fatto secondario, da cui forse il giudice avrebbe potuto trarre elementi di convincimento a sostegno della tesi sostenuta in causa dalla suddetta parte (o di dubbio sulla tesi dell'avversario) [benché in tal caso sia il nesso di causalità tra la colpa e l'evento negativo a far difetto]; d) il caso di una parte che lamenti che il proprio difensore, pur sollecitato nel corso di un'udienza di prove, non abbia chiesto ad un teste dei chiarimenti, ritenuti dal cliente stesso importanti; e) il caso di una parte che, soccombente, contesti al proprio difensore di essere decaduto dall'onere della prova per la mancata citazione di alcuni testi, che però erano solo a conferma di altre deposizioni già raccolte [ma anche in questo caso è dubbio che vi sia il nesso di causalità tra l'omissione e l'evento negativo].

Alcuni di questi esempi, tuttavia, soprattutto i primi due, melius re perpensa, mi sembra che presentino un difetto, spostando l'aggettivo "lieve" da attributo della colpa ad attributo dell'evento. Gli esempi restano validi, ma occorre precisare che colgono soltanto un aspetto del problema, poiché non è affatto detto che l'evento che consegue ad una colpa lieve sia per forza di cose solo lievemente dannoso (es., la mancata citazione anche del teste che avrebbe solo dovuto corroborare le deposizioni di altri, potrebbe rivelarsi pregiudizievole laddove potesse risultare che quella conferma avrebbe potuto rendere attendibili le deposizioni degli altri, invece non ritenute tali).

È nozione istituzionale che nell'àmbito della responsabilità civile il nesso di causalità tra fatto ed evento è ricostruito sulla base delle regole dettate dagli artt. 40 e 41 c.p. (sul punto si sofferma anche la sentenza n. 21894, con particolare riferimento all'evento come conseguenza dell'omissione).

Occorre, dunque, che l'evento sia la conseguenza dell'azione o dell'omissione del responsabile. Questo rapporto non vien meno per il concorso di cause preesistenti, simultanee e sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del responsabile. Solo le cause sopravvenute, ai sensi del 2° comma dell'art. 41 cod. pen., escludono il rapporto di causalità, quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento.

Ebbene, è noto che l'art. 40 c.p. e l'art. 41, comma 1, c.p. recepiscono la teoria del nesso causale denominata della condicio sine qua non o dell'equivalenza (54), "in quanto considera equivalenti agli effetti del diritto tutte le condizioni" (55).

È noto, tuttavia, che questa teoria è stata ritenuta eccessiva, tant'è che il legislatore ha voluto attenuarla proprio col disposto dell'art. 41, comma 2, c.p., che prende in considerazione le c.d. "interferenze di serie meramente occasionali" (56) [non potendo, infatti, riferirsi ad una serie causale del tutto autonoma: "perché, quando l'evento è dovuto ad una serie causale assolutamente indipendente, manca tra l'azione [originaria, oggetto dell'indagine] ... e il risultato (...) il nesso richiesto in generale dall'art. 40, di guisa che, per escluderlo, non vi sarebbe stato bisogno di una disposizione particolare" (57)] che ricorrono "allorché nel processo produttivo si inserisce un fatto che costituisce una vera deviazione dalla regola, e cioè un avvenimento straordinario" (58), anormale, eccezionale, alla stregua del quale il precedente costituisce una semplice "occasione" (59).

Tutto ciò sembra trovare sintesi, entro certi limiti, nelle affermazioni giurisprudenziali (60).

In tale contesto va inquadrato il problema della colpa lieve.

Nella catena delle cause che portano ad un certo evento negativo, se non vi fosse l'esimente dell'art. 2236 cod. civ., il professionista risponderebbe del danno anche per una colpa lieve, in virtù della teoria dell'equivalenza delle cause, tanto più che il nesso causale può essere spezzato solo da concause sopravvenute nei limiti previsti dall'art. 41, comma 2, cod. pen., ma non antecedenti o simultanee.

In tale contesto la nozione di colpa lieve assume la sua rilevanza: di fronte all'evento negativo della soccombenza l'avvocato potrebbe essere chiamato a risponderne; ma laddove non gli fosse contestata una negligenza (aver dimenticato di soddisfare un onere processuale, comportante una decadenza pregiudizievole), o un'imperizia (aver ignorato l'esistenza di una norma decisiva) o un'imprudenza (61), certamente non potrebbe essergli contestata la responsabilità per una scelta "discutibile", "opinabile" nella linea difensiva, una scelta lato sensu "colposa", che possa essere giustificata da incertezze o difficoltà interpretative o da situazioni complesse, che potrebbero effettivamente indurre in inganno.

Ma nonostante ciò, la nozione di colpa lieve resta ambigua ed evanescente.

8. Nella disamina fin qui condotta mi sono soffermato in particolare sulla responsabilità civile a carattere contrattuale.

È ovvio che gli aspetti presi in considerazione non esauriscono i ben più ampi profili di responsabilità civile dell'avvocato, che qui non è possibile affrontare funditus. Basti pensare, infatti, che detta responsabilità potrà avere oltre che natura contrattuale, anche natura extra-contrattuale, e che, mentre la prima, quella contrattuale, potrà porsi nei confronti dell'assistito che ha conferito l'incarico all'avvocato, la seconda, quella extra-contrattuale, invece, potrà porsi sia nei confronti del predetto assistito (e in tal caso le due ipotesi potranno essere anche concorrenti (62)), sia nei confronti della controparte.

Alcuni esempi possono chiarire la distinzione: il mancato compimento colposo di un atto processuale può sicuramente essere foriero di danni (si pensi ad una decadenza), ma qualora quell'omissione fosse volontaria, si potrebbe configurare oltre ad profilo contrattuale anche quello di responsabilità extra-contrattuale (nell'ipotesi addirittura configurante il reato di patrocinio infedele ex art. 380 cod. pen. ); se il professionista incaricato di recuperare un credito si appropria di parte delle somme riscosse, va da sé che vìola un obbligo contrattuale, specificamente previsto dalle norme sul mandato (art. 1713 cod. civ. sull'obbligo del rendiconto), ma al contempo compie un fatto illecito, costituente anche l'ipotesi di reato di appropriazione indebita (art. 646 cod. pen. )

La responsabilità extra-contrattuale nei confronti della controparte può manifestarsi in vari modi, sicuramente lesivi del dovere di lealtà e probità, sancito dall'art. 88 c.p.c. Si pensi al caso di un'attestazione di persistenza della morosità ai sensi dell'art. 663 c.p.c. (63), effettuata dal difensore nella consapevolezza della sua falsità; oppure si pensi all'illegittima trascrizione di una domanda giudiziale o all'illegittima iscrizione ipotecaria, fatte eseguire dal difensore nella consapevolezza dell'abuso, magari a fini estorsivi (64). Ancora direi che può ipotizzarsi la chiamata in correità nel reato di cui all'art. 388, comma 1, cod. pen. per l'avvocato che consigli l'assistito di compiere atti simulati o fraudolenti al fine di sottrarsi all'adempimento degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna, o dei quali è in corso l'accertamento dinanzi l'A.G.

Questi pochi esempi ci prospettano indagini che non possono essere qui affrontate.

Qui basti segnalare che le questioni connesse investono un ripensamento complessivo del ruolo sociale dell'avvocato, il quale non può dimenticare i doveri di lealtà e probità ed il principio di autonomia, sancito, peraltro, dall'art. 36 del codice deontologico.

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(1) Per un recente studio in materia, cfr. Piselli, La responsabilità civile, in Garello - Piselli - Scuto, Le responsabilità dell'avvocato, Milano, 2003, 1 ss. Per un esame critico di alcune decisioni in materia mi permetto di rinviare al mio Profili di responsabilità civile dell'avvocato, in Nuova giur. civ. comm., 2004, II, 144 ss.

(2) Cass. 10 febbraio 1931, n. 495, in Riv. dir. proc. 1931, II, 260 con nota di Calamandrei, Limiti di responsabilità del legale negligente.

(3) Cfr. Trib. Roma, 3 marzo 1954, in Giust. civ. 1954, I, 726 e in Giur. it. 1955, I, 2, 302. La sentenza è richiamata anche da Cattaneo, La responsabilità del professionista, Milano, 1958, 185, nota 24 ed ivi ulteriori riferimenti.

(4) Mi permetto di rinviare nuovamente al mio Profili di responsabilità civile dell'avvocato, cit., 146 ss.

(5) Cfr. recentemente sul punto Piselli, op. cit., 5.

(6) Sul punto amplius Cass., 2 agosto 1973, n. 2230, in Giust. civ., 1973, I, 1864 ss., spec. 1867 e Cass., 28 aprile 1994, n. 4044, in Resp. civ. e prev., 1994, 635. In dottrina, recentemente, v. Piselli, op. cit., 6 e Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 2005, 326.

(7) Cfr. Cass., 14 agosto 1997, n. 7618, in Foro it., 1997, I, 3570; cfr. anche, in senso sostanzialmente conforme, Cass., 15 gennaio 2001, n. 499 e Cass., 23 aprile 2002, n. 5928, in Giur. it. 2003, 490 (incidentalmente osservo che la seconda di dette sentenze, tuttavia, nel richiamarsi al rapporto tra l'art. 1176 c.c. e l'art. 2236 c.c., menziona della prima norma soltanto il primo comma e non il secondo, che attiene ala specifica diligenza del professionista. Sul punto cfr. Cattaneo, op. cit., 53, per cui il comma 2 "non è che un'applicazione particolare della regola generale enunciata nel 1° comma").

(8) Mi permetto di richiamare nuovamente il mio Profili di responsabilità civile dell'avvocato, cit., 153.

(9) Per rilievi critici su questa disposizione protettiva del professionista, v. Cattaneo, op. cit., 72 e Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., 846. Sul punto cfr. anche Piselli, op. cit., 33 ss.

(10) Per un riepilogo del dibattito sul punto v. recentemente oltre a Piselli, op. cit., 8 ss., anche Favale, La responsabilità civile del professionista forense, in Giust. civ. 2004, I, 248 ss., spec. 249 ss., e Assanti, Le professioni intellettuali e il contratto d'opera, in Trattato di diritto privato, a cura di Rescigno, 15, 2, Utet, 2004, 839 ss., spec. 851. Sul punto v. anche Vigotti, La responsabilità del professionista, in La responsabilità civile - rassegna di dottrina e giurisprudenza diretta da Alpa e Bessone, IV, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, Torino, 1987 239; Clarizia - Ricci, Clarizia - Ricci, La responsabilità civile dell'avvocato, ivi, 287.

(11) Per es., un'obbligazione di risultato si è ravvisata nell'incarico al notaio di verifica delle iscrizioni ipotecarie relative ad un immobile compravenduto: Cass. 3 gennaio 1994, n. 6, in questa Rivista, 1994, 10, 1268.

(12) In dottrina alcune voci contrarie si sono sollevate in passato. Per un'analisi critica vedasi Piselli, op. cit., 11 ss. Vedasi anche Assanti, op. cit., 852.

(13) Questo esempio che avevo già esposto nel mio scritto Profili di responsabilità civile dell'avvocato, cit., 152, è stato ripreso da Comandé, Quel confine tra lite temeraria e "causa pilota" che rischia di incrinare i rapporti con il cliente, in Responsabilità e risarcimento - Guida al diritto, febbraio 2005, 18 ss., spec. 20.

(14) Cfr. Piselli, op. cit., 14 e Comandé, op. loc. cit.; Cattaneo, op. cit., 58.

(15) Cass. 8 maggio 1993, n. 5325, in Foro it. 1994, I, 3188, e in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, 266, e in questa Rivista, 1994, 10, 1270. Il principio espresso dalla Suprema Corte a me sembra esatto in generale, ma non pertinente nel caso concreto: sul punto, per una critica, v. infra nel testo dopo il richiamo a nota 39.

(16) Cfr. Piselli, op. cit., 15.

(17) Cass., 10 febbraio 1931, n. 495, cit. che affermava: "habent sua sidera lites". Non posso qui soffermarmi sul contenuto di questa sentenza, la quale negava che l'avvocato potesse rispondere civilisticamente per l'omesso appello. Per considerazioni mi permetto di rinviare al mio Profili di resp. civ. dell'avv., cit., 150 ss. In precedenza v. anche Cattaneo, op. cit., 186 ss.

(18) Cass., 14 novembre 2002, n. 16023, in Danno e resp. 2003, 3, 256, con nota di Fabrizio-Salvatore, L'avvocato e la responsabilità da parere. Le precedenti sentenze dei giudici di merito sulla fattispecie sono Pret. Perugia, 17 giugno 1998 e Trib. Perugia, 12 ottobre 1999, in Rass. giur. umbra, 2000, 52. Per alcune critiche alla pronuncia della S.C. (non sul principio in sé, ma sulla riferibilità alla fattispecie), cfr. il mio Profili di responsabilità civile dell'avvocato, cit., 149 ss.

(19) Cass. 29 novembre 1973, n. 3298, in Foro it., 1974, I, 678 (di cui ampi stralci sono stati ripresi da Cass., 14 novembre 2002, n. 16023). Per alcune critiche alla sentenza del 1973, cfr. ancora una volta il mio Profili di responsabilità civile dell'avvocato, cit., 153, nota 39.

(20) Cfr. Cass., 28 aprile 1994, n. 4044, in Resp. civ. prev. 1994, 635, nonché recentemente Trib. Roma, 2 giugno 2003, in Giust. civ., 2004, I, 243, con la già cit. nota di Favale, La responsabilità civile del professionista forense. Vedi anche Cass., 29 novembre 1973, n. 3298, cit. e Cass., 29 novembre 1968, n. 3848, in Foro it. 1969, I, 903.

(21) Per una responsabilità derivante da un'impugnazione viziata da nullità sanabile solo con effetto ex nunc cfr. Cass., 23 aprile 2002, n. 5928, cit. (citazione in opposizione a decreto ingiuntivo priva della data di prima udienza, nel regime processuale anteriore al vigore della L. 353 del 1990).

(22) Per quanto concerne le decadenze, le ipotesi più frequenti sono relative alla mancata proposizione (tempestiva) di un'opposizione a decreto ingiuntivo (cfr. Trib. Roma, 11 ottobre 1995, in Danno e resp. 1996, 644), di un'opposizione a stato passivo (cfr. Cass., 13 dicembre 1969, n. 3958, in Giust. civ. 1970, I, 404), di un appello (cfr. Cass., 26 febbraio 2002, n. 2836, in Resp. civ. prev., 2002, 1373, con nota di Facci, L'errore dell'avvocato, l'appello tardivo e la chance di vincere il processo), ma anche un'opposizione agli atti esecutivi (cfr. Cass., 25 maggio 1983, n. 3612, in Giur. it., 1983, I, 1, 1810 per la mancata impugnazione del prezzo d'asta determinato dal G.E. in un quinto del valore di mercato). Va segnalata recentemente Trib. Milano, 18 novembre 2004 (ined.), che ha condannato un professionista per non aver proposto tempestivamente appello, ma ha accolto la domanda di parziale regresso nei confronti del Ministero competente per la mancata comunicazione del deposito della sentenza allo stesso professionista, domiciliatario della parte soccombente.

(23) Nella fattispecie per il mancato invio di una disdetta di un contratto di locazione (cfr. Cass., 14 agosto 1997, n. 7618, cit.): sul punto, peraltro vedasi infra subito dopo il richiamo a nota 50 le mie osservazioni critiche.

(24) Cass., 6 febbraio 1998, n. 1286, in Resp. civ. e prev., 1998, 650 ss. e in Danno e resp., 1998, 343 ss. Nella fattispecie un professionista incaricato di assistere una parte lesa in un processo penale per lesioni conseguenti ad un incidente automobilistico era incorso in molteplici mancanze e, tra queste, anche l'indicazione di testi che, avrebbero potuto essere determinanti se non per la condanna dell'imputato, quantomeno per l'assoluzione con formula dubitativa. Tale soluzione avrebbe consentito alla parte lesa di agire giudizialmente in sede civile, potendo utilizzare, per ottenere il risarcimento dei danni, la presunzione di cui all'art. 2054 c.c., preclusa, invece, dall'assoluzione con formula piena. Cfr. anche Cass., 23 aprile 2002, n. 5928, cit.

(25) Cfr. Trib. Roma, 27 novembre 1992, in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, 267 (nella fattispecie, nell'àmbito di un'esecuzione immobiliare, l'avvocato aveva proposto un ricorso di opposizione agli atti esecutivi avverso il provvedimento di aggiudicazione di un immobile sul presupposto della nullità della notificazione dell'ordinanza che fissava la data dell'asta - questa era stata notificata ai sensi dell'art. 143 c.p.c. ed il suo perfezionamento si era avuto in data successiva alla data stessa dell'asta. Il tutto in un contesto particolare, poiché il debitore esecutato aveva provveduto a pagare il proprio debito, salvo per le spese della procedura esecutiva di circa 1.500.000 di vecchie lire. Senonché, proposta l'opposizione, l'avvocato si convince della validità della notificazione dell'ordinanza e consiglia l'assistito di abbandonare la causa; nonostante l'assenza di specifica autorizzazione, non provvede alla notificazione del ricorso di opposizione agli atti esecutivi. Il tribunale adìto per la causa di responsabilità ha ritenuto grave l'errore commesso in ordine alla valutazione della validità della notificazione "impugnata", valutazione che non comportava alcun "margine di complessità tecnica". Il risarcimento dei danni è stato determinato sulla base della differenza tra quanto ricavato in sede d'asta ed il valore effettivo dell'immobile, rivalutata sulla base dell'incremento (4 volte) di valore degli immobili.

(26) Cfr. Cass., 18 maggio 1988, n. 3463, in Resp. civ. prev., 1989, 317 e in questa Rivista, 1988, 9, 989, con nota adesiva di Danovi, Prove testimoniali e responsabilità dell'avvocato. Nella fattispecie Tizio ("sé-dicente" acquirente) conveniva Caio (supposto venditore) avanti ad un tribunale per sentir dichiarare validamente concluso tra loro un contratto di vendita di un'azienda-bar, ovvero, in via subordinata un preliminare di compravendita della stessa, coi relativi provvedimenti ex art. 2932 c.c. Caio era assistito dall'avv. Sempronio, che eccepiva che il contratto di cessione d'azienda deve essere provato, ai sensi dell'art. 2556 c.c., per iscritto. E fin qui, nulla quaestio. Senonché l'avv. Sempronio, in relazione alla domanda subordinata, avendo avuto il dubbio che il limite previsto dall'art. 2556 c.c. potesse valere anche in relazione al contratto preliminare, articolava dei capitoli di prova per testi per dimostrare che tra Tizio e Caio c'erano state solo trattative in relazione alla vendita dell'azienda e che l'affare non si era concluso per l'opposizione della moglie di Caio alla vendita, tant'è che Caio aveva restituito a Tizio un assegno ricevuto in garanzia. A quanto è dato sapere, l'esito delle prove per il convenuto Caio fu una débâcle; il giudice istruttore sottopose l'azienda a sequestro giudiziario, tant'è che Caio, in assenza dell'avv. Sempronio, dovette pervenire ad una transazione della causa. A fronte di decreto ingiuntivo richiesto da Sempronio per le prestazioni professionali prestate, Caio propose opposizione, adducendo che l'esito sfavorevole della causa era dovuto alle prove inopinatamente richieste dall'avv. Sempronio. Il giudice di primo grado respinse l'opposizione sul presupposto che "costituisce un problema di particolare difficoltà stabilire se anche il contratto preliminare debba essere provato per iscritto ove tale limitazione di prova sia prevista dalla legge per il contratto definitivo" e concludeva escludendo, pertanto, la responsabilità di Sempronio per colpa grave. Ovviamente, venendo in considerazione la particolare difficoltà, nessun rilievo poteva ricondursi alla colpa lieve (Pret. Taranto, 19 febbraio 1982, in Giur. it., 1982, I, 2, 581). Di contrario avviso andavano i giudici di appello, secondo i quali "se esisteva un problema tecnico di particolare difficoltà, come quello concernente l'esigenza della prova per iscritto anche del preliminare, esso interessava, se mai, l'attore, gravato del relativo onere probatorio, e che il possibile ostacolo all'ammissione della prova testimoniale al riguardo era stato rimosso proprio dal difensore del convenuto", che aveva adottato "mezzi difensivi non diligentemente scelti fra quelli disponibili", rendendosi inadempiente verso il proprio assistito (il virgolettato è ripreso dalla sentenza della C.S.). La sentenza dei giudici di secondo grado è stata confermata in Cassazione, la quale ha sottolineato che nessun profilo di particolare complessità investiva la domanda principale nel processo Tizio/ Caio; mentre la complessità poteva effettivamente riscontrarsi sulla prova della stipulazione del preliminare, ma detto problema non era dell'avv. Sempronio, bensì dell'avvocato dell'attore (Tizio).

(27) Cfr. Cass., 13 dicembre 1969, in Giust. civ., 1970, I, 404, spec. 406: "il legale che, incaricato di curare determinati interessi di un cliente, non ritenga opportuno promuovere l'azione più direttamente prevista dalla legge per i casi del genere [nella specie, un'opposizione a stato passivo], ha il dovere di informare tempestivamente della sua opinione il cliente, in modo da metterlo in condizioni di evitare decadenze o prescrizioni, ove egli intenda dissentire dal suddetto parere". Secondo Cass., 18 giugno 1996, n. 5617, in Giur. it., 1997, I, 1, 638 sussiste la responsabilità del professionista che ometta una doverosa attività extra-processuale, come la mancata tempestiva informazione del cliente, posto che la condotta del legale deve essere tale da garantire la tutela degli interessi affidatagli (nella fattispecie il legale non aveva comunicato al cliente la declaratoria d'inammissibilità di un appello, impedendogli, in tal modo, il ricorso per cassazione).

(28) Cass., 23 aprile 1998, n. 4203, in Giur. it., 1999, 1845; conf. Cass., 2 agosto 1973, n. 2230, in Giust. civ., 1973, I, 1864.

(29) Cass., 18 giugno 1996, n. 5617, cit.

(30) Cass., 13 dicembre 1969, n. 3958, cit.

(31) App. Perugia, 14 febbraio 1995, in Rass. giur. umbra 1996, 1 ss., spec. 3-4. Affermazione che oggi potrebbe valere tutt'al più, almeno secondo l'orientamento maggioritario in dottrina e in giurisprudenza (cfr. Cass. 12 luglio 2000, n. 9236, in questa Rivista 2000, 12, 1559 con nota di Consolo. Per una critica a detti orientamenti mi permetto di rinviare alla mia monografia L'ordinanza di ingiunzione nel processo civile, Padova 2003, 88 ss., ove ulteriori riferimenti bibliografici e giurisprudenziali), in relazione alle sentenze costitutive e di mero accertamento.

(32) Cass., 13 dicembre 2001, n. 15759, in Giust. Civ., 2002, I, 1285 ss., spec. 1288. Su questa pronuncia v. anche Favale, op. cit. 263.

(33) Si veda, in particolare, il decisivo passo in cui si afferma che "l'evidenziata natura della obbligazione assunta dal professionista come obbligazione di mezzi non esime quest'ultimo dal dovere di prospettare al cliente tutti gli elementi contrari, ... Pertanto la valutazione in ordine all'adempimento o meno da parte dell'avvocato dell'obbligazione conseguente all'incarico professionale conferitogli ... involge una indagine volta a verificare l'eventuale violazione dei doveri connessi allo svolgimento dell'attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza; nell'ambito di quest'ultimo sono ricompresi i doveri di sollecitazione, di dissuasione ed in particolare di informazione, al cui adempimento il professionista è tenuto sia all'atto dell'assunzione dell'incarico che nel corso del suo svolgimento, evidenziando al cliente le questioni di fatto e/o di diritto rilevabili ab origine o insorte successivamente ritenute ostative al raggiungimento del risultato o comunque produttive di un rischio di effetti dannosi, invitandolo a fornirgli gli elementi utili alla soluzione positiva delle questioni stesse, ed anche sconsigliandolo dall'iniziare o proseguire una lite ove appaia improbabile un epilogo favorevole, e, anzi, probabile un esito negativo".

(34) Nello stesso senso anche Facci, op. cit., 1384

(35) Conf. Facci, op. cit., 1384.

(36) Facci, op. cit., 1386. Cfr. anche Cass.21 luglio 2003, n. 11322 in Foro it., 2004,I, 155 con nota di Faella.

(37) Cass., 26 febbraio 2002, n. 2836, cit. 2002, 1373.

(38) Pret. Bologna, 12 maggio 1970, in Giur. it. 1972, I, 2, 51 ss., spec. 56. Il Pretore non ravvisava in tali casi una violazione del principio di lealtà e probità.

(39) Cass., 29 novembre 1973, n. 3298, cit., 678; conf. Cass., 14 novembre 2002, n. 16023, cit. Sui profili di responsabilità che derivano da questa attività cfr. anche Favale, op. cit., 252 e segg

(40) Cass., 8 maggio 1993, n. 5325, in Foro it. 1994, I, 3188 ss., spec. 3191.

(41) Si pensi, ad esempio alla questione dell'applicabilità del termine di costituzione previsto dall'art. 98 della l.fall. anche al termine di costituzione dell'insinuazione tardiva di credito: affermata per lungo tempo, talché si faceva discendere nel caso di mancata o tardiva iscrizione a ruolo di quest'ultima causa la rinuncia a far valere il credito, recentemente è stato rivista nel senso della non applicabilità (Cass., 18 gennaio 2001, n. 689).

(42) Cfr. Cass. S.U. 5 marzo 1996, n. 1729, in questa Rivista, 1996, 6, 648, con mia nota Sul perfezionamento della notificazione a mezzo posta.

(43) Fattispecie oggi superata dopo la declaratoria d'incostituzionalità di Corte cost. 26 novembre 2002, n. 477, in questa Rivista, 2003, 1, 23 con mia nota Diritto di difesa ed oneri della notifica. L'incostituzionalità degli artt. 149 c.p.c. e 4, comma 3, L. 890/82: una "rivoluzione copernicana"?

(44) Cfr. Trib. Roma, 27 novembre 1992, cit.

(45) Cass. 3 ottobre 1957, n. 3589, in Foro It. 1957, I, 1774 con nota di Musatti (e in Foro pad. 1958, I, 295 con nota di Lega - Questa sentenza non fa che ribadire che salva l'ipotesi prevista dall'art. 2236 c.c., in caso di errore professionale l'avvocato risponde per colpa, valutabile con riguardo alla natura dell'attività esercitata. Si è così rigettato un ricorso contro una pronuncia del Tribunale de L'Aquila dove si affermava che "nessuna responsabilità può mai sussistere, quando si tratti di interpretare la legge, ovvero risolvere questioni opinabili" (nella fattispecie - che dalla pronuncia non si ricava con chiarezza - si addebitava all'avvocato di aver inquadrato inesattamente la natura di alcuni beni, se rientranti o no nel patrimonio disponibile o indisponibile di un Comune).

(46) Cfr. Magni, Responsabilità dell'avvocato per negligente perdita della lite tra "certezza" e "probabilità" di un diverso esito del giudizio, in Danno e resp. 1998, 4, 345 ss., spec. 348. Anche in relazione al giudizio disciplinare il merito della causa non dovrebbe essere rilevante: cfr. Danovi, Errore professionale: responsabilità civile e responsabilità disciplinare, in Resp. civ. e prev. 1986, 467 ss., spec. 477. Anche Cass. 18 giugno 1996, n. 5617, in Giur. it. 1997, I, 1, 638 ss., spec. 640, afferma che "è compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica da seguire nella prestazione dell'attività professionale". Sul punto v. anche Favale, op. cit., 258 ss.

(47) Cass., 3 ottobre 1957, n. 3589, cit. (e vedi supra a nota 45).

(48) Trib. Cassino, 15 dicembre 1954, in Foro it., 1955, I, 499.

(49) Trib. Benevento, 18 gennaio 1982, in Giur. mer., 1983, I, 620.

(50) Cass., 3 agosto 1968, n. 2791, in Giur. it. 1969, I, 1938, con nota di Lega.

(51) Cass., 14 agosto 1997, n. 7618, cit. supra a nota 23.

(52) Cfr. Pret. Verona, 11 gennaio 1991, in Arch. loc. 1991, 635 e Pret. Firenze 17 marzo 1987, ivi, 1987, 377; si veda anche Cass., 11 agosto 1987, n. 6885, Cass., 11 aprile 1992, n. 4390, Cass., 8 giugno 1992, n. 7044 e Cass., 26 luglio 1995, n. 8159 sulla valenza di emendatio libelli della modificazione in corso di causa dell'indicazione della data di scadenza del termine contrattuale

(53) Cfr. Cass., 1° agosto 1996, n. 6937: nella specie, è stata esclusa l'applicabilità della menzionata disposizione in relazione al comportamento di un avvocato che, pur avendo ricevuto dal proprio assistito un foglio in bianco contenente una procura, aveva omesso di impugnare il licenziamento subito dall'assistito stesso, cagionandogli, così, danni risarcibili. Senonché era l'eccezione della sussistenza di colpa lieve che nella fattispecie era infondato.

(54) Antolisei, Manuale di diritto penale - Parte generale, Milano, 1975, 193; Fiandaca - Musco, Diritto penale - Parte generale, Bologna, 1985, 102.

(55) Antolisei, op. cit., 186; Fiandaca - Musco, op. cit., 102.

(56) Antolisei, op. cit., 195, che richiama l'espressione usata nella Relazione ministeriale al progetto definitivo del codice penale.

(57) Antolisei, op. cit., 193; v. anche Fiandaca - Musco, op. cit., 115.

(58) Antolisei, op. cit., 196

(59) Ibid., 196.

(60) Cfr. Cass., 13 settembre 2000, n. 12103 e Cass., 11 febbraio 1988, n. 1473

(61) Sul punto cfr. Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., 848.

(62) Cfr. Cass., 6 agosto 2002, n. 11766;Cass., 20 giugno 2001, n. 8381;Cass., 13 marzo 1998, n. 2760;Cass., 6 ottobre 1997, n. 9705, in Giust. Civ., 1998, I, 424; Cass., 3 ottobre 1996, n. 8656. In dottrina cfr. Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, cit., 326 ss.; Clarizia - Ricci, op. cit., 286; Lega, Le libere professioni intellettuali, cit., 811.

(63) Sul diritto al risarcimento del danno nei confronti della parte in tal caso cfr. Cass., 12 gennaio 2000, n. 247, in Foro it. 2000, I, 1902.

(64) Cfr. le inedite sentenze Trib. Milano, 28 ottobre 1993, n. 10010 (nella fattispecie fu annullata per violenza una conciliazione giudiziale in cui una parte si era impegnata a rilasciare garanzie a favore di creditore contro la cancellazione di un'ipoteca giudiziale iscritta in forza di un decreto ingiuntivo non munito di provvisoria esecutorietà, ma a cui era stato erroneamente apposto in cancelleria il timbro con la dizione "ad uso iscrizione ipotecaria". Il Tribunale rimise d'ufficio gli atti di causa alla procura della Repubblica ravvisando il reato di estorsione nel comportamento del creditore e del suo difensore) e Trib. Milano, 11 maggio 2001, n. 360 (nella fattispecie fu respinta una domanda di revocatoria ordinaria di un contratto di compravendita, proposta da un "sé-dicente" creditore e ritenuta fin dall'inizio della causa manifestamente infondata. Il relativo atto di citazione era stato trascritto ed il "sé-dicente" creditore non aveva ottemperato all'ordine del giudice istruttore, ex art. 700 c.p.c., di provvedere alla cancellazione della trascrizione, prestando il relativo assenso avanti a notaio. Il provvedimento d'urgenza de quo è Trib. Milano, 24 gennaio 2001, in Giur. it. 2001, 1155, con ampia nota redazionale, confermato in sede di reclamo da Trib. Milano, 22 febbraio 2001, ibid. Anche in questo caso il Tribunale, con la sentenza menzionata, rimise gli atti di causa alla procura della Repubblica, ravvisando nel comportamento dell'attore e del suo difensore gli estremi del tentativo di estorsione

Da: bambulella14/12/2010 12:48:19
@preoccupato per una collega.......siamo in due ad essere preoccupati.....nn mi danno cenni di vita!

Da: atre14/12/2010 12:48:36
perfavore notizie da lecce!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Da: cicciorox 14/12/2010 12:48:56
ma è possibile che non ci siano ancora i pareri svolti?

Da: bruno14/12/2010 12:48:56
come va a lecce

Da: pa14/12/2010 12:49:06
La nomina, nel corso del giudizio, di un secondo procuratore non autorizza, di per sè sola, in difetto di univoche espressioni contrarie, a presumere che la stessa sia fatta in sostituzione del primo procuratore dovendosi invece presumere che sia stato aggiunto al primo un secondo procuratore, e che ognuno di essi sia munito di pieni poteri di rappresentanza processuale della parte, in base al principio del carattere ordinariamente disgiuntivo del mandato stabilito dall'art. 1716, secondo comma, codice civile. Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 4 maggio 2005, n. 9260
Preciso che nella traccia non si presume ma si dice chiaramente che si vuole AFFIANCARE al commercialista l'avvocato specializzato...ergo nessuna volontà di cessare il rapporto in essere col commercialista ma solo effettuare una collaborazione..richiesta legittima della società..

Da: raf14/12/2010 12:49:32
big per cortesia mia moglie si e' riuscita a mettere in contatto con me mi sta chiedendo l'inizio del parere per la prima traccia mi puoi aiutare te lo chiedo per favore....

Da: torino torino14/12/2010 12:51:27
per favore qualcuno ha notizie da torino?

Da: alfredo14/12/2010 12:52:05
allora ragazzi qualcuno ke da lo svolgimento della prima traccia?

Da: Please....14/12/2010 12:52:33
Per favore...sulla 1a TRACCIA...ho troppa confusione!Ho letto tre possibili sentenze..ma qual'è più attendibile?
- Corte appello milano, 24 sett 2008;
- Autorità: Cassazione civile sez. lav. 27 ottobre 2010
Numero: n. 21977;
- Corte di cassazione, sez. III civile - 26 aprile 2010, n. 9916.
Cass. civ. Sez. III, 26/04/2010, n. 9917

Da: Bari14/12/2010 12:52:50
si sa niente di Bari? grazie

Da: sil14/12/2010 12:52:51
A che ora ha iniziato napoli?

Da: anonimo14/12/2010 12:52:53
cazzate

Da: avv14/12/2010 12:53:12
Per la I traccia, esaminare:
- mandato professionale;
- disciplina di recesso dal contratto ex 2237 cc;

Rispondere alle domande:
- recesso di Tizio, per l'affiancamento dell'avv, costituisce giusta causa?
- diritto al rimborso, compenso e risarcimento.

Se non troviamo la Cassazione, analizziamo il tutto sulla base della normativa e della giurisprudenza esistente allo stato.

Da: Antoniospaghetto14/12/2010 12:53:59
mamma mia ......sto sito è PIENO di gente che vuole SAPERE e SCARSO di quelli che vogliono DIRE! VI ODIO.
FORZA ANTONINO!

Da: Avv Firenze14/12/2010 12:55:00
prima traccia - Corte di cassazione, sez. III civile - 26 aprile 2010, n. 9916.
Cass. civ. Sez. III, 26/04/2010, n. 9917

Da: arcuri14/12/2010 12:56:30
ho molta confusione posso sapere la sentenza esatta della 1 traccia
grazie

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