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ESAME SCRITTO 2010
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Da: enrico5616/12/2010 13:27:26
qualcuno potrebbe postare questa sentenza per cortesia?
Non riesco a trovarla.
Cassazione, Sez. II, 25 ottobre 2010, n. 37843

Da: raffaella16/12/2010 13:27:44
pacozzo devi essere p0iù sintetico

Da: ...16/12/2010 13:28:17
stiamo lavorando...per piacere non postate sempre le stesse cose e nn fate sempre le stesse domande perchè intasate il forum e non possiamo confrontarci con gli altri utenti "utili" che stanno postando sentenze "utili". attualmente ce ne freghiamo di napoli milano bolgna o di cugine mogli e mariti. grazie

Da: dottor x16/12/2010 13:29:49
Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 21-09-2010) 25-10-2010, n. 37843     



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Svolgimento  Motivazione  PQM 
REATO IMPOSSIBILE

TENTATIVO


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BARDOVAGNI Paolo - Presidente

Dott. GENTILE Domenico - Consigliere

Dott. PRESTIPINO Antonio - Consigliere

Dott. TADDEI Margherita - Consigliere

Dott. RAGO Geppino - rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

1. G.A. nato il (OMISSIS);

2. A.E. nato (OMISSIS);

3. C.A.G. nato il (OMISSIS);

4. B.S. nato il (OMISSIS);

5. M.G. nato il (OMISSIS);

6. CR.NA. nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 13/07/2009 della Corte di Appello di Milano;

Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;

udita la relazione fatta dal Consigliere dott. RAGO Geppino;

Udito il Procuratore Generale in persona del dott. MAZZOTTA Gabriele ha concluso per l'annullamento senza rinvio limitatamente la conferma della condanna per i capi E) ed F); rigetto nel resto;

Udito per la parte civile Mondialpol Novara l'avv. Losengo Roberto che ha concluso per il rigetto ed il pagamento delle spese;

Uditi i difensori avv.ti Pezzoni Claudia (per B. - M. e G.) e Colaleo Luigi (per C.) i quali hanno concluso per l'accoglimento del ricorso.


Svolgimento del processo
p. 1. Con sentenza del 13/07/2009, la Corte di Appello di Milano confermava, in punto di responsabilità, la sentenza pronunciata in data 17/07/2008 dal Tribunale della medesima città con la quale CR.Na. - G.A. - C.A. - B. S. - M.G. e A.E. erano stati ritenuti responsabili dei delitti di ricettazione e tentata rapina aggravata. p. 2. Avverso la suddetta sentenza, tutti i suddetti imputati hanno proposto ricorso per cassazione. p. 2.1. G. ha dedotto violazione degli artt. 56 e 628 c.p. per avere la Corte ritenuto la configurabilità del tentativo, nonostante fosse stato arrestato in un momento in cui la presunta progettata rapina al furgone portavalori della Mondialpol non fosse ancora in esecuzione. Infatti, il suddetto furgone sarebbe passato dal luogo dove egli, insieme agli altri coimputati, fu sorpreso dalla Polizia, solo dopo due ore, e le armi con tutta l'attrezzatura per eseguire la rapina erano ricoverate in un box - nella disponibilità di uno dei coimputati - che si trovava ad una distanza di circa km 4,5. In altri termini, ci si trovava di fronte ad atti meramente preparatori e non esecutivi che non avevano alcuna idoneità causale a ledere il bene giuridico protetto. Infatti, la suddetta riunione non era altro che il momento in cui avrebbe dovuto perfezionarsi l'accordo a commettere il delitto, delitto dal quale, però, esso ricorrente ben avrebbe potuto pur sempre ancora desistere. p. 2,2. C. ha dedotto i seguenti motivi:

1. Violazione dell'art. 415 bis c.p.p. per non essere stato sentito dal P.m. nonostante lo avesse espressamente richiesto;

2. Illogicità della motivazione per non avere la Corte territoriale creduto alla tesi difensiva secondo la quale esso ricorrente si trovava sul luogo dell'arresto solo per una "disgraziata circostanza fortuita" nonostante la suddetta tesi fosse stata confermata da prove testimoniali e documentali. La Corte, infatti, aveva tratto il suo convincimento sulla base di illazioni prive di alcun riscontro anche solo presuntivo, trascurando di dare conto degli elementi favorevoli indicati dalla difesa;

3. Violazione degli artt. 56 e 628 c.p. si tratta dello stesso motivo proposto dal G.;

4. violazione dell'art. 648 c.p. per avere la Corte ritenuto la configurabilità del reato di ricettazione delle armi e del furgone che sarebbero serviti per la rapina, nonostante esso ricorrente non avesse mai avuto la disponibilità delle armi nè fosse intervenuto nell'acquisito o ricevimento dei suddetti beni;

5. violazione dell'art. 62 bis c.p. per non avere la Corte concesso la suddetta attenuante nonostante fossero state indicate le ragioni che avrebbero dovuto indurre la Corte ad accogliere la richiesta (eccessività della pena - minore intensità del dolo e alla partecipazione nel fatto). p. 2.3. M., ha dedotto i seguenti motivi:

1. violazione degli artt. 56 - 628 c.p. si tratta dello stesso motivo dedotto dal G.;

2. violazione dell'art. 192 c.p.p., comma 2 per avere la Corte territoriale ritenuto la responsabilità di esso ricorrente sulla base di elementi che non presentavano i requisiti della gravità, precisione e concordanza. Invero, il nome del M. risultava solo nell'intercettazione telefonica del (OMISSIS) (ossia il giorno della tentata rapina), alle ore 7,52 quando venne contattato dal Ma. (uno dei coimputati) il quale gli chiese di rendersi disponibile tutto il giorno. Tuttavia, esso ricorrente rispose che poteva esserlo fino alle ore 16,30, orario in cui doveva recarsi a prelevare i bambini a scuola. Ed era poi significativo il fatto che "nè il giudice nè l'attività investigativa riescono a chiarire con quali modalità e funzioni il M. sarebbe stato introdotto nella struttura criminale". In particolare, quanto al preteso ruolo avuto nella manomissione della centralina dei furgoni navetta, nulla era stato provato, anche perchè non era neppure certo che fossero state manomesse ed i testi Be. e V., incaricati dalla Mondialpol di effettuare una perizia sulla centralina di uno dei furgoni, aveva reso dichiarazioni discordanti e prive di credibilità scientifica tant'è che esso ricorrente aveva provveduto a querelare il legale rappresentante della Mondialpol per simulazione di reato e calunnia. p. 2.4. B. ha dedotto i seguenti motivi:

1. violazione degli artt. 56 e 628 c.p. si tratta dello stesso motivo dedotto dal G.;

2. violazione dell'art. 192 c.p.p., comma 2 per avere la Corte territoriale ritenuto la responsabilità di esso ricorrente sulla base di elementi che non presentavano i requisiti della gravità, precisione e concordanza. Infatti, il preteso ruolo di addetto alla logistica e di collaboratore del Ma. alla studio e all'organizzazione della rapina, era ancorato ad un ordito indiziario privo di alcun pregio giuridico;

3. violazione degli artt. 266 e 271 c.p.p. per avere la Corte territoriale desunto la responsabilità in ordine ai delitti di cui agli artt. 367 e 642 c.p. da colloqui telefonici intercettati ma che erano stati disposti in relazione alla rapina aggravata. Ad avviso del ricorrente, quindi, poichè per i suddetti reati, che prevedevano una pena edittale inferiore nel massimo a cinque anni, non era possibile disporre intercettazioni telefoniche, allora, quelle conversazioni captate per un altro reato per il quale l'intercettazione era stata legittimamente autorizzata non avrebbe potuto essere utilizzata come prova. p. 2.5. CR., ha dedotto i seguenti motivi:

1. contraddittorietà e illogicità della motivazione per avere la Corte territoriale ritenuto provata la penale responsabilità per il delitto di concorso in tentata rapina aggravata pur avendo esso ricorrente offerto "una più che plausibile spiegazione alternativa" all'ipotesi accusatoria in ordine alla sua conoscenza con il D. D. (altro coimputato), all'incontro avuto con il Ma., all'impossibilità di manomettere l'impianto GPS non avendo mai egli ricoperto il ruolo di capo equipaggio il quale solo aveva la possibilità di intervenire sul sistema;

2. violazione delle norme in ordine al trattamento sanzionatorio: si duole il ricorrente che, in modo illogico, era stata ritenuta la semplice equivalenza fra la circostanza aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 7 e le attenuanti generiche e che il trattamento sanzionatorio, in violazione delle regole di cui all'art. 133 c.p., era stato eccessivo tenuto conto che si trattava di rapina tentata e che non era stata valutata in modo equanime la complessiva personalità di esso ricorrente. p. 2.6. A. non ha presentato alcun motivo.

Motivi della decisione
p. 3. violazione degli artt. 56 e 628 c.p.: in via di stretto diritto, in ordine ai principi applicabili in tema di tentativo, va affermato quanto segue.

L'art. 56 c.p., disciplina il tentativo nei delitti e, essendo una fattispecie autonoma rispetto al reato consumato (ex plurimis Cass. 13/6/2001 riv 220330), richiede, come tutti i reati, la sussistenza sia dell'elemento soggettivo che oggettivo.

L'elemento soggettivo è identico al dolo del reato che il soggetto agente si propone di compiere.

L'elemento oggettivo, invece, presenta spiccate peculiarità in quanto ruota intorno a tre concetti:

- l'idoneità degli atti;

- l'univocità degli atti;

- il mancato compimento dell'azione o il mancato verificarsi dell'evento.

La linea di demarcazione fra la semplice intenzione non punibile (secondo il vecchio brocardo cogitationis poenam nemo patitur) e quella punibile si snoda proprio attraverso l'esatta comprensione dei suddetti principi.

Una premessa di natura sistematica: sebbene l'art. 56 c.p. sia l'unica norma che disciplini espressamente il tentativo, tuttavia, utili argomenti si possono trarre, ai fini sistematici, anche dall'art. 115 c.p. a norma del quale "qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di essa è punibile per il solo fatto dell'accordo".

La suddetta norma, evidenzia, quindi, in modo plastico, il principio secondo il quale anche un semplice accordo a commettere un delitto (e, quindi, a fortiori, il semplice averlo pensato) non è punibile (salva l'applicazione della misura di sicurezza) ponendosi all'estremo opposto del delitto consumato.

Ma è proprio fra questi due estremi, ossia fra la semplice cogitatio o accordo (non punibile) ed il delitto consumato che si colloca la problematica del delitto tentato che consiste, appunto, nello stabilire quando un'azione, avendo superato la soglia della mera cogitatio, pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, dev'essere ugualmente punibile.

Il codice penale del 1889 (c.d. codice Zanardelli), influenzato dal codice napoleonico, all'art. 61, punendo "colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione", poneva la soglia di punibilità del delitto programmato nel momento in cui l'agente avesse cominciato l'esecuzione dell'azione: da qui, la distinzione fra atti preparatori non punibili ed atti di esecuzione punibili.

La distinzione, però, creò notevoli problemi interpretativi tanto che il legislatore del 1930 - peraltro anche per precise ragioni ideologiche - abbandonò espressamente il suddetto criterio, introducendo l'attuale art. 56 c.p. che ruota intorno a due criteri:

l'idoneità e la inequivocità degli atti compiuti dall'agente, nel senso che, solo ove l'azione presenti le suddette caratteristiche, l'agente può essere punito a titolo di tentativo.

Il dibattito (dottrinale e giurisprudenziale), però, si è riacutizzato perchè, mentre prima la domanda era quali fossero i criteri per stabilire la differenza fra atti preparatori (non punibili) ed atti di esecuzione (punibili), ora la questione consiste nell'individuare la linea di confine che separa il semplice accordo (o la mera cogitatio), non punibile, dagli atti idonei inequivoci, punibili. In ordine al concetto di idoneità degli atti (e non del mezzo come prescriveva il codice Zanardelli), l'opinione maggioritaria sia della dottrina che della stessa giurisprudenza di questa Corte, è alquanto compatta nel ritenere che un atto si può ritenere idoneo quando, valutato ex ante ed in concreto (c.d. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo (ed criterio di valutazione su base parziale: ex plurimis Cass. 9/12/1996, Tansino, rv 206562), il giudice, sulla base della comune esperienza dell'uomo medio, possa ritenere che quegli atti - indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei - erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata: ex plurimis Cass. 40058/2008 riv 241649 (in motivazione) - Cass. 43255/2009 riv 245721 - Cass. 27323/2008 riv 240736 - Cass. 34242/2009 riv 244915.

Tanto risulta confermato anche dall'art. 49 c.p., comma 2 che è la norma speculare dell'art. 56 c.p. nella parte in cui dispone la non punibilità per l'inidoneità dell'azione. Più controversa è la nozione di univocità degli atti. Secondo una prima tesi "anche gli atti preparatori possono configurare l'ipotesi del tentativo, allorquando essi rivelino, sulla base di una valutazione ex ante e indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei, l'adeguatezza causale nella sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto, dimostrando contemporaneamente, per la loro essenza ed il contesto nel quale s'inseriscono, l'intenzione dell'agente di commettere il delitto":

Cass. 27323/2008 riv. 240736 - Cass. 43255/2009 Rv. 245720 "L'atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione "ex ante" e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto" - Cass. 40702/2009 Rv. 245123.

E' la c.d. tesi soggettiva in base alla quale, appunto, la prova del requisito dell'univocità dell'atto può essere raggiunta non solo sulla base dell'atto in sè considerato ma anche aliunde e, quindi, anche sulla base di semplici atti preparatori qualora rivelino la finalità che l'agente intendeva perseguire.

Ad avviso, invece, di un'altra tesi, "gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, come inizio di esecuzione, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata, in quanto la univocità degli atti indica non un parametro probatorio, ma un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta; ne consegue che non sono punibili, a titolo di tentativo, i meri atti preparatori": Cass. 9411/2010 Rv. 246620 - Cass. 40058/2008 cit. - Cass. 36283/2003 riv 228310 - Cass. 43406/2001 riv 220144.

"Se è vero, infatti, che il legislatore del 1930, obbedendo a sollecitazioni politiche dell'epoca, aveva ritenuto di allargare l'area del tentativo punibile redigendo il testo dell'art. 56 c.p., non è men vero che gran parte della dottrina e della giurisprudenza hanno dimostrato l'illusorietà del proposito che, con quel mezzo, si intendeva attuare. Ciò perchè atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se l'idoneità di un atto può denotare al più la potenzialità dell'atto a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall'inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente": Corte Cost 177/1980.

E' la c.d. tesi oggetti va secondo la quale gli atti possono essere considerati univoci ogni qualvolta, valutati in quel singolo contesto, rivelano, in sè e per sè considerati, l'intenzione dell'agente (ed criterio di essenza). Per questa tesi, quindi, "la "direzione non equivoca" indica, infatti, non un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sè rivelare l'intenzione dell'agente.

L'univocità, intesa come criterio di "essenza", non esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e l'id quod plerumque accidit, l'intenzione, il fine perseguito dall'agente": Cass. 40058/2008 cit..

E' evidente il punto di frizione fra le due tesi. Infatti, mentre per la tesi soggettiva, l'univocità va valutata sulla base delle circostanze concrete (con la conseguenza che si determina, sul piano della repressione penale, un arretramento della soglia di punibilità, in quanto anche gli atti in sè preparatori, possono, a determinate condizioni, essere considerati univoci), al contrario per la tesi oggettiva, l'univocità coincide con l'inizio degli atti tipici di un determinato reato (con conseguente spostamento in avanti della soglia di punibilità, escludendosi l'univocità degli atti meramente preparatori).

Questa Corte ritiene che la tesi ed oggettiva non sia condivisibile perchè, riproponendo, di fatto, l'antica problematica di cui si discuteva sotto il codice Zanardelli, opera un'interpretazione abrogans della nuova normativa, lasciando insoluti, in specie per i reati a forma libera, quegli stessi interrogativi che avevano indotto il legislatore del 1930 a rivedere radicalmente l'intera normativa.

Infatti, nella Relazione al progetto definitivo al codice penale, si trova scritto: "innovazioni radicali sono state introdotte nella disciplina del tentativo, sopprimendo la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi".

Si ritiene, quindi, che la tesi più corretta sia quella soggettiva per i motivi di seguito indicati.

Il punto di partenza, per una corretta esegesi dell'art. 56 c.p., non può che essere il dato storico: come si è detto, fu proprio per evitare le incertezze interpretative derivanti dall'individuare quali fossero i mezzi che potevano essere considerati inizio dell'esecuzione criminosa (problema che diventava quasi irresolubile per i reati a forma libera) che il legislatore del 1930 s'indusse ad abbandonare la formula che parlava di "cominciamento" "mezzi" "esecuzione".

Nel nuovo art. 56 c.p., infatti, non si parla più di mezzi ma di atti idonei (in contrapposizione agli atti inidonei di cui all'art. 49 c.p., comma 2) e di azione che non si compie o di evento che non si verifica.

La terminologia adoperata dal legislatore è molto importante: una cosa è parlare di cominciamento dell'esecuzione con mezzi idonei, altro è parlare di azione non compiuta e di atti idonei a commettere il delitto.

E' evidente, infatti, l'arretramento della soglia di punibilità, laddove si consideri che i termini "azione" ed "atti", indicano, proprio a livello semantico, una maggiore estensione rispetto alla più ristretta categoria degli atti esecutivi.

In altri termini, il legislatore ha focalizzato la sua attenzione non solo sull'esecuzione ma anche sull'azione.

Ora, siccome l'azione è quell'attività umana composta da uno o più atti, ne deriva, proprio sul piano logico (oltre che semantico) che il tentativo è punibile non solo quando l'esecuzione è compiuta ma anche quando l'agente ha compiuto uno o più atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto.

Sul punto, è lo stesso art. 56 c.p. che offre utili spunti di riflessione nella parte in cui dispone che il delitto tentato si verifica in due ipotesi: 1) quando l'azione non si compie (c.d. tentativo non compiuto); 2) quando l'evento non si verifica (ed tentativo compiuto).

Sebbene si sia soliti attribuire poca importanza alla suddetta distinzione, in quanto la si assimila a quella del codice Zanardelli fra "delitto tentato" e delitto mancato" (peraltro sanzionato più gravemente), il dato di fatto semanticamente rilevante è che non si parla di "delitto tentato o mancato" ma di azione non compiuta e di evento non verificatosi.

Il suddetto dato non può non avere una sua rilevanza giuridica.

Infatti, quando la legge adopera la locuzione "evento che non si verifica" è chiaro che ipotizza il caso dell'agente che ha compito l'esecuzione degli atti tipici del delitto programmato, ma che questo non si è verificato per un fatto indipendente dalla sua volontà (ad es. l'agente ha sparato a Tizio ma questi, all'ultimo momento, casualmente, si è spostato, facendo, quindi, fallire l'attentato).

Se, quindi, la legge ha già previsto la punibilità dell'esecuzione degli atti di un delitto, quando prevede la punibilità anche dell'azione, necessariamente non può che far riferimento ad un qualcosa che precede l'esecuzione vera e propria, ossia quell'insieme di atti (o semplice atto) che, sebbene non esecutivi, valutati unitariamente, abbiano l'astratta attitudine a produrre il delitto programmato. L'azione, lo si ripete, è un termine molto ampio ed indica il risultato finale del compimento di un atto o più atti, e contiene, in sè, tutti gli elementi che consentono di affermare, sia pure ex post, che quell'azione era idonea, ove portata a termine (rectius: eseguita) a perpetrare il delitto programmato.

Ciò, quindi, permette di affermare che ci si trova di fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi in cui l'agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Quanto appena detto, trova una conferma negli speculari commi terzo e quarto dell'art. 56 che, ancora una volta, confermano i due livelli del tentativo punibile (sanzionati in modo differente): la desistenza dell'azione nel senso sopra specificato, nel quale caso, la norma prevede che l'agente risponde degli atti compiuti solo se questi costituiscano un reato diverso; l'impedimento, da parte dell'agente, dell'evento determinato dal compimento degli atti esecutivi veri e propri, nel quale caso, l'agente risponde pur sempre del tentativo, sebbene con una diminuzione della pena.

E' evidente, quindi, che, anche a livello sanzionatorio, la legge ha voluto distinguere le due tipologie di tentativi che, se non vengono attuati per cause indipendenti dalla volontà dell'agente, vengono puniti allo stesso modo (comma 1), mentre se il delitto non si verifica per la resipiscenza dell'agente, vengono sanzionati diversamente rendendo, pertanto, palese che l'azione che non si compie (o dalla quale l'agente desiste) è un qualcosa che precede l'evento che non si verifica (o compie).

Ed ulteriore conferma può trarsi dall'art. 49 c.p., comma 2 (che rappresenta, per così dire, il lato speculare e contrario dell'art. 56 c.p.) che esclude la punibilità per "l'inidoneità dell'azione" non degli atti esecutivi: il che significa che, per stabilire se ci si trova di fronte ad un tentativo punibile, a parte l'ipotesi del compimento degli atti esecutivi veri e propri (ipotesi considerata espressamente, come si è detto, dall'art. 56 c.p., comma 1 ultima parte), occorre aver riguardo più che all'idoneità dei singoli atti, all'idoneità dell'azione valutata nel suo complesso così come appare cristallizzata in un determinato momento storico, tenuto conto di tutti gli elementi esterni ed interni, conosciuti e conoscibili.

Solo se l'azione viene valutata unitariamente, può aversi un quadro d'insieme dei singoli atti che, se valutati singolarmente, possono anche sembrare in sè inidonei, ma che se inseriti in un più ampio contesto, appaiono per quelli che sono, ossia dei singoli anelli di una più complessa ed unica catena, l'uno funzionale all'altro per il compimento dell'azione finale destinata a sfociare nella consumazione del delitto programmato.

Si può, quindi, concludere affermando che il legislatore del 1930, arretrando la soglia di punibilità del tentativo, ha completamente ribaltato l'impostazione del codice Zanardelli in quanto ora sono punibili non solo gli atti di esecuzione veri e propri ma anche gli atti ad essi antecedenti che, per comodità descrittiva, si possono continuare a chiamare ancora atti preparatori, a condizione però che posseggano quelle caratteristiche si cui si è detto.

Si deve, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: "ai fini del tentativo punibile, assumono rilevanza penale non solo gli atti esecutivi veri propri del delitto pianificato, ma anche quegli atti che, pur essendo classificabili come atti preparatori, tuttavia, per le circostanze concrete (di luogo - di tempo - di mezzi ecc.) fanno fondatamente ritenere che l'azione - considerata come l'insieme dei suddetti atti - abbia la rilevante probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che l'agente si trovi ormai ad un punto di non ritorno dall'imminente progettato delitto e che il medesimo sarà commesso a meno che non risultino percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualità, dovendosi, a tal fine, escludere solo quegli eventi imprevedibili non dipendenti dalla volontà del soggetto agente atteso che costui ha solo un modo per dimostrare di avere receduto dal proposito criminoso: ossia la desistenza volontaria (art. 56 c.p., comma 3) o il recesso attivo (art. 56 c.p., comma 4)". p. 4.1. Tanto premesso in diritto, dalla sentenza impugnata si evince che il fatto è stato ricostruito nei termini di seguito indicati. A seguito di una fortuita segnalazione, la Polizia, sospettando che fosse in preparazione una rapina ai blindati della Mondialpol, iniziò l'intercettazione di alcune utenze telefoniche, nonchè servizi di pedinamento e appostamento.

Dalle suddette indagini, emerse che, in effetti, una banda di nove persone (gli imputati del presente processo e quelli già giudicati con la sentenza n 17988/2010 di questa Corte), stavano organizzando per il giorno (OMISSIS) una rapina ai danni di un furgone blindato della Mondialpol che trasferiva presso il deposito di (OMISSIS) il denaro raccolto presso vari punti commerciali.

Le indagini avevano permesso di chiarire il ruolo che ognuno dei nove avrebbe ricoperto nell'azione - le modalità dell'azione - l'ora in cui la rapina sarebbe avvenuta.

Fu così che la Polizia, anche per evitare una probabile sanguinosa rapina (alcuni dei componenti della banda erano coinvolti in altre rapine dello stesso genere conclusesi con omicidi), decise di intervenire ed arrestare tutte e nove le persone che si trovavano riunite ed appostate nel luogo stabilito per dare inizio all'assalto del furgone. In particolare, nella sentenza impugnata è scritto: "Il gruppo tratto in arresto il (OMISSIS) era composto da persone che per precedenti specifici, per condotte di vita, per essere indagati per analoghi fatti di reato, risultava dedito in via non occasionale alla organizzazione e consumazione di gravissimi reati.

(...). Il gruppo era dotato di armi da guerra di micidiale potenza offensiva, di giubbotti antiproiettile utili nel caso non meramente ipotetico di dover ingaggiare un conflitto a fuoco, di radio ricetrasmittenti, di auto rubate e una anche taroccata, di un furgone pesante per bloccare il blindato portavalori, di flessibili dotati di compressore per forzare le lamiere del furgone, di liquido incendiario per dare fuoco alle auto dopo il loro utilizzo. Le macchine erano già operative e pronte per essere utilizzate avendo a bordo armi, munizioni, guanti per non lasciare impronte, erano occultate nelle immediate vicinanze del luogo di raduno della banda - il piazzale dell'Esselunga di (OMISSIS) - ossia nel garage e nel cortile di Ma.. L'individuazione dell'obiettivo da rapinare era il frutto di uno studio accurato con pedinamento dei mezzi e appostamenti in loco, e soprattutto, era agevolata nell'esecuzione, dai contatti con Cr. - dipendente infedele della Mondialpol - che oltre a fornire loro importanti notizie sui movimenti degli automezzi navetta, si era prestato a manomettere l'impianto GPS così da non permettere all'equipaggio di lanciare efficaci segnali d'allarme e alla centrale operativa di rimanere all'oscuro dell'assalto e da non localizzare l'automezzo. Era già stato posizionato nella mattinata del 6 dicembre il furgone Iveco Daily da utilizzare, come nelle pregresse vicende criminali, per bloccare, speronandolo, il portavalori. Si era potuto verificare una suddivisione di ruoli che vedeva in Ma. il capo, in Cr. il basista, in B. la persona deputata alla logistica e allo studio del colpo tanto da custodire il furgone Iveco, S. e G. erano giunti da (OMISSIS) e avevano preso parte al posizionamento di questo automezzo nel punto in cui sarebbe dovuto avvenire l'assalto, in prossimità dell'uscita dalla tangenziale.

Nove persone erano convenute nel posto stabilito in assenza di alcuna valida ragione alternativa a quella dell'essere coinvolte nel progetto delittuoso, ed erano state tratte in arresto poco tempo prima che si muovessero per portarsi sul luogo di consumazione del reato. Le telefonate tra B. e la fidanzata, del resto, indicavano proprio in quella sera il momento culminante di tutta l'azione e, per lui, il momento in cui avrebbe potuto chiudere con quella vita e rifarsene un'altra in (OMISSIS) insieme alla sua donna e grazie al bottino". La Corte territoriale, dopo essersi fatta carico dei motivi di gravame dei vari imputati, li ha disattesi rilevando che le difese "frazionano le singole azioni in modo da evitare che di esse venga data una lettura congiunta e unificatrice che invece è il senso giuridico del concorso. E peraltro, chi degli imputati sarebbe dovuto essere all'oscuro dei piani: G. era arrivato insieme a S. due giorni prima e il (OMISSIS) aveva partecipato a un incontro con Ma. e B. nel solito posto di riunione del parcheggio dell'Esselunga; A. si era incontrato con Ma. per la consegna del pecorino sardo;

su B. non è il caso di spendere ulteriori argomentazioni;

M. era in giro con Ma. sin dalle otto del mattino non certo per bighellonare come ragazzini che hanno marinato la scuola, visto che Ma. seguiva le operazioni di posizionamento del furgone Iveco, cosa di molto rilievo per non far fallire il progetto, come accaduto in precedenza; C. era partito quella mattina con il volo da (OMISSIS) dopo un contatto telefonico con Ma. e stava per atterrare a (OMISSIS) dove veniva ricevuto da Ma. e M. in tempo più che sufficiente per essere messo al corrente degli ultimi particolari; la riunione interrotta dalla polizia non serviva, ragionevolmente, ad altro che a dettare gli ultimi dettagli con la indicazione da sergente maggiore di B. che li voleva tutti a posto. Poi, giusto il tempo di armarsi ed equipaggiarsi portandosi nel box di Ma. distante solo 4,5km e non ben, come troppo enfaticamente sottolineato dalle difese, tanto che B. e Ma. dicono di averlo scelto per le loro innocue chiacchierate giusto perchè vicino casa e cosi non disturbavano i famigliari. Per il resto, va fatto richiamo alla sentenza anche per ciò che attiene alla pretesa di riscontrare un'ipotesi di reato impossibile per la dotazione del cosiddetto sistema schiuma blocco.

Basti rammentare che l'idoneità va giudicata con prognosi postuma in base alle conoscenze di cui dispone l'agente nel momento in cui avvia il determinismo causale. Nozioni di scuola sorreggono l'assunto del Tribunale e condiviso dalla Corte". In questa sede, i ricorrenti, da una parte, reiterando gli argomenti di merito già proposti avanti ai giudici di merito, sostengono che non vi sarebbero elementi sufficienti per ritenere, ciascuno di essi, coinvolti, nella tentata rapina, dall'altra, sostengono che, a tutto concedere, il tentativo, proprio sotto il solo profilo giuridico, non sarebbe configurabile.

Quanto alle censure di merito, le medesime vanno tutte disattese, perchè la sentenza di appello, letta in uno con quella di primo grado, non evidenzia illogicità e/o incongruenze, avendo chiarito il ruolo di ciascuno degli imputati nella progettata rapina ed avendo disatteso, sulla base di precisi riscontri fattuali (le indagini compiute dalla Polizia) che si trattava di tesi difensive prive della minima credibilità. Pertanto, le doglianze riproposte in questa sede, vanno ritenute nulla più che un inammissibile tentativo di ottenere, in modo surrettizio, una rivalutazione di quegli stessi elementi di merito già presi ampiamente in esame da entrambi i giudici di merito. Quanto alla questione di diritto, secondo la tesi sostenuta da tutti gli imputati, il tentativo non sarebbe configurabile perchè l'azione tipica della rapina (il compimento di atti violenti) non era ancora iniziata quando furono arrestati: in quel momento, infatti, essi ben avrebbero potuto recedere dal proposito criminoso sicchè non potevano essere condannati per un'azione non commessa.

Il caso di specie, è emblematico della problematica di diritto di cui si è parlato.

Si è chiarito che l'art. 56 c.p. prevede e sanziona due ipotesi di tentativo: quello in cui l'azione non si verifica e quello in cui l'evento non si compie, per cause indipendenti dalla volontà dell'agente (nel qual caso le due ipotesi, ai fini sanzionatoti, vengono assimilate) ovvero per resipiscenza dell'agente (nel qual caso, ai sensi dei commi 3 e 4, la sanzione varia).

Si è anche chiarito che l'azione può essere considerata idonea quando, sulla base degli elementi fattuali in atti, può affermarsi che il programma criminoso dell'agente si è ormai concluso e l'agente sta per passare alla fase operativa vera e propria. Nel caso di specie, da quanto emerge dalla sentenza impugnata, il piano operativo era stato completamente esaurito in quanto erano stati effettuati gli appostamenti ed erano stati predisposti i mezzi per eseguire il piano: il furgone Fiat era stato posizionato per lo speronamento; l'allarme Gps dei blindati da assaltare era stato disattivato; tutto l'armamentario necessario per perpetrare materialmente la rapina era disponibile; tutti gli uomini della banda si trovavano sul posto pronti ognuno di essi ad eseguire i compiti che era stato loro assegnato.

E' evidente, quindi, che, tutto era stato predisposto per passare alla fase esecutiva vera e propria (assalto al furgone che sarebbe passato da lì a poco).

Si verte, pertanto, nella prima delle ipotesi considerate: infatti, gli imputati non furono sorpresi ed arrestati mentre, ad es. eseguivano i pedinamenti del furgone blindato o mentre si approvvigionavano delle armi o mentre stavano discutendo delle modalità operative e della distribuzione dei ruoli: in tale ipotesi, invero, sarebbe stato configurabile il reato impossibile per inidoneità dell'azione ex art. 49, comma 2.

Al contrario, vennero arrestati quando tutte le suddette operazioni prodromiche erano già state eseguite e, quindi, l'azione, in sè e per sè considerata, come correttamente ha rilevato la Corte territoriale, era ormai potenzialmente idonea al compimento della progettata rapina. Si sarebbe verificata invece la seconda ipotesi del tentativo ("se l'evento non si verifica") se gli imputati avessero iniziato l'assalto ossia avessero iniziato a compiere gli atti violenti richiesti dalla norma incriminatrice di cui all'art. 628 c.p.): in tal caso, il tentativo si sarebbe potuto ipotizzare ove, per una causa estranea ed imprevista (ad es. intervento delle forze dell'ordine), l'evento non avrebbe potuto essere portato a termine.

Le due ipotesi, però, ai fini sanzionatori, sono equiparate. Ed è del tutto vano che gli imputati sostengano che ben avrebbero potuto recedere: ciò che, in realtà, rileva è che nessuno di essi lo fece perchè tale intenzione non può essere solo ipotizzata ma deve trovare un concreto riscontro fattuale che, nel caso in esame, manca del tutto. In conclusione, le censure proposte da tutti gli imputati ( C.: motivi sub 2-3; G.: motivo unico; M.:

motivi sub 1 - 2; B. motivi sub 1-2; Cr. motivo sub 1) in ordine alla violazione dell'art. 56 c.p. vanno tutte disattese, avendo la Corte territoriale correttamente applicato il principio di diritto supra enunciato. p. 5. C.. p. 5.1. violazione dell'art. 415 bis c.p.p. (motivo sub 1): lo stesso ricorrente afferma che, nell'istanza rivolta al P.m., aveva chiesto di essere esaminato (cfr pag. 2 ricorso). Posta nei seguenti termini, la doglianza è infondata. L'art. 415 bis c.p.p., comma 3 dispone che l'indagato ha facoltà, entro il termine di venti giorni dall'avviso delle conclusioni delle indagini preliminari: 1) di presentarsi per rilasciare dichiarazioni 2) di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio: in tale ultima ipotesi "il pubblico ministero deve procedervi".

La Corte sostiene che l'imputato, tramite il proprio difensore non aveva chiesto di essere interrogato ma aveva formulato una richiesta diversa sulla quale il pubblico ministero non aveva obbligo di rispondere o di provvedere: il ricorrente, infatti, aveva chiesto di essere esaminato ai sensi dell'art. 468 c.p.p..

La decisione della Corte territoriale deve ritenersi corretta in considerazione della natura e del contenuto dell'istanza che indicava un istituto (l'esame: cfr art. 503 c.p.p.) riguardante il dibattimento ed avente un contenuto del tutto diverso dall'interrogatorio (cfr artt. 64 - 65 c.p.p.) previsto dalla norma di riferimento (art. 415 bis c.p.p.). E' vero che sussiste il principio dell'interpretazione (e conservazione) degli atti ma è anche vero che l'autorità giudiziaria (nella specie il P.m.), a fronte di una richiesta - tanto più ove proveniente da un tecnico del diritto - ambigua, contraddittoria e non avente riscontro in alcuna norma processuale, non è tenuta ad interpretarla essendo, pertanto, legittimata a disattenderla non dandovi corso. p. 5.2. violazione dell'art. 648 c.p. (motivo sub 4): la Corte territoriale, avanti alla quale la stessa doglianza era stata sollevata, l'ha disattesa osservando che "prestando il consenso alla rapina ogni complice ha perciò stesso acquisito la disponibilità collegiale e giuridica delle armi funzionali al reato (...)" nonchè la disponibilità "dei beni indicati sub a) tutti di provenienza delittuosa, in tal modo ricettandoli".

La motivazione sia dal punto di vista giuridico che fattuale è ineccepibile in quanto, una volta accertato che l'imputato era ben consapevole di partecipare ad una rapina per la consumazione della quale si sarebbe dovuto far uso di tutto quell'armamentario, è chiaro che risponde non solo del tentativo di rapina ma anche della ricettazione (nella specie sotto il profilo di "ricevere") di tutti quelle cose provento di reato che sarebbero servite per la consumazione del programmato reato. p. 5.3. violazione dell'art. 62 bis c.p. (motivo sub 5): la Corte ha respinto la richiesta di concessione delle attenuanti generiche "a fronte di precedenti penali per gravi fatti di reato dimostrativi di un inserimento nel circuito criminale piuttosto che di una volontà di rimanervi al di fuori". La motivazione non si presta ad alcuna censura sotto il profilo di legittimità anche a fronte della generica doglianza proposta. p. 6. B.. p. 6.1. violazione degli artt. 266 - 271 c.p.p. (motivo sub 5): la censura è fondata. Come si desume dalla impugnata sentenza, nel corso delle intercettazioni telefoniche autorizzate per la sola rapina, emersero indizi a carico dell'imputato anche per i reati di cui ai capi E (art. 367 c.p.) ed F (art. 642 c.p.).

La decisione della Corte territoriale, in ordine all'utilizzabilità delle suddette intercettazioni anche per i reati di cui agli artt. 367 e 642 c.p., non è condivisibile, ritenendo questa Corte di dare continuità a quella giurisprudenza di legittimità secondo la quale "In tema di intercettazione di comunicazioni o conversazioni, la circostanza che non possano considerarsi pertinenti a "diverso procedimento" risultanze concernenti fatti strettamente connessi a quello cui si riferisce l'autorizzazione giudiziale, e che dunque non rilevino i limiti di utilizzabilità fissati all'art. 270 c.p.p., non esclude che siano applicabili, anche a tale proposito, le condizioni generali cui la legge subordina l'ammissibilità delle intercettazioni. Ne consegue che, quando nel corso di intercettazioni autorizzate per un dato reato emergono elementi concernenti fatti strettamente connessi al primo, detti elementi possono essere utilizzati solo nel caso in cui, per il reato cui si riferiscono, il controllo avrebbe potuto essere autonomamente disposto a norma dell'art. 266 c.p.p." Cass. 4942/2004 riv 229999 - Cass. 12562/2010 riv 246594. La soluzione qui accolta, poi, trova, nel caso di specie, un ulteriore argomento derivante dal fatto che, pacificamente, fra i reati in questione e quello di rapina non vi è alcuna connessione probatoria ma solo soggettiva. Da quanto detto consegue:

- l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza, limitatamente ai suddetti reati in quanto, come si evince dalla motivazione, l'unica fonte di prova è costituita proprio dal contenuto delle intercettazioni;

- l'eliminazione delle relative pene per complessivi gg 30 ed Euro 90,00 di multa (cfr sentenza di primo grado). p. 7. CR.. p. 7.1. violazione delle norme in ordine al trattamento sanzionatorio (motivo sub 2): la Corte territoriale ha disatteso la richiesta non solo criticando il Tribunale per aver concesso le attenuanti generiche (sebbene equivalenti) - del che non si poteva che prenderne atto - ma osservando che, in considerazione del ruolo svolto dall'imputato (sabotatore del sistema di allarme dei furgoni blindati), costui aveva "commesso un'azione eticamente spregevole" e concludendo, sia pure implicitamente che il trattamento sanzionatorio doveva ritenersi più che adeguato. Anche la suddetta motivazione non si presta alla generica censura dedotta in questa sede, dovendosi ritenere che la Corte abbia correttamente ed adeguatamente motivato la reiezione dell'istanza. p. 8. A..

Il ricorso presentato da A. è inammissibile non avendo il ricorrente presentato alcun motivo.
P.Q.M.
ANNULLA Senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di B.S. limitatamente ai reati di cui ai capi E) ed F) perchè i fatti non sussistono. Elimina le relative pene per complessivi giorni 30 di reclusione ed Euro 90,00 di multa, nonchè la condanna al risarcimento e rifusione delle spese in favore della costituita parte civile Navale Ass.ni spa. Rigetta il ricorso del B. nel resto.

Dichiara inammissibile il ricorso di A.E. e rigetta gli altri ricorsi. Condanna A. - G. - C. - M. - Cr. al pagamento delle spese processuali e A. anche della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Condanna tutti i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile Mondialpol Novara srl liquidate in complessivi Euro 5.054,40 come da nota spese

Da: pepia 16/12/2010 13:30:11
RAPINA TENTATA: DISTINZIONE TRA TENTATIVO COMPIUTO E TENTATIVO NON COMPIUTO
Cassazione, Sez. II, 25 ottobre 2010, n. 37843

1. Il punto di partenza, per una corretta esegesi dell'articolo 56 c.p., non puo' che essere il dato storico: come si e' detto, fu proprio per evitare le incertezze interpretative derivanti dall'individuare quali fossero i mezzi che potevano essere considerati inizio dell'esecuzione criminosa (problema che diventava quasi irresolubile per i reati a forma libera) che il legislatore del 1930 s'indusse ad abbandonare la formula che parlava di "cominciamento" "mezzi" "esecuzione".
2. Nel nuovo articolo 56 c.p., infatti, non si parla piu' di mezzi ma di atti idonei (in contrapposizione agli atti inidonei di cui all'articolo 49 c.p., comma 2) e di azione che non si compie o di evento che non si verifica.
3. Ora, siccome l'azione e' quell'attivita' umana composta da uno o piu' atti, ne deriva, proprio sul piano logico (oltre che semantico) che il tentativo e' punibile non solo quando l'esecuzione e' compiuta ma anche quando l'agente ha compiuto uno o piu' atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volonta' di voler compiere un determinato delitto.
Sul punto, e' lo stesso articolo 56 c.p. che offre utili spunti di riflessione nella parte in cui dispone che il delitto tentato si verifica in due ipotesi: 1) quando l'azione non si compie (c.d. tentativo non compiuto); 2) quando l'evento non si verifica (ed tentativo compiuto).


Cassazione, Sez. II, 25 ottobre 2010, n. 37843
(Pres. Bardovagni - Rel. Geppino)


FATTO
p. 1. Con sentenza del 13/07/2009, la Corte di Appello di Milano confermava, in punto di responsabilita', la sentenza pronunciata in data 17/07/2008 dal Tribunale della medesima citta' con la quale C. N. - GI. Ag. - CA. An. - BO. Se. - MA. Gi. e AT. Ed. erano stati ritenuti responsabili dei delitti di ricettazione e tentata rapina aggravata.
p. 2. Avverso la suddetta sentenza, tutti i suddetti imputati hanno proposto ricorso per cassazione.
p. 2.1. GI. ha dedotto violazione degli articoli 56 e 628 c.p. per avere la Corte ritenuto la configurabilita' del tentativo, nonostante fosse stato arrestato in un momento in cui la presunta progettata rapina al furgone portavalori della Mo. non fosse ancora in esecuzione. Infatti, il suddetto furgone sarebbe passato dal luogo dove egli, insieme agli altri coimputati, fu sorpreso dalla Polizia, solo dopo due ore, e le armi con tutta l'attrezzatura per eseguire la rapina erano ricoverate in un box - nella disponibilita' di uno dei coimputati - che si trovava ad una distanza di circa km 4,5. In altri termini, ci si trovava di fronte ad atti meramente preparatori e non esecutivi che non avevano alcuna idoneita' causale a ledere il bene giuridico protetto. Infatti, la suddetta riunione non era altro che il momento in cui avrebbe dovuto perfezionarsi l'accordo a commettere il delitto, delitto dal quale, pero', esso ricorrente ben avrebbe potuto pur sempre ancora desistere.
p. 2,2. CA. ha dedotto i seguenti motivi:
1. Violazione dell'articolo 415 bis c.p.p. per non essere stato sentito dal P.m. nonostante lo avesse espressamente richiesto;
2. Illogicita' della motivazione per non avere la Corte territoriale creduto alla tesi difensiva secondo la quale esso ricorrente si trovava sul luogo dell'arresto solo per una "disgraziata circostanza fortuita" nonostante la suddetta tesi fosse stata confermata da prove testimoniali e documentali. La Corte, infatti, aveva tratto il suo convincimento sulla base di illazioni prive di alcun riscontro anche solo presuntivo, trascurando di dare conto degli elementi favorevoli indicati dalla difesa;
3. Violazione degli articoli 56 e 628 c.p. si tratta dello stesso motivo proposto dal Gi. ;
4. violazione dell'articolo 648 c.p. per avere la Corte ritenuto la configurabilita' del reato di ricettazione delle armi e del furgone che sarebbero serviti per la rapina, nonostante esso ricorrente non avesse mai avuto la disponibilita' delle armi ne' fosse intervenuto nell'acquisito o ricevimento dei suddetti beni;
5. violazione dell'articolo 62 bis c.p. per non avere la Corte concesso la suddetta attenuante nonostante fossero state indicate le ragioni che avrebbero dovuto indurre la Corte ad accogliere la richiesta (eccessivita' della pena - minore intensita' del dolo e alla partecipazione nel fatto).
p. 2.3. Ma. , ha dedotto i seguenti motivi:
1. violazione degli articoli 56 - 628 c.p. si tratta dello stesso motivo dedotto dal Gi. ;
2. violazione dell'articolo 192 c.p.p., comma 2 per avere la Corte territoriale ritenuto la responsabilita' di esso ricorrente sulla base di elementi che non presentavano i requisiti della gravita', precisione e concordanza. Invero, il nome del Ma. risultava solo nell'intercettazione telefonica del (OMESSO) (ossia il giorno della tentata rapina), alle ore 7,52 quando venne contattato dal M. (uno dei coimputati) il quale gli chiese di rendersi disponibile tutto il giorno. Tuttavia, esso ricorrente rispose che poteva esserlo fino alle ore 16,30, orario in cui doveva recarsi a prelevare i bambini a scuola. Ed era poi significativo il fatto che "ne' il giudice ne' l'attivita' investigativa riescono a chiarire con quali modalita' e funzioni il Ma. sarebbe stato introdotto nella struttura criminale". In particolare, quanto al preteso ruolo avuto nella manomissione della centralina dei furgoni navetta, nulla era stato provato, anche perche' non era neppure certo che fossero state manomesse ed i testi B. e Va. , incaricati dalla Mo. di effettuare una perizia sulla centralina di uno dei furgoni, aveva reso dichiarazioni discordanti e prive di credibilita' scientifica tant'e' che esso ricorrente aveva provveduto a querelare il legale rappresentante della Mo. per simulazione di reato e calunnia.
p. 2.4. BO. ha dedotto i seguenti motivi:
1. violazione degli articoli 56 e 628 c.p. si tratta dello stesso motivo dedotto dal Gi. ;
2. violazione dell'articolo 192 c.p.p., comma 2 per avere la Corte territoriale ritenuto la responsabilita' di esso ricorrente sulla base di elementi che non presentavano i requisiti della gravita', precisione e concordanza. Infatti, il preteso ruolo di addetto alla logistica e di collaboratore del M. alla studio e all'organizzazione della rapina, era ancorato ad un ordito indiziario privo di alcun pregio giuridico;
3. violazione degli articoli 266 e 271 c.p.p. per avere la Corte territoriale desunto la responsabilita' in ordine ai delitti di cui agli articoli 367 e 642 c.p. da colloqui telefonici intercettati ma che erano stati disposti in relazione alla rapina aggravata. Ad avviso del ricorrente, quindi, poiche' per i suddetti reati, che prevedevano una pena edittale inferiore nel massimo a cinque anni, non era possibile disporre intercettazioni telefoniche, allora, quelle conversazioni captate per un altro reato per il quale l'intercettazione era stata legittimamente autorizzata non avrebbe potuto essere utilizzata come prova.
p. 2.5. C. , ha dedotto i seguenti motivi:
1. contraddittorieta' e illogicita' della motivazione per avere la Corte territoriale ritenuto provata la penale responsabilita' per il delitto di concorso in tentata rapina aggravata pur avendo esso ricorrente offerto "una piu' che plausibile spiegazione alternativa" all'ipotesi accusatoria in ordine alla sua conoscenza con il Di. Do. (altro coimputato), all'incontro avuto con il M. , all'impossibilita' di manomettere l'impianto GPS non avendo mai egli ricoperto il ruolo di capo equipaggio il quale solo aveva la possibilita' di intervenire sul sistema;
2. violazione delle norme in ordine al trattamento sanzionatorio: si duole il ricorrente che, in modo illogico, era stata ritenuta la semplice equivalenza fra la circostanza aggravante di cui all'articolo 61 c.p., n. 7 e le attenuanti generiche e che il trattamento sanzionatorio, in violazione delle regole di cui all'articolo 133 c.p., era stato eccessivo tenuto conto che si trattava di rapina tentata e che non era stata valutata in modo equanime la complessiva personalita' di esso ricorrente.
p. 2.6. AT. non ha presentato alcun motivo.
DIRITTO
p. 3. violazione degli articoli 56 e 628 c.p.: in via di stretto diritto, in ordine ai principi applicabili in tema di tentativo, va affermato quanto segue.
L'articolo 56 c.p., disciplina il tentativo nei delitti e, essendo una fattispecie autonoma rispetto al reato consumato (ex plurimis Cass. 13/6/2001 riv 220330), richiede, come tutti i reati, la sussistenza sia dell'elemento soggettivo che oggettivo.
L'elemento soggettivo e' identico al dolo del reato che il soggetto agente si propone di compiere.
L'elemento oggettivo, invece, presenta spiccate peculiarita' in quanto ruota intorno a tre concetti:
- l'idoneita' degli atti;
- l'univocita' degli atti;
- il mancato compimento dell'azione o il mancato verificarsi dell'evento.
La linea di demarcazione fra la semplice intenzione non punibile (secondo il vecchio brocardo cogitationis poenam nemo patitur) e quella punibile si snoda proprio attraverso l'esatta comprensione dei suddetti principi.
Una premessa di natura sistematica: sebbene l'articolo 56 c.p. sia l'unica norma che disciplini espressamente il tentativo, tuttavia, utili argomenti si possono trarre, ai fini sistematici, anche dall'articolo 115 c.p. a norma del quale "qualora due o piu' persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di essa e' punibile per il solo fatto dell'accordo".
La suddetta norma, evidenzia, quindi, in modo plastico, il principio secondo il quale anche un semplice accordo a commettere un delitto (e, quindi, a fortiori, il semplice averlo pensato) non e' punibile (salva l'applicazione della misura di sicurezza) ponendosi all'estremo opposto del delitto consumato.
Ma e' proprio fra questi due estremi, ossia fra la semplice cogitatio o accordo (non punibile) ed il delitto consumato che si colloca la problematica del delitto tentato che consiste, appunto, nello stabilire quando un'azione, avendo superato la soglia della mera cogitatio, pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, dev'essere ugualmente punibile.
Il codice penale del 1889 (c.d. codice Zanardelli), influenzato dal codice napoleonico, all'articolo 61, punendo "colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione", poneva la soglia di punibilita' del delitto programmato nel momento in cui l'agente avesse cominciato l'esecuzione dell'azione: da qui, la distinzione fra atti preparatori non punibili ed atti di esecuzione punibili.
La distinzione, pero', creo' notevoli problemi interpretativi tanto che il legislatore del 1930 - peraltro anche per precise ragioni ideologiche - abbandono' espressamente il suddetto criterio, introducendo l'attuale articolo 56 c.p. che ruota intorno a due criteri: l'idoneita' e la inequivocita' degli atti compiuti dall'agente, nel senso che, solo ove l'azione presenti le suddette caratteristiche, l'agente puo' essere punito a titolo di tentativo.
Il dibattito (dottrinale e giurisprudenziale), pero', si e' riacutizzato perche', mentre prima la domanda era quali fossero i criteri per stabilire la differenza fra atti preparatori (non punibili) ed atti di esecuzione (punibili), ora la questione consiste nell'individuare la linea di confine che separa il semplice accordo (o la mera cogitatio), non punibile, dagli atti idonei inequivoci, punibili. In ordine al concetto di idoneita' degli atti (e non del mezzo come prescriveva il codice Zanardelli), l'opinione maggioritaria sia della dottrina che della stessa giurisprudenza di questa Corte, e' alquanto compatta nel ritenere che un atto si puo' ritenere idoneo quando, valutato ex ante ed in concreto (c.d. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo (ed criterio di valutazione su base parziale: ex plurimis Cass. 9/12/1996, Tansino, rv 206562), il giudice, sulla base della comune esperienza dell'uomo medio, possa ritenere che quegli atti - indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei - erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata: ex plurimis Cass. 40058/2008 riv 241649 (in motivazione) - Cass. 43255/2009 riv 245721 - Cass. 27323/2008 riv 240736 - Cass. 34242/2009 riv 244915.
Tanto risulta confermato anche dall'articolo 49 c.p., comma 2 che e' la norma speculare dell'articolo 56 c.p. nella parte in cui dispone la non punibilita' per l'inidoneita' dell'azione. Piu' controversa e' la nozione di univocita' degli atti. Secondo una prima tesi "anche gli atti preparatori possono configurare l'ipotesi del tentativo, allorquando essi rivelino, sulla base di una valutazione ex ante e indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei, l'adeguatezza causale nella sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto, dimostrando contemporaneamente, per la loro essenza ed il contesto nel quale s'inseriscono, l'intenzione dell'agente di commettere il delitto": Cass. 27323/2008 riv. 240736 - Cass. 43255/2009 Rv. 245720 "L'atto preparatorio puo' integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacita', sulla base di una valutazione "ex ante" e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto" - Cass. 40702/2009 Rv. 245123.
E' la c.d. tesi soggettiva in base alla quale, appunto, la prova del requisito dell'univocita' dell'atto puo' essere raggiunta non solo sulla base dell'atto in se' considerato ma anche aliunde e, quindi, anche sulla base di semplici atti preparatori qualora rivelino la finalita' che l'agente intendeva perseguire.
Ad avviso, invece, di un'altra tesi, "gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, come inizio di esecuzione, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata, in quanto la univocita' degli atti indica non un parametro probatorio, ma un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta; ne consegue che non sono punibili, a titolo di tentativo, i meri atti preparatori": Cass. 9411/2010 Rv. 246620 - Cass. 40058/2008 cit. - Cass.             36283/2003       riv 228310 - Cass. 43406/2001 riv 220144.
"Se e' vero, infatti, che il legislatore del 1930, obbedendo a sollecitazioni politiche dell'epoca, aveva ritenuto di allargare l'area del tentativo punibile redigendo il testo dell'articolo 56 c.p., non e' men vero che gran parte della dottrina e della giurisprudenza hanno dimostrato l'illusorieta' del proposito che, con quel mezzo, si intendeva attuare. Cio' perche' atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se l'idoneita' di un atto puo' denotare al piu' la potenzialita' dell'atto a conseguire una pluralita' di risultati, soltanto dall'inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa puo' dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente": Corte Cost 177/1980.
E' la c.d. tesi oggetti va secondo la quale gli atti possono essere considerati univoci ogni qualvolta, valutati in quel singolo contesto, rivelano, in se' e per se' considerati, l'intenzione dell'agente (ed criterio di essenza). Per questa tesi, quindi, "la "direzione non equivoca" indica, infatti, non un parametro probatorio, bensi' un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per se' rivelare l'intenzione dell'agente. L'univocita', intesa come criterio di "essenza", non esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettivita' per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e l'id quod plerumque accidit, l'intenzione, il fine perseguito dall'agente": Cass. 40058/2008 cit..
E' evidente il punto di frizione fra le due tesi. Infatti, mentre per la tesi soggettiva, l'univocita' va valutata sulla base delle circostanze concrete (con la conseguenza che si determina, sul piano della repressione penale, un arretramento della soglia di punibilita', in quanto anche gli atti in se' preparatori, possono, a determinate condizioni, essere considerati univoci), al contrario per la tesi oggettiva, l'univocita' coincide con l'inizio degli atti tipici di un determinato reato (con conseguente spostamento in avanti della soglia di punibilita', escludendosi l'univocita' degli atti meramente preparatori).
Questa Corte ritiene che la tesi ed oggettiva non sia condivisibile perche', riproponendo, di fatto, l'antica problematica di cui si discuteva sotto il codice Zanardelli, opera un'interpretazione abrogans della nuova normativa, lasciando insoluti, in specie per i reati a forma libera, quegli stessi interrogativi che avevano indotto il legislatore del 1930 a rivedere radicalmente l'intera normativa. Infatti, nella Relazione al progetto definitivo al codice penale, si trova scritto: "innovazioni radicali sono state introdotte nella disciplina del tentativo, sopprimendo la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi".
Si ritiene, quindi, che la tesi piu' corretta sia quella soggettiva per i motivi di seguito indicati.
Il punto di partenza, per una corretta esegesi dell'articolo 56 c.p., non puo' che essere il dato storico: come si e' detto, fu proprio per evitare le incertezze interpretative derivanti dall'individuare quali fossero i mezzi che potevano essere considerati inizio dell'esecuzione criminosa (problema che diventava quasi irresolubile per i reati a forma libera) che il legislatore del 1930 s'indusse ad abbandonare la formula che parlava di "cominciamento" "mezzi" "esecuzione".
Nel nuovo articolo 56 c.p., infatti, non si parla piu' di mezzi ma di atti idonei (in contrapposizione agli atti inidonei di cui all'articolo 49 c.p., comma 2) e di azione che non si compie o di evento che non si verifica.
La terminologia adoperata dal legislatore e' molto importante: una cosa e' parlare di cominciamento dell'esecuzione con mezzi idonei, altro e' parlare di azione non compiuta e di atti idonei a commettere il delitto.
E' evidente, infatti, l'arretramento della soglia di punibilita', laddove si consideri che i termini "azione" ed "atti", indicano, proprio a livello semantico, una maggiore estensione rispetto alla piu' ristretta categoria degli atti esecutivi.
In altri termini, il legislatore ha focalizzato la sua attenzione non solo sull'esecuzione ma anche sull'azione.
Ora, siccome l'azione e' quell'attivita' umana composta da uno o piu' atti, ne deriva, proprio sul piano logico (oltre che semantico) che il tentativo e' punibile non solo quando l'esecuzione e' compiuta ma anche quando l'agente ha compiuto uno o piu' atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volonta' di voler compiere un determinato delitto.
Sul punto, e' lo stesso articolo 56 c.p. che offre utili spunti di riflessione nella parte in cui dispone che il delitto tentato si verifica in due ipotesi: 1) quando l'azione non si compie (c.d. tentativo non compiuto); 2) quando l'evento non si verifica (ed tentativo compiuto).
Sebbene si sia soliti attribuire poca importanza alla suddetta distinzione, in quanto la si assimila a quella del codice Zanardelli fra "delitto tentato" e delitto mancato" (peraltro sanzionato piu' gravemente), il dato di fatto semanticamente rilevante e' che non si parla di "delitto tentato o mancato" ma di azione non compiuta e di evento non verificatosi.
Il suddetto dato non puo' non avere una sua rilevanza giuridica.
Infatti, quando la legge adopera la locuzione "evento che non si verifica" e' chiaro che ipotizza il caso dell'agente che ha compito l'esecuzione degli atti tipici del delitto programmato, ma che questo non si e' verificato per un fatto indipendente dalla sua volonta' (ad es. l'agente ha sparato a Tizio ma questi, all'ultimo momento, casualmente, si e' spostato, facendo, quindi, fallire l'attentato). Se, quindi, la legge ha gia' previsto la punibilita' dell'esecuzione degli atti di un delitto, quando prevede la punibilita' anche dell'azione, necessariamente non puo' che far riferimento ad un qualcosa che precede l'esecuzione vera e propria, ossia quell'insieme di atti (o semplice atto) che, sebbene non esecutivi, valutati unitariamente, abbiano l'astratta attitudine a produrre il delitto programmato. L'azione, lo si ripete, e' un termine molto ampio ed indica il risultato finale del compimento di un atto o piu' atti, e contiene, in se', tutti gli elementi che consentono di affermare, sia pure ex post, che quell'azione era idonea, ove portata a termine (rectius: eseguita) a perpetrare il delitto programmato.
Cio', quindi, permette di affermare che ci si trova di fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi in cui l'agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.
Quanto appena detto, trova una conferma negli speculari commi terzo e quarto dell'articolo 56 che, ancora una volta, confermano i due livelli del tentativo punibile (sanzionati in modo differente): la desistenza dell'azione nel senso sopra specificato, nel quale caso, la norma prevede che l'agente risponde degli atti compiuti solo se questi costituiscano un reato diverso; l'impedimento, da parte dell'agente, dell'evento determinato dal compimento degli atti esecutivi veri e propri, nel quale caso, l'agente risponde pur sempre del tentativo, sebbene con una diminuzione della pena.
E' evidente, quindi, che, anche a livello sanzionatorio, la legge ha voluto distinguere le due tipologie di tentativi che, se non vengono attuati per cause indipendenti dalla volonta' dell'agente, vengono puniti allo stesso modo (comma 1), mentre se il delitto non si verifica per la resipiscenza dell'agente, vengono sanzionati diversamente rendendo, pertanto, palese che l'azione che non si compie (o dalla quale l'agente desiste) e' un qualcosa che precede l'evento che non si verifica (o compie).
Ed ulteriore conferma puo' trarsi dall'articolo 49 c.p., comma 2 (che rappresenta, per cosi' dire, il lato speculare e contrario dell'articolo 56 c.p.) che esclude la punibilita' per "l'inidoneita' dell'azione" non degli atti esecutivi: il che significa che, per stabilire se ci si trova di fronte ad un tentativo punibile, a parte l'ipotesi del compimento degli atti esecutivi veri e propri (ipotesi considerata espressamente, come si e' detto, dall'articolo 56 c.p., comma 1 ultima parte), occorre aver riguardo piu' che all'idoneita' dei singoli atti, all'idoneita' dell'azione valutata nel suo complesso cosi' come appare cristallizzata in un determinato momento storico, tenuto conto di tutti gli elementi esterni ed interni, conosciuti e conoscibili. Solo se l'azione viene valutata unitariamente, puo' aversi un quadro d'insieme dei singoli atti che, se valutati singolarmente, possono anche sembrare in se' inidonei, ma che se inseriti in un piu' ampio contesto, appaiono per quelli che sono, ossia dei singoli anelli di una piu' complessa ed unica catena, l'uno funzionale all'altro per il compimento dell'azione finale destinata a sfociare nella consumazione del delitto programmato.
Si puo', quindi, concludere affermando che il legislatore del 1930, arretrando la soglia di punibilita' del tentativo, ha completamente ribaltato l'impostazione del codice Zanardelli in quanto ora sono punibili non solo gli atti di esecuzione veri e propri ma anche gli atti ad essi antecedenti che, per comodita' descrittiva, si possono continuare a chiamare ancora atti preparatori, a condizione pero' che posseggano quelle caratteristiche si cui si e' detto.
Si deve, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: "ai fini del tentativo punibile, assumono rilevanza penale non solo gli atti esecutivi veri propri del delitto pianificato, ma anche quegli atti che, pur essendo classificabili come atti preparatori, tuttavia, per le circostanze concrete (di luogo - di tempo - di mezzi ecc.) fanno fondatamente ritenere che l'azione - considerata come l'insieme dei suddetti atti - abbia la rilevante probabilita' di conseguire l'obiettivo programmato e che l'agente si trovi ormai ad un punto di non ritorno dall'imminente progettato delitto e che il medesimo sara' commesso a meno che non risultino percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualita', dovendosi, a tal fine, escludere solo quegli eventi imprevedibili non dipendenti dalla volonta' del soggetto agente atteso che costui ha solo un modo per dimostrare di avere receduto dal proposito criminoso: ossia la desistenza volontaria (articolo 56 c.p., comma 3) o il recesso attivo (articolo 56 c.p., comma 4)".
p. 4.1. Tanto premesso in diritto, dalla sentenza impugnata si evince che il fatto e' stato ricostruito nei termini di seguito indicati. A seguito di una fortuita segnalazione, la Polizia, sospettando che fosse in preparazione una rapina ai blindati della Mo. , inizio' l'intercettazione di alcune utenze telefoniche, nonche' servizi di pedinamento e appostamento.
Dalle suddette indagini, emerse che, in effetti, una banda di nove persone (gli imputati del presente processo e quelli gia' giudicati con la sentenza n 17988/2010 di questa Corte), stavano organizzando per il giorno (OMESSO) una rapina ai danni di un furgone blindato della Mo. che trasferiva presso il deposito di (OMESSO) il denaro raccolto presso vari punti commerciali.
Le indagini avevano permesso di chiarire il ruolo che ognuno dei nove avrebbe ricoperto nell'azione - le modalita' dell'azione - l'ora in cui la rapina sarebbe avvenuta.
Fu cosi' che la Polizia, anche per evitare una probabile sanguinosa rapina (alcuni dei componenti della banda erano coinvolti in altre rapine dello stesso genere conclusesi con omicidi), decise di intervenire ed arrestare tutte e nove le persone che si trovavano riunite ed appostate nel luogo stabilito per dare inizio all'assalto del furgone. In particolare, nella sentenza impugnata e' scritto: "Il gruppo tratto in arresto il (OMESSO) era composto da persone che per precedenti specifici, per condotte di vita, per essere indagati per analoghi fatti di reato, risultava dedito in via non occasionale alla organizzazione e consumazione di gravissimi reati. (...). Il gruppo era dotato di armi da guerra di micidiale potenza offensiva, di giubbotti antiproiettile utili nel caso non meramente ipotetico di dover ingaggiare un conflitto a fuoco, di radio ricetrasmittenti, di auto rubate e una anche taroccata, di un furgone pesante per bloccare il blindato portavalori, di flessibili dotati di compressore per forzare le lamiere del furgone, di liquido incendiario per dare fuoco alle auto dopo il loro utilizzo. Le macchine erano gia' operative e pronte per essere utilizzate avendo a bordo armi, munizioni, guanti per non lasciare impronte, erano occultate nelle immediate vicinanze del luogo di raduno della banda - il piazzale dell'Esselunga di (OMESSO) - ossia nel garage e nel cortile di M. . L'individuazione dell'obiettivo da rapinare era il frutto di uno studio accurato con pedinamento dei mezzi e appostamenti in loco, e soprattutto, era agevolata nell'esecuzione, dai contatti con C. - dipendente infedele della Mo. - che oltre a fornire loro importanti notizie sui movimenti degli automezzi navetta, si era prestato a manomettere l'impianto GPS cosi' da non permettere all'equipaggio di lanciare efficaci segnali d'allarme e alla centrale operativa di rimanere all'oscuro dell'assalto e da non localizzare l'automezzo. Era gia' stato posizionato nella mattinata del 6 dicembre il furgone Iveco Daily da utilizzare, come nelle pregresse vicende criminali, per bloccare, speronandolo, il portavalori. Si era potuto verificare una suddivisione di ruoli che vedeva in M. il capo, in C. il basista, in Bo. la persona deputata alla logistica e allo studio del colpo tanto da custodire il furgone Iveco, Sa. e Gi. erano giunti da (OMESSO) e avevano preso parte al posizionamento di questo automezzo nel punto in cui sarebbe dovuto avvenire l'assalto, in prossimita' dell'uscita dalla tangenziale. Nove persone erano convenute nel posto stabilito in assenza di alcuna valida ragione alternativa a quella dell'essere coinvolte nel progetto delittuoso, ed erano state tratte in arresto poco tempo prima che si muovessero per portarsi sul luogo di consumazione del reato. Le telefonate tra Bo. e la fidanzata, del resto, indicavano proprio in quella sera il momento culminante di tutta l'azione e, per lui, il momento in cui avrebbe potuto chiudere con quella vita e rifarsene un'altra in (OMESSO) insieme alla sua donna e grazie al bottino". La Corte territoriale, dopo essersi fatta carico dei motivi di gravame dei vari imputati, li ha disattesi rilevando che le difese "frazionano le singole azioni in modo da evitare che di esse venga data una lettura congiunta e unificatrice che invece e' il senso giuridico del concorso. E peraltro, chi degli imputati sarebbe dovuto essere all'oscuro dei piani: Gi. era arrivato insieme a Sa. due giorni prima e il (OMESSO) aveva partecipato a un incontro con M. e Bo. nel solito posto di riunione del parcheggio dell'Esselunga; At. si era incontrato con M. per la consegna del pecorino sardo; su Bo. non e' il caso di spendere ulteriori argomentazioni; Ma. era in giro con M. sin dalle otto del mattino non certo per bighellonare come ragazzini che hanno marinato la scuola, visto che M. seguiva le operazioni di posizionamento del furgone Iveco, cosa di molto rilievo per non far fallire il progetto, come accaduto in precedenza; Ca. era partito quella mattina con il volo da (OMESSO) dopo un contatto telefonico con M. e stava per atterrare a (OMESSO) dove veniva ricevuto da M. e Ma. in tempo piu' che sufficiente per essere messo al corrente degli ultimi particolari; la riunione interrotta dalla polizia non serviva, ragionevolmente, ad altro che a dettare gli ultimi dettagli con la indicazione da sergente maggiore di Bo. che li voleva tutti a posto. Poi, giusto il tempo di armarsi ed equipaggiarsi portandosi nel box di M. distante solo 4,5km e non ben, come troppo enfaticamente sottolineato dalle difese, tanto che Bo. e M. dicono di averlo scelto per le loro innocue chiacchierate giusto perche' vicino casa e cosi non disturbavano i famigliari. Per il resto, va fatto richiamo alla sentenza anche per cio' che attiene alla pretesa di riscontrare un'ipotesi di reato impossibile per la dotazione del cosiddetto sistema schiuma blocco. Basti rammentare che l'idoneita' va giudicata con prognosi postuma in base alle conoscenze di cui dispone l'agente nel momento in cui avvia il determinismo causale. Nozioni di scuola sorreggono l'assunto del Tribunale e condiviso dalla Corte". In questa sede, i ricorrenti, da una parte, reiterando gli argomenti di merito gia' proposti avanti ai giudici di merito, sostengono che non vi sarebbero elementi sufficienti per ritenere, ciascuno di essi, coinvolti, nella tentata rapina, dall'altra, sostengono che, a tutto concedere, il tentativo, proprio sotto il solo profilo giuridico, non sarebbe configurabile.
Quanto alle censure di merito, le medesime vanno tutte disattese, perche' la sentenza di appello, letta in uno con quella di primo grado, non evidenzia illogicita' e/o incongruenze, avendo chiarito il ruolo di ciascuno degli imputati nella progettata rapina ed avendo disatteso, sulla base di precisi riscontri fattuali (le indagini compiute dalla Polizia) che si trattava di tesi difensive prive della minima credibilita'. Pertanto, le doglianze riproposte in questa sede, vanno ritenute nulla piu' che un inammissibile tentativo di ottenere, in modo surrettizio, una rivalutazione di quegli stessi elementi di merito gia' presi ampiamente in esame da entrambi i giudici di merito. Quanto alla questione di diritto, secondo la tesi sostenuta da tutti gli imputati, il tentativo non sarebbe configurabile perche' l'azione tipica della rapina (il compimento di atti violenti) non era ancora iniziata quando furono arrestati: in quel momento, infatti, essi ben avrebbero potuto recedere dal proposito criminoso sicche' non potevano essere condannati per un'azione non commessa.
Il caso di specie, e' emblematico della problematica di diritto di cui si e' parlato.
Si e' chiarito che l'articolo 56 c.p. prevede e sanziona due ipotesi di tentativo: quello in cui l'azione non si verifica e quello in cui l'evento non si compie, per cause indipendenti dalla volonta' dell'agente (nel qual caso le due ipotesi, ai fini sanzionatoti, vengono assimilate) ovvero per resipiscenza dell'agente (nel qual caso, ai sensi dei commi 3 e 4, la sanzione varia).
Si e' anche chiarito che l'azione puo' essere considerata idonea quando, sulla base degli elementi fattuali in atti, puo' affermarsi che il programma criminoso dell'agente si e' ormai concluso e l'agente sta per passare alla fase operativa vera e propria. Nel caso di specie, da quanto emerge dalla sentenza impugnata, il piano operativo era stato completamente esaurito in quanto erano stati effettuati gli appostamenti ed erano stati predisposti i mezzi per eseguire il piano: il furgone Fiat era stato posizionato per lo speronamento; l'allarme Gps dei blindati da assaltare era stato disattivato; tutto l'armamentario necessario per perpetrare materialmente la rapina era disponibile; tutti gli uomini della banda si trovavano sul posto pronti ognuno di essi ad eseguire i compiti che era stato loro assegnato.
E' evidente, quindi, che, tutto era stato predisposto per passare alla fase esecutiva vera e propria (assalto al furgone che sarebbe passato da li' a poco).
Si verte, pertanto, nella prima delle ipotesi considerate: infatti, gli imputati non furono sorpresi ed arrestati mentre, ad es. eseguivano i pedinamenti del furgone blindato o mentre si approvvigionavano delle armi o mentre stavano discutendo delle modalita' operative e della distribuzione dei ruoli: in tale ipotesi, invero, sarebbe stato configurabile il reato impossibile per inidoneita' dell'azione ex articolo 49, comma 2.
Al contrario, vennero arrestati quando tutte le suddette operazioni prodromiche erano gia' state eseguite e, quindi, l'azione, in se' e per se' considerata, come correttamente ha rilevato la Corte territoriale, era ormai potenzialmente idonea al compimento della progettata rapina. Si sarebbe verificata invece la seconda ipotesi del tentativo ("se l'evento non si verifica") se gli imputati avessero iniziato l'assalto ossia avessero iniziato a compiere gli atti violenti richiesti dalla norma incriminatrice di cui all'articolo 628 c.p.): in tal caso, il tentativo si sarebbe potuto ipotizzare ove, per una causa estranea ed imprevista (ad es. intervento delle forze dell'ordine), l'evento non avrebbe potuto essere portato a termine.
Le due ipotesi, pero', ai fini sanzionatori, sono equiparate. Ed e' del tutto vano che gli imputati sostengano che ben avrebbero potuto recedere: cio' che, in realta', rileva e' che nessuno di essi lo fece perche' tale intenzione non puo' essere solo ipotizzata ma deve trovare un concreto riscontro fattuale che, nel caso in esame, manca del tutto. In conclusione, le censure proposte da tutti gli imputati (Ca. : motivi sub 2-3; Gi. : motivo unico; Ma. : motivi sub 1 - 2; Bo. motivi sub 1-2; C. motivo sub 1) in ordine alla violazione dell'articolo 56 c.p. vanno tutte disattese, avendo la Corte territoriale correttamente applicato il principio di diritto supra enunciato.
p. 5. CA. .
p. 5.1. violazione dell'articolo 415 bis c.p.p. (motivo sub 1): lo stesso ricorrente afferma che, nell'istanza rivolta al P.m., aveva chiesto di essere esaminato (cfr pag. 2 ricorso). Posta nei seguenti termini, la doglianza e' infondata. L'articolo 415 bis c.p.p., comma 3 dispone che l'indagato ha facolta', entro il termine di venti giorni dall'avviso delle conclusioni delle indagini preliminari: 1) di presentarsi per rilasciare dichiarazioni 2) di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio: in tale ultima ipotesi "il pubblico ministero deve procedervi".
La Corte sostiene che l'imputato, tramite il proprio difensore non aveva chiesto di essere interrogato ma aveva formulato una richiesta diversa sulla quale il pubblico ministero non aveva obbligo di rispondere o di provvedere: il ricorrente, infatti, aveva chiesto di essere esaminato ai sensi dell'articolo 468 c.p.p..
La decisione della Corte territoriale deve ritenersi corretta in considerazione della natura e del contenuto dell'istanza che indicava un istituto (l'esame: cfr articolo 503 c.p.p.) riguardante il dibattimento ed avente un contenuto del tutto diverso dall'interrogatorio (cfr articoli 64 - 65 c.p.p.) previsto dalla norma di riferimento (articolo 415 bis c.p.p.). E' vero che sussiste il principio dell'interpretazione (e conservazione) degli atti ma e' anche vero che l'autorita' giudiziaria (nella specie il P.m.), a fronte di una richiesta - tanto piu' ove proveniente da un tecnico del diritto - ambigua, contraddittoria e non avente riscontro in alcuna norma processuale, non e' tenuta ad interpretarla essendo, pertanto, legittimata a disattenderla non dandovi corso.
p. 5.2. violazione dell'articolo 648 c.p. (motivo sub 4): la Corte territoriale, avanti alla quale la stessa doglianza era stata sollevata, l'ha disattesa osservando che "prestando il consenso alla rapina ogni complice ha percio' stesso acquisito la disponibilita' collegiale e giuridica delle armi funzionali al reato (...)" nonche' la disponibilita' "dei beni indicati sub a) tutti di provenienza delittuosa, in tal modo ricettandoli".
La motivazione sia dal punto di vista giuridico che fattuale e' ineccepibile in quanto, una volta accertato che l'imputato era ben consapevole di partecipare ad una rapina per la consumazione della quale si sarebbe dovuto far uso di tutto quell'armamentario, e' chiaro che risponde non solo del tentativo di rapina ma anche della ricettazione (nella specie sotto il profilo di "ricevere") di tutti quelle cose provento di reato che sarebbero servite per la consumazione del programmato reato.
p. 5.3. violazione dell'articolo 62 bis c.p. (motivo sub 5): la Corte ha respinto la richiesta di concessione delle attenuanti generiche "a fronte di precedenti penali per gravi fatti di reato dimostrativi di un inserimento nel circuito criminale piuttosto che di una volonta' di rimanervi al di fuori". La motivazione non si presta ad alcuna censura sotto il profilo di legittimita' anche a fronte della generica doglianza proposta.
p. 6. BO. .
p. 6.1. violazione degli articoli 266 - 271 c.p.p. (motivo sub 5): la censura e' fondata. Come si desume dalla impugnata sentenza, nel corso delle intercettazioni telefoniche autorizzate per la sola rapina, emersero indizi a carico dell'imputato anche per i reati di cui ai capi E (articolo 367 c.p.) ed F (articolo 642 c.p.).
La decisione della Corte territoriale, in ordine all'utilizzabilita' delle suddette intercettazioni anche per i reati di cui agli articoli 367 e 642 c.p., non e' condivisibile, ritenendo questa Corte di dare continuita' a quella giurisprudenza di legittimita' secondo la quale "In tema di intercettazione di comunicazioni o conversazioni, la circostanza che non possano considerarsi pertinenti a "diverso procedimento" risultanze concernenti fatti strettamente connessi a quello cui si riferisce l'autorizzazione giudiziale, e che dunque non rilevino i limiti di utilizzabilita' fissati all'articolo 270 c.p.p., non esclude che siano applicabili, anche a tale proposito, le condizioni generali cui la legge subordina l'ammissibilita' delle intercettazioni. Ne consegue che, quando nel corso di intercettazioni autorizzate per un dato reato emergono elementi concernenti fatti strettamente connessi al primo, detti elementi possono essere utilizzati solo nel caso in cui, per il reato cui si riferiscono, il controllo avrebbe potuto essere autonomamente disposto a norma dell'articolo 266 c.p.p." Cass. 4942/2004 riv 229999 - Cass. 12562/2010 riv 246594. La soluzione qui accolta, poi, trova, nel caso di specie, un ulteriore argomento derivante dal fatto che, pacificamente, fra i reati in questione e quello di rapina non vi e' alcuna connessione probatoria ma solo soggettiva. Da quanto detto consegue:
- l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza, limitatamente ai suddetti reati in quanto, come si evince dalla motivazione, l'unica fonte di prova e' costituita proprio dal contenuto delle intercettazioni;
- l'eliminazione delle relative pene per complessivi gg 30 ed euro 90,00 di multa (cfr sentenza di primo grado).
p. 7. C. .
p. 7.1. violazione delle norme in ordine al trattamento sanzionatorio (motivo sub 2): la Corte territoriale ha disatteso la richiesta non solo criticando il Tribunale per aver concesso le attenuanti generiche (sebbene equivalenti) - del che non si poteva che prenderne atto - ma osservando che, in considerazione del ruolo svolto dall'imputato (sabotatore del sistema di allarme dei furgoni blindati), costui aveva "commesso un'azione eticamente spregevole" e concludendo, sia pure implicitamente che il trattamento sanzionatorio doveva ritenersi piu' che adeguato. Anche la suddetta motivazione non si presta alla generica censura dedotta in questa sede, dovendosi ritenere che la Corte abbia correttamente ed adeguatamente motivato la reiezione dell'istanza.
p. 8. AT. .
Il ricorso presentato da At. e' inammissibile non avendo il ricorrente presentato alcun motivo.

P.Q.M.

ANNULLA
Senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Bo. Se. limitatamente ai reati di cui ai capi E) ed F) perche' i fatti non sussistono. Elimina le relative pene per complessivi giorni 30 di reclusione ed euro 90,00 di multa, nonche' la condanna al risarcimento e rifusione delle spese in favore della costituita parte civile Navale Ass.ni spa. Rigetta il ricorso del Bo. nel resto.

Dichiara inammissibile il ricorso di At. Ed. e rigetta gli altri ricorsi. Condanna At. - Gi. - Ca. - Ma. - C. al pagamento delle spese processuali e At. anche della somma di euro 1.000,00 alla cassa delle ammende.
Condanna tutti i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile Mo. No. srl liquidate in complessivi euro 5.054,40 come da nota spese.

Da: orny16/12/2010 13:30:13
scusa perchè caos? ma è possibile che state davvero in alto mare, ma lì i commissari che dicono?

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Da: alexandrox16/12/2010 13:30:34
la   soluzione o svolgimento del penale ???  la avete please ?

Da: Passacatania 16/12/2010 13:31:05
io l'ho impostato così.. ditemi se va bene






Ill.ma Corte di Appello di ………
Atto di appello e di esposizione dei contestuali motivi



Lo scrivente avv. ……………….., del foro di ………………….., quale difensore, giusta nomina in atti,  di  Tizio, nato a ………….il……………, residente a………………..in via………….n………………… per mezzo della presente propone appello avverso la sentenza n………………, emessa il………………e depositata in cancelleria il successivo……………….con la quale tizio è stato condannato alla pena della reclusione di anni…... e della multa perché ritenuto responsabile del delitto di cui agli artt. 56 e 628 comma 3°, n. 1, c.p.
Ed all'uopo espone i seguenti motivi di gravame:
(I)
Assoluzione perché il fatto non sussiste
Ad avviso di questo difensore non può essere condiviso l'orientamento sostenuto dall'ufficio del Pubblico Ministero e fatto proprio dall'organo giudicante secondo il quale nel caso di specie gli elementi di fatto costituiscono indizi gravi, precisi e concordanti, per ritenere la responsabilità di tizio per il delitto di cui all'art. 56 e 628 c.p. nei confronti della Banca Alfa.
Invero, non può assolutamente ritenersi che, il possesso di pistola scacciacani, di berretti per mascherarsi il viso, di due sacchetti ove riporre la refurtiva ed un motorino rubato per scappare, costituiscono elementi sui quali può emettersi un giudizio di responsabilità per delitto di rapina.
Ciò in quanto, se da un lato questi elementi possono essere tali da far ritenere la sussistenza dell'intenzione di commettere il delitto di rapina, non sono stati indicati altri elementi di fatto dai quali possa affermarsi la loro idoneità al suo compimento.
Il legislatore del 1930, infatti, modificando la precedente formulazione dell'art. 56 c.p., ha introdotto innovazioni radicali della disciplina del tentativo, sopprimendo la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi.
L'art. 56 c.p., nella nuova formulazione, oggi in vigore, non parla piu' di mezzi ma di atti idonei (in contrapposizione agli atti inidonei di cui all'articolo 49 c.p., comma 2) e di azione che non si compie o di evento che non si verifica.
Pertanto, il semplice possesso di mezzi idonei, quali armi, berretti, sacchetti di plastica,  non consentono di emettere sentenza di condanna per il delitto di rapina.
Invece, per la configurabilità del delitto tentato, occorre che il soggetto attivo pone in essere comportamenti dai quali si possa dedurre la sua intenzione a realizzare gli estremi della fattispecie penale che viene in considerazione.
Ed. infatti, il nostro sistema penale è fondato sul principio della colpevolezza con la conseguenza che la semplice intenzione non è punibile secondo il vecchio brocardo cogitationis poenam nemo patitur ex art. 49 c.p.
Tale principio viene ribadito dall'art. 115 c.p. a norma del quale "qualora due o piu' persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di essa e' punibile per il solo fatto dell'accordo".
Al fine di evitare che un soggetto venga punito per il solo accordo (non punibile), il legislatore ha inserito l'art. 56 c.p. che ruota intorno a due criteri: l'idoneità e la inequivocità degli atti compiuti dall'agente, nel senso che, solo ove l'azione presenti le suddette caratteristiche, l'agente può essere punito a titolo di tentativo.
In ordine al concetto di idoneità degli atti l'opinione maggioritaria della Suprema Corte di cassazione è alquanto compatta nel ritenere che un atto si può ritenere idoneo quando, valutato ex ante ed in concreto (c.d. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo, il Giudice, sulla base della comune esperienza dell'uomo medio, possa ritenere che quegli atti erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata (Cass. 40058/2008 riv 241649- Cass. 43255/2009 riv 245721 - Cass. 27323/2008 riv 240736 - Cass. 34242/2009 riv 244915).
Quanto alla nozione di univocità degli atti, questo difensore è consapevole che anche gli atti preparatori possono configurare l'ipotesi del tentativo, allorquando essi rivelino, sulla base di una valutazione ex ante e indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei, l'adeguatezza causale nella sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto, dimostrando contemporaneamente, per la loro essenza ed il contesto nel quale s'inseriscono, l'intenzione dell'agente di commettere il delitto": Cass. 27323/2008 riv. 240736 - Cass. 43255/2009 Rv. 245720.
L'atto preparatorio, dunque,  puo' integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione "ex ante" e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto". (Cass. 40702/2009 Rv. 245123).
Nel caso di specie, non può assolutamente ritenersi che il solo possesso di una pistola scacciacani, di berretti per mascherarsi il viso, di due sacchetti ove riporre la refurtiva ed un motorino rubato per scappare, costituiscono elementi dai quali possa evincersi l'inequivocità alla commissione di un delitto di rapina.
Questi elementi possono essere tali da far ritenere soltanto la sussistenza dell'intenzione di commettere il delitto di rapina.
Pertanto, la mancanza di ogni altro elemento (l'effettivo utilizzo dei berretti, l'essersi avvicinato alla banca con il sacchetto di plastica) deve indurre a ritenere insussistente il delitto contestato.
Ciò, in quanto, anche ritenendo che l'azione sia idonea, non sono stati riscontrati elementi per ritenere che Tizio e Caio siano passati alla fase operativa vera e propria, dal momento che potrebbe anche essersi verificato che, giunti sul luogo, abbiano  deciso di non commettere il delitto di rapina.
L''art. 56, infatti, prevede e sanziona due ipotesi di tentativo: quello in cui l'azione non si verifica e quello in cui l'evento non si compie, per cause indipendenti dalla volonta' dell'agente (nel qual caso le due ipotesi, ai fini sanzionatoti, vengono assimilate) ovvero per resipiscenza dell'agente (nel qual caso, ai sensi dei commi 3 e 4, la sanzione varia).
Ed, invero, la circostanza che gli imputati si trovavano a distanza notevole dalla Banca, il fatto che le pistole  non fossero pronte all'uso, inducono da un lato a ritenere che gli stessi potessero essere  sul punto di ravvedersi e dall'altro non consentono di affermare la necessaria partecipazione di entrambi all'azione criminosa progettata.
Tanto sopra premesso si chiede l'assoluzione dell'imputato perchè il fatto non sussiste, ovvero ai sensi del 530 co. II cpp, dato che nessun atto idoneo e diretto in modo non equivoco è stato commesso e, quindi gli indizi riscontrati non presentano le caratteristiche della gravità, precisione  e concordanza.

(II)
Riqualificazione giuridica del fatto contestato.

La circostanza che gli imputati, si trovassero a distanza di 100 metri dalla Banca, che le armi non erano pronte per l'utilizzo, che i berretti non erano ancora effettivamente utilizzati, inducono a ritenere sussistente la disciplina di cui all'art. 56 comma terzo, con la conseguente riduzione della pena irrogata, c.p.
(III)
Concessione delle attenuanti genriche di cui all'art. 62 bis c.p.
L'art. 62-bis c.p. prescrive che, indipendentemente dalle circostanze previste nell'articolo 62 c.p., il Giudice possa prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena.
La ratio dell'introduzione delle attenuanti generiche è quella di mitigare, attraverso il ricorso a circostanze non contemplate specificamente dalla legge e non predeterminate, le pene giudicate troppo aspre a seguito di una applicazione rigida e formale del paradigma sanzionatorio.
Per quanto concernono i requisiti richiesti ai fini della concessione delle attenuanti generiche, la giurisprudenza di legittimità ha escluso che l'unico parametro sia costituito dalla elencazione contenuta nell'art. 133 c.p., ritenendo invece che la concedibilità delle attenuanti generiche possa essere ravvisata in qualsiasi elemento di giudizio dal quale trarre la meritevolezza di una diminuzione di pena (Cass., 19 ottobre 1992, Riv. pen. 1993, p. 812).
La mancanza di precedenti penali, e gli elementi di fatto, soprattutto la circostanza che gli stessi si trovavano a distanza di 100 metri dalla banca inducono a ritenere concedibili le circostanze generiche di cui all'art.62 bis c.p.
Tanto sopra premesso e considerato si chiede di riconoscere le circostanze di cui all'art. 62 bis c.p. nella misura prevalente alle contestate aggravanti o in misura equivalente e conseguentemente rideterminare la pena applicata dal Giudice di prime cure.
Luogo e data
Firma
Avv…………….

Da: robb16/12/2010 13:31:50
civile please bari e lecce nella merda

Da: Emanu 16/12/2010 13:32:34
qual è la sentenza per civile?

Da: giac16/12/2010 13:33:38
ma amministrativo niente????
per favore postatelo

Da: giàavvocato per fortuna16/12/2010 13:34:09
Cassazione, Sez. II, 25 ottobre 2010, n. 37843

(Pres. Bardovagni - Rel. Geppino)





FATTO

p. 1. Con sentenza del 13/07/2009, la Corte di Appello di Milano confermava, in punto di responsabilita', la sentenza pronunciata in data 17/07/2008 dal Tribunale della medesima citta' con la quale C. N. - GI. Ag. - CA. An. - BO. Se. - MA. Gi. e AT. Ed. erano stati ritenuti responsabili dei delitti di ricettazione e tentata rapina aggravata.

p. 2. Avverso la suddetta sentenza, tutti i suddetti imputati hanno proposto ricorso per cassazione.

p. 2.1. GI. ha dedotto violazione degli articoli 56 e 628 c.p. per avere la Corte ritenuto la configurabilita' del tentativo, nonostante fosse stato arrestato in un momento in cui la presunta progettata rapina al furgone portavalori della Mo. non fosse ancora in esecuzione. Infatti, il suddetto furgone sarebbe passato dal luogo dove egli, insieme agli altri coimputati, fu sorpreso dalla Polizia, solo dopo due ore, e le armi con tutta l'attrezzatura per eseguire la rapina erano ricoverate in un box - nella disponibilita' di uno dei coimputati - che si trovava ad una distanza di circa km 4,5. In altri termini, ci si trovava di fronte ad atti meramente preparatori e non esecutivi che non avevano alcuna idoneita' causale a ledere il bene giuridico protetto. Infatti, la suddetta riunione non era altro che il momento in cui avrebbe dovuto perfezionarsi l'accordo a commettere il delitto, delitto dal quale, pero', esso ricorrente ben avrebbe potuto pur sempre ancora desistere.

p. 2,2. CA. ha dedotto i seguenti motivi:

1. Violazione dell'articolo 415 bis c.p.p. per non essere stato sentito dal P.m. nonostante lo avesse espressamente richiesto;

2. Illogicita' della motivazione per non avere la Corte territoriale creduto alla tesi difensiva secondo la quale esso ricorrente si trovava sul luogo dell'arresto solo per una "disgraziata circostanza fortuita" nonostante la suddetta tesi fosse stata confermata da prove testimoniali e documentali. La Corte, infatti, aveva tratto il suo convincimento sulla base di illazioni prive di alcun riscontro anche solo presuntivo, trascurando di dare conto degli elementi favorevoli indicati dalla difesa;

3. Violazione degli articoli 56 e 628 c.p. si tratta dello stesso motivo proposto dal Gi. ;

4. violazione dell'articolo 648 c.p. per avere la Corte ritenuto la configurabilita' del reato di ricettazione delle armi e del furgone che sarebbero serviti per la rapina, nonostante esso ricorrente non avesse mai avuto la disponibilita' delle armi ne' fosse intervenuto nell'acquisito o ricevimento dei suddetti beni;

5. violazione dell'articolo 62 bis c.p. per non avere la Corte concesso la suddetta attenuante nonostante fossero state indicate le ragioni che avrebbero dovuto indurre la Corte ad accogliere la richiesta (eccessivita' della pena - minore intensita' del dolo e alla partecipazione nel fatto).

p. 2.3. Ma. , ha dedotto i seguenti motivi:

1. violazione degli articoli 56 - 628 c.p. si tratta dello stesso motivo dedotto dal Gi. ;

2. violazione dell'articolo 192 c.p.p., comma 2 per avere la Corte territoriale ritenuto la responsabilita' di esso ricorrente sulla base di elementi che non presentavano i requisiti della gravita', precisione e concordanza. Invero, il nome del Ma. risultava solo nell'intercettazione telefonica del (OMESSO) (ossia il giorno della tentata rapina), alle ore 7,52 quando venne contattato dal M. (uno dei coimputati) il quale gli chiese di rendersi disponibile tutto il giorno. Tuttavia, esso ricorrente rispose che poteva esserlo fino alle ore 16,30, orario in cui doveva recarsi a prelevare i bambini a scuola. Ed era poi significativo il fatto che "ne' il giudice ne' l'attivita' investigativa riescono a chiarire con quali modalita' e funzioni il Ma. sarebbe stato introdotto nella struttura criminale". In particolare, quanto al preteso ruolo avuto nella manomissione della centralina dei furgoni navetta, nulla era stato provato, anche perche' non era neppure certo che fossero state manomesse ed i testi B. e Va. , incaricati dalla Mo. di effettuare una perizia sulla centralina di uno dei furgoni, aveva reso dichiarazioni discordanti e prive di credibilita' scientifica tant'e' che esso ricorrente aveva provveduto a querelare il legale rappresentante della Mo. per simulazione di reato e calunnia.

p. 2.4. BO. ha dedotto i seguenti motivi:

1. violazione degli articoli 56 e 628 c.p. si tratta dello stesso motivo dedotto dal Gi. ;

2. violazione dell'articolo 192 c.p.p., comma 2 per avere la Corte territoriale ritenuto la responsabilita' di esso ricorrente sulla base di elementi che non presentavano i requisiti della gravita', precisione e concordanza. Infatti, il preteso ruolo di addetto alla logistica e di collaboratore del M. alla studio e all'organizzazione della rapina, era ancorato ad un ordito indiziario privo di alcun pregio giuridico;

3. violazione degli articoli 266 e 271 c.p.p. per avere la Corte territoriale desunto la responsabilita' in ordine ai delitti di cui agli articoli 367 e 642 c.p. da colloqui telefonici intercettati ma che erano stati disposti in relazione alla rapina aggravata. Ad avviso del ricorrente, quindi, poiche' per i suddetti reati, che prevedevano una pena edittale inferiore nel massimo a cinque anni, non era possibile disporre intercettazioni telefoniche, allora, quelle conversazioni captate per un altro reato per il quale l'intercettazione era stata legittimamente autorizzata non avrebbe potuto essere utilizzata come prova.

p. 2.5. C. , ha dedotto i seguenti motivi:

1. contraddittorieta' e illogicita' della motivazione per avere la Corte territoriale ritenuto provata la penale responsabilita' per il delitto di concorso in tentata rapina aggravata pur avendo esso ricorrente offerto "una piu' che plausibile spiegazione alternativa" all'ipotesi accusatoria in ordine alla sua conoscenza con il Di. Do. (altro coimputato), all'incontro avuto con il M. , all'impossibilita' di manomettere l'impianto GPS non avendo mai egli ricoperto il ruolo di capo equipaggio il quale solo aveva la possibilita' di intervenire sul sistema;

2. violazione delle norme in ordine al trattamento sanzionatorio: si duole il ricorrente che, in modo illogico, era stata ritenuta la semplice equivalenza fra la circostanza aggravante di cui all'articolo 61 c.p., n. 7 e le attenuanti generiche e che il trattamento sanzionatorio, in violazione delle regole di cui all'articolo 133 c.p., era stato eccessivo tenuto conto che si trattava di rapina tentata e che non era stata valutata in modo equanime la complessiva personalita' di esso ricorrente.

p. 2.6. AT. non ha presentato alcun motivo.

DIRITTO

p. 3. violazione degli articoli 56 e 628 c.p.: in via di stretto diritto, in ordine ai principi applicabili in tema di tentativo, va affermato quanto segue.

L'articolo 56 c.p., disciplina il tentativo nei delitti e, essendo una fattispecie autonoma rispetto al reato consumato (ex plurimis Cass. 13/6/2001 riv 220330), richiede, come tutti i reati, la sussistenza sia dell'elemento soggettivo che oggettivo.

L'elemento soggettivo e' identico al dolo del reato che il soggetto agente si propone di compiere.

L'elemento oggettivo, invece, presenta spiccate peculiarita' in quanto ruota intorno a tre concetti:

- l'idoneita' degli atti;

- l'univocita' degli atti;

- il mancato compimento dell'azione o il mancato verificarsi dell'evento.

La linea di demarcazione fra la semplice intenzione non punibile (secondo il vecchio brocardo cogitationis poenam nemo patitur) e quella punibile si snoda proprio attraverso l'esatta comprensione dei suddetti principi.

Una premessa di natura sistematica: sebbene l'articolo 56 c.p. sia l'unica norma che disciplini espressamente il tentativo, tuttavia, utili argomenti si possono trarre, ai fini sistematici, anche dall'articolo 115 c.p. a norma del quale "qualora due o piu' persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di essa e' punibile per il solo fatto dell'accordo".

La suddetta norma, evidenzia, quindi, in modo plastico, il principio secondo il quale anche un semplice accordo a commettere un delitto (e, quindi, a fortiori, il semplice averlo pensato) non e' punibile (salva l'applicazione della misura di sicurezza) ponendosi all'estremo opposto del delitto consumato.

Ma e' proprio fra questi due estremi, ossia fra la semplice cogitatio o accordo (non punibile) ed il delitto consumato che si colloca la problematica del delitto tentato che consiste, appunto, nello stabilire quando un'azione, avendo superato la soglia della mera cogitatio, pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, dev'essere ugualmente punibile.

Il codice penale del 1889 (c.d. codice Zanardelli), influenzato dal codice napoleonico, all'articolo 61, punendo "colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione", poneva la soglia di punibilita' del delitto programmato nel momento in cui l'agente avesse cominciato l'esecuzione dell'azione: da qui, la distinzione fra atti preparatori non punibili ed atti di esecuzione punibili.

La distinzione, pero', creo' notevoli problemi interpretativi tanto che il legislatore del 1930 - peraltro anche per precise ragioni ideologiche - abbandono' espressamente il suddetto criterio, introducendo l'attuale articolo 56 c.p. che ruota intorno a due criteri: l'idoneita' e la inequivocita' degli atti compiuti dall'agente, nel senso che, solo ove l'azione presenti le suddette caratteristiche, l'agente puo' essere punito a titolo di tentativo.

Il dibattito (dottrinale e giurisprudenziale), pero', si e' riacutizzato perche', mentre prima la domanda era quali fossero i criteri per stabilire la differenza fra atti preparatori (non punibili) ed atti di esecuzione (punibili), ora la questione consiste nell'individuare la linea di confine che separa il semplice accordo (o la mera cogitatio), non punibile, dagli atti idonei inequivoci, punibili. In ordine al concetto di idoneita' degli atti (e non del mezzo come prescriveva il codice Zanardelli), l'opinione maggioritaria sia della dottrina che della stessa giurisprudenza di questa Corte, e' alquanto compatta nel ritenere che un atto si puo' ritenere idoneo quando, valutato ex ante ed in concreto (c.d. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo (ed criterio di valutazione su base parziale: ex plurimis Cass. 9/12/1996, Tansino, rv 206562), il giudice, sulla base della comune esperienza dell'uomo medio, possa ritenere che quegli atti - indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei - erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata: ex plurimis Cass. 40058/2008 riv 241649 (in motivazione) - Cass. 43255/2009 riv 245721 - Cass. 27323/2008 riv 240736 - Cass. 34242/2009 riv 244915.

Tanto risulta confermato anche dall'articolo 49 c.p., comma 2 che e' la norma speculare dell'articolo 56 c.p. nella parte in cui dispone la non punibilita' per l'inidoneita' dell'azione. Piu' controversa e' la nozione di univocita' degli atti. Secondo una prima tesi "anche gli atti preparatori possono configurare l'ipotesi del tentativo, allorquando essi rivelino, sulla base di una valutazione ex ante e indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei, l'adeguatezza causale nella sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto, dimostrando contemporaneamente, per la loro essenza ed il contesto nel quale s'inseriscono, l'intenzione dell'agente di commettere il delitto": Cass. 27323/2008 riv. 240736 - Cass. 43255/2009 Rv. 245720 "L'atto preparatorio puo' integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacita', sulla base di una valutazione "ex ante" e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto" - Cass. 40702/2009 Rv. 245123.

E' la c.d. tesi soggettiva in base alla quale, appunto, la prova del requisito dell'univocita' dell'atto puo' essere raggiunta non solo sulla base dell'atto in se' considerato ma anche aliunde e, quindi, anche sulla base di semplici atti preparatori qualora rivelino la finalita' che l'agente intendeva perseguire.

Ad avviso, invece, di un'altra tesi, "gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, come inizio di esecuzione, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata, in quanto la univocita' degli atti indica non un parametro probatorio, ma un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta; ne consegue che non sono punibili, a titolo di tentativo, i meri atti preparatori": Cass. 9411/2010 Rv. 246620 - Cass. 40058/2008 cit. - Cass. 36283/2003 riv 228310 - Cass. 43406/2001 riv 220144.

"Se e' vero, infatti, che il legislatore del 1930, obbedendo a sollecitazioni politiche dell'epoca, aveva ritenuto di allargare l'area del tentativo punibile redigendo il testo dell'articolo 56 c.p., non e' men vero che gran parte della dottrina e della giurisprudenza hanno dimostrato l'illusorieta' del proposito che, con quel mezzo, si intendeva attuare. Cio' perche' atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se l'idoneita' di un atto puo' denotare al piu' la potenzialita' dell'atto a conseguire una pluralita' di risultati, soltanto dall'inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa puo' dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente": Corte Cost 177/1980.

E' la c.d. tesi oggetti va secondo la quale gli atti possono essere considerati univoci ogni qualvolta, valutati in quel singolo contesto, rivelano, in se' e per se' considerati, l'intenzione dell'agente (ed criterio di essenza). Per questa tesi, quindi, "la "direzione non equivoca" indica, infatti, non un parametro probatorio, bensi' un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per se' rivelare l'intenzione dell'agente. L'univocita', intesa come criterio di "essenza", non esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettivita' per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e l'id quod plerumque accidit, l'intenzione, il fine perseguito dall'agente": Cass. 40058/2008 cit..

E' evidente il punto di frizione fra le due tesi. Infatti, mentre per la tesi soggettiva, l'univocita' va valutata sulla base delle circostanze concrete (con la conseguenza che si determina, sul piano della repressione penale, un arretramento della soglia di punibilita', in quanto anche gli atti in se' preparatori, possono, a determinate condizioni, essere considerati univoci), al contrario per la tesi oggettiva, l'univocita' coincide con l'inizio degli atti tipici di un determinato reato (con conseguente spostamento in avanti della soglia di punibilita', escludendosi l'univocita' degli atti meramente preparatori).

Questa Corte ritiene che la tesi ed oggettiva non sia condivisibile perche', riproponendo, di fatto, l'antica problematica di cui si discuteva sotto il codice Zanardelli, opera un'interpretazione abrogans della nuova normativa, lasciando insoluti, in specie per i reati a forma libera, quegli stessi interrogativi che avevano indotto il legislatore del 1930 a rivedere radicalmente l'intera normativa. Infatti, nella Relazione al progetto definitivo al codice penale, si trova scritto: "innovazioni radicali sono state introdotte nella disciplina del tentativo, sopprimendo la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi".

Si ritiene, quindi, che la tesi piu' corretta sia quella soggettiva per i motivi di seguito indicati.

Il punto di partenza, per una corretta esegesi dell'articolo 56 c.p., non puo' che essere il dato storico: come si e' detto, fu proprio per evitare le incertezze interpretative derivanti dall'individuare quali fossero i mezzi che potevano essere considerati inizio dell'esecuzione criminosa (problema che diventava quasi irresolubile per i reati a forma libera) che il legislatore del 1930 s'indusse ad abbandonare la formula che parlava di "cominciamento" "mezzi" "esecuzione".

Nel nuovo articolo 56 c.p., infatti, non si parla piu' di mezzi ma di atti idonei (in contrapposizione agli atti inidonei di cui all'articolo 49 c.p., comma 2) e di azione che non si compie o di evento che non si verifica.

La terminologia adoperata dal legislatore e' molto importante: una cosa e' parlare di cominciamento dell'esecuzione con mezzi idonei, altro e' parlare di azione non compiuta e di atti idonei a commettere il delitto.

E' evidente, infatti, l'arretramento della soglia di punibilita', laddove si consideri che i termini "azione" ed "atti", indicano, proprio a livello semantico, una maggiore estensione rispetto alla piu' ristretta categoria degli atti esecutivi.

In altri termini, il legislatore ha focalizzato la sua attenzione non solo sull'esecuzione ma anche sull'azione.

Ora, siccome l'azione e' quell'attivita' umana composta da uno o piu' atti, ne deriva, proprio sul piano logico (oltre che semantico) che il tentativo e' punibile non solo quando l'esecuzione e' compiuta ma anche quando l'agente ha compiuto uno o piu' atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volonta' di voler compiere un determinato delitto.

Sul punto, e' lo stesso articolo 56 c.p. che offre utili spunti di riflessione nella parte in cui dispone che il delitto tentato si verifica in due ipotesi: 1) quando l'azione non si compie (c.d. tentativo non compiuto); 2) quando l'evento non si verifica (ed tentativo compiuto).

Sebbene si sia soliti attribuire poca importanza alla suddetta distinzione, in quanto la si assimila a quella del codice Zanardelli fra "delitto tentato" e delitto mancato" (peraltro sanzionato piu' gravemente), il dato di fatto semanticamente rilevante e' che non si parla di "delitto tentato o mancato" ma di azione non compiuta e di evento non verificatosi.

Il suddetto dato non puo' non avere una sua rilevanza giuridica.

Infatti, quando la legge adopera la locuzione "evento che non si verifica" e' chiaro che ipotizza il caso dell'agente che ha compito l'esecuzione degli atti tipici del delitto programmato, ma che questo non si e' verificato per un fatto indipendente dalla sua volonta' (ad es. l'agente ha sparato a Tizio ma questi, all'ultimo momento, casualmente, si e' spostato, facendo, quindi, fallire l'attentato). Se, quindi, la legge ha gia' previsto la punibilita' dell'esecuzione degli atti di un delitto, quando prevede la punibilita' anche dell'azione, necessariamente non puo' che far riferimento ad un qualcosa che precede l'esecuzione vera e propria, ossia quell'insieme di atti (o semplice atto) che, sebbene non esecutivi, valutati unitariamente, abbiano l'astratta attitudine a produrre il delitto programmato. L'azione, lo si ripete, e' un termine molto ampio ed indica il risultato finale del compimento di un atto o piu' atti, e contiene, in se', tutti gli elementi che consentono di affermare, sia pure ex post, che quell'azione era idonea, ove portata a termine (rectius: eseguita) a perpetrare il delitto programmato.

Cio', quindi, permette di affermare che ci si trova di fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi in cui l'agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Quanto appena detto, trova una conferma negli speculari commi terzo e quarto dell'articolo 56 che, ancora una volta, confermano i due livelli del tentativo punibile (sanzionati in modo differente): la desistenza dell'azione nel senso sopra specificato, nel quale caso, la norma prevede che l'agente risponde degli atti compiuti solo se questi costituiscano un reato diverso; l'impedimento, da parte dell'agente, dell'evento determinato dal compimento degli atti esecutivi veri e propri, nel quale caso, l'agente risponde pur sempre del tentativo, sebbene con una diminuzione della pena.

E' evidente, quindi, che, anche a livello sanzionatorio, la legge ha voluto distinguere le due tipologie di tentativi che, se non vengono attuati per cause indipendenti dalla volonta' dell'agente, vengono puniti allo stesso modo (comma 1), mentre se il delitto non si verifica per la resipiscenza dell'agente, vengono sanzionati diversamente rendendo, pertanto, palese che l'azione che non si compie (o dalla quale l'agente desiste) e' un qualcosa che precede l'evento che non si verifica (o compie).

Ed ulteriore conferma puo' trarsi dall'articolo 49 c.p., comma 2 (che rappresenta, per cosi' dire, il lato speculare e contrario dell'articolo 56 c.p.) che esclude la punibilita' per "l'inidoneita' dell'azione" non degli atti esecutivi: il che significa che, per stabilire se ci si trova di fronte ad un tentativo punibile, a parte l'ipotesi del compimento degli atti esecutivi veri e propri (ipotesi considerata espressamente, come si e' detto, dall'articolo 56 c.p., comma 1 ultima parte), occorre aver riguardo piu' che all'idoneita' dei singoli atti, all'idoneita' dell'azione valutata nel suo complesso cosi' come appare cristallizzata in un determinato momento storico, tenuto conto di tutti gli elementi esterni ed interni, conosciuti e conoscibili. Solo se l'azione viene valutata unitariamente, puo' aversi un quadro d'insieme dei singoli atti che, se valutati singolarmente, possono anche sembrare in se' inidonei, ma che se inseriti in un piu' ampio contesto, appaiono per quelli che sono, ossia dei singoli anelli di una piu' complessa ed unica catena, l'uno funzionale all'altro per il compimento dell'azione finale destinata a sfociare nella consumazione del delitto programmato.

Si puo', quindi, concludere affermando che il legislatore del 1930, arretrando la soglia di punibilita' del tentativo, ha completamente ribaltato l'impostazione del codice Zanardelli in quanto ora sono punibili non solo gli atti di esecuzione veri e propri ma anche gli atti ad essi antecedenti che, per comodita' descrittiva, si possono continuare a chiamare ancora atti preparatori, a condizione pero' che posseggano quelle caratteristiche si cui si e' detto.

Si deve, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: "ai fini del tentativo punibile, assumono rilevanza penale non solo gli atti esecutivi veri propri del delitto pianificato, ma anche quegli atti che, pur essendo classificabili come atti preparatori, tuttavia, per le circostanze concrete (di luogo - di tempo - di mezzi ecc.) fanno fondatamente ritenere che l'azione - considerata come l'insieme dei suddetti atti - abbia la rilevante probabilita' di conseguire l'obiettivo programmato e che l'agente si trovi ormai ad un punto di non ritorno dall'imminente progettato delitto e che il medesimo sara' commesso a meno che non risultino percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualita', dovendosi, a tal fine, escludere solo quegli eventi imprevedibili non dipendenti dalla volonta' del soggetto agente atteso che costui ha solo un modo per dimostrare di avere receduto dal proposito criminoso: ossia la desistenza volontaria (articolo 56 c.p., comma 3) o il recesso attivo (articolo 56 c.p., comma 4)".

p. 4.1. Tanto premesso in diritto, dalla sentenza impugnata si evince che il fatto e' stato ricostruito nei termini di seguito indicati. A seguito di una fortuita segnalazione, la Polizia, sospettando che fosse in preparazione una rapina ai blindati della Mo. , inizio' l'intercettazione di alcune utenze telefoniche, nonche' servizi di pedinamento e appostamento.

Dalle suddette indagini, emerse che, in effetti, una banda di nove persone (gli imputati del presente processo e quelli gia' giudicati con la sentenza n 17988/2010 di questa Corte), stavano organizzando per il giorno (OMESSO) una rapina ai danni di un furgone blindato della Mo. che trasferiva presso il deposito di (OMESSO) il denaro raccolto presso vari punti commerciali.

Le indagini avevano permesso di chiarire il ruolo che ognuno dei nove avrebbe ricoperto nell'azione - le modalita' dell'azione - l'ora in cui la rapina sarebbe avvenuta.

Fu cosi' che la Polizia, anche per evitare una probabile sanguinosa rapina (alcuni dei componenti della banda erano coinvolti in altre rapine dello stesso genere conclusesi con omicidi), decise di intervenire ed arrestare tutte e nove le persone che si trovavano riunite ed appostate nel luogo stabilito per dare inizio all'assalto del furgone. In particolare, nella sentenza impugnata e' scritto: "Il gruppo tratto in arresto il (OMESSO) era composto da persone che per precedenti specifici, per condotte di vita, per essere indagati per analoghi fatti di reato, risultava dedito in via non occasionale alla organizzazione e consumazione di gravissimi reati. (...). Il gruppo era dotato di armi da guerra di micidiale potenza offensiva, di giubbotti antiproiettile utili nel caso non meramente ipotetico di dover ingaggiare un conflitto a fuoco, di radio ricetrasmittenti, di auto rubate e una anche taroccata, di un furgone pesante per bloccare il blindato portavalori, di flessibili dotati di compressore per forzare le lamiere del furgone, di liquido incendiario per dare fuoco alle auto dopo il loro utilizzo. Le macchine erano gia' operative e pronte per essere utilizzate avendo a bordo armi, munizioni, guanti per non lasciare impronte, erano occultate nelle immediate vicinanze del luogo di raduno della banda - il piazzale dell'Esselunga di (OMESSO) - ossia nel garage e nel cortile di M. . L'individuazione dell'obiettivo da rapinare era il frutto di uno studio accurato con pedinamento dei mezzi e appostamenti in loco, e soprattutto, era agevolata nell'esecuzione, dai contatti con C. - dipendente infedele della Mo. - che oltre a fornire loro importanti notizie sui movimenti degli automezzi navetta, si era prestato a manomettere l'impianto GPS cosi' da non permettere all'equipaggio di lanciare efficaci segnali d'allarme e alla centrale operativa di rimanere all'oscuro dell'assalto e da non localizzare l'automezzo. Era gia' stato posizionato nella mattinata del 6 dicembre il furgone Iveco Daily da utilizzare, come nelle pregresse vicende criminali, per bloccare, speronandolo, il portavalori. Si era potuto verificare una suddivisione di ruoli che vedeva in M. il capo, in C. il basista, in Bo. la persona deputata alla logistica e allo studio del colpo tanto da custodire il furgone Iveco, Sa. e Gi. erano giunti da (OMESSO) e avevano preso parte al posizionamento di questo automezzo nel punto in cui sarebbe dovuto avvenire l'assalto, in prossimita' dell'uscita dalla tangenziale. Nove persone erano convenute nel posto stabilito in assenza di alcuna valida ragione alternativa a quella dell'essere coinvolte nel progetto delittuoso, ed erano state tratte in arresto poco tempo prima che si muovessero per portarsi sul luogo di consumazione del reato. Le telefonate tra Bo. e la fidanzata, del resto, indicavano proprio in quella sera il momento culminante di tutta l'azione e, per lui, il momento in cui avrebbe potuto chiudere con quella vita e rifarsene un'altra in (OMESSO) insieme alla sua donna e grazie al bottino". La Corte territoriale, dopo essersi fatta carico dei motivi di gravame dei vari imputati, li ha disattesi rilevando che le difese "frazionano le singole azioni in modo da evitare che di esse venga data una lettura congiunta e unificatrice che invece e' il senso giuridico del concorso. E peraltro, chi degli imputati sarebbe dovuto essere all'oscuro dei piani: Gi. era arrivato insieme a Sa. due giorni prima e il (OMESSO) aveva partecipato a un incontro con M. e Bo. nel solito posto di riunione del parcheggio dell'Esselunga; At. si era incontrato con M. per la consegna del pecorino sardo; su Bo. non e' il caso di spendere ulteriori argomentazioni; Ma. era in giro con M. sin dalle otto del mattino non certo per bighellonare come ragazzini che hanno marinato la scuola, visto che M. seguiva le operazioni di posizionamento del furgone Iveco, cosa di molto rilievo per non far fallire il progetto, come accaduto in precedenza; Ca. era partito quella mattina con il volo da (OMESSO) dopo un contatto telefonico con M. e stava per atterrare a (OMESSO) dove veniva ricevuto da M. e Ma. in tempo piu' che sufficiente per essere messo al corrente degli ultimi particolari; la riunione interrotta dalla polizia non serviva, ragionevolmente, ad altro che a dettare gli ultimi dettagli con la indicazione da sergente maggiore di Bo. che li voleva tutti a posto. Poi, giusto il tempo di armarsi ed equipaggiarsi portandosi nel box di M. distante solo 4,5km e non ben, come troppo enfaticamente sottolineato dalle difese, tanto che Bo. e M. dicono di averlo scelto per le loro innocue chiacchierate giusto perche' vicino casa e cosi non disturbavano i famigliari. Per il resto, va fatto richiamo alla sentenza anche per cio' che attiene alla pretesa di riscontrare un'ipotesi di reato impossibile per la dotazione del cosiddetto sistema schiuma blocco. Basti rammentare che l'idoneita' va giudicata con prognosi postuma in base alle conoscenze di cui dispone l'agente nel momento in cui avvia il determinismo causale. Nozioni di scuola sorreggono l'assunto del Tribunale e condiviso dalla Corte". In questa sede, i ricorrenti, da una parte, reiterando gli argomenti di merito gia' proposti avanti ai giudici di merito, sostengono che non vi sarebbero elementi sufficienti per ritenere, ciascuno di essi, coinvolti, nella tentata rapina, dall'altra, sostengono che, a tutto concedere, il tentativo, proprio sotto il solo profilo giuridico, non sarebbe configurabile.

Quanto alle censure di merito, le medesime vanno tutte disattese, perche' la sentenza di appello, letta in uno con quella di primo grado, non evidenzia illogicita' e/o incongruenze, avendo chiarito il ruolo di ciascuno degli imputati nella progettata rapina ed avendo disatteso, sulla base di precisi riscontri fattuali (le indagini compiute dalla Polizia) che si trattava di tesi difensive prive della minima credibilita'. Pertanto, le doglianze riproposte in questa sede, vanno ritenute nulla piu' che un inammissibile tentativo di ottenere, in modo surrettizio, una rivalutazione di quegli stessi elementi di merito gia' presi ampiamente in esame da entrambi i giudici di merito. Quanto alla questione di diritto, secondo la tesi sostenuta da tutti gli imputati, il tentativo non sarebbe configurabile perche' l'azione tipica della rapina (il compimento di atti violenti) non era ancora iniziata quando furono arrestati: in quel momento, infatti, essi ben avrebbero potuto recedere dal proposito criminoso sicche' non potevano essere condannati per un'azione non commessa.

Il caso di specie, e' emblematico della problematica di diritto di cui si e' parlato.

Si e' chiarito che l'articolo 56 c.p. prevede e sanziona due ipotesi di tentativo: quello in cui l'azione non si verifica e quello in cui l'evento non si compie, per cause indipendenti dalla volonta' dell'agente (nel qual caso le due ipotesi, ai fini sanzionatoti, vengono assimilate) ovvero per resipiscenza dell'agente (nel qual caso, ai sensi dei commi 3 e 4, la sanzione varia).

Si e' anche chiarito che l'azione puo' essere considerata idonea quando, sulla base degli elementi fattuali in atti, puo' affermarsi che il programma criminoso dell'agente si e' ormai concluso e l'agente sta per passare alla fase operativa vera e propria. Nel caso di specie, da quanto emerge dalla sentenza impugnata, il piano operativo era stato completamente esaurito in quanto erano stati effettuati gli appostamenti ed erano stati predisposti i mezzi per eseguire il piano: il furgone Fiat era stato posizionato per lo speronamento; l'allarme Gps dei blindati da assaltare era stato disattivato; tutto l'armamentario necessario per perpetrare materialmente la rapina era disponibile; tutti gli uomini della banda si trovavano sul posto pronti ognuno di essi ad eseguire i compiti che era stato loro assegnato.

E' evidente, quindi, che, tutto era stato predisposto per passare alla fase esecutiva vera e propria (assalto al furgone che sarebbe passato da li' a poco).

Si verte, pertanto, nella prima delle ipotesi considerate: infatti, gli imputati non furono sorpresi ed arrestati mentre, ad es. eseguivano i pedinamenti del furgone blindato o mentre si approvvigionavano delle armi o mentre stavano discutendo delle modalita' operative e della distribuzione dei ruoli: in tale ipotesi, invero, sarebbe stato configurabile il reato impossibile per inidoneita' dell'azione ex articolo 49, comma 2.

Al contrario, vennero arrestati quando tutte le suddette operazioni prodromiche erano gia' state eseguite e, quindi, l'azione, in se' e per se' considerata, come correttamente ha rilevato la Corte territoriale, era ormai potenzialmente idonea al compimento della progettata rapina. Si sarebbe verificata invece la seconda ipotesi del tentativo ("se l'evento non si verifica") se gli imputati avessero iniziato l'assalto ossia avessero iniziato a compiere gli atti violenti richiesti dalla norma incriminatrice di cui all'articolo 628 c.p.): in tal caso, il tentativo si sarebbe potuto ipotizzare ove, per una causa estranea ed imprevista (ad es. intervento delle forze dell'ordine), l'evento non avrebbe potuto essere portato a termine.

Le due ipotesi, pero', ai fini sanzionatori, sono equiparate. Ed e' del tutto vano che gli imputati sostengano che ben avrebbero potuto recedere: cio' che, in realta', rileva e' che nessuno di essi lo fece perche' tale intenzione non puo' essere solo ipotizzata ma deve trovare un concreto riscontro fattuale che, nel caso in esame, manca del tutto. In conclusione, le censure proposte da tutti gli imputati (Ca. : motivi sub 2-3; Gi. : motivo unico; Ma. : motivi sub 1 - 2; Bo. motivi sub 1-2; C. motivo sub 1) in ordine alla violazione dell'articolo 56 c.p. vanno tutte disattese, avendo la Corte territoriale correttamente applicato il principio di diritto supra enunciato.

p. 5. CA. .

p. 5.1. violazione dell'articolo 415 bis c.p.p. (motivo sub 1): lo stesso ricorrente afferma che, nell'istanza rivolta al P.m., aveva chiesto di essere esaminato (cfr pag. 2 ricorso). Posta nei seguenti termini, la doglianza e' infondata. L'articolo 415 bis c.p.p., comma 3 dispone che l'indagato ha facolta', entro il termine di venti giorni dall'avviso delle conclusioni delle indagini preliminari: 1) di presentarsi per rilasciare dichiarazioni 2) di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio: in tale ultima ipotesi "il pubblico ministero deve procedervi".

La Corte sostiene che l'imputato, tramite il proprio difensore non aveva chiesto di essere interrogato ma aveva formulato una richiesta diversa sulla quale il pubblico ministero non aveva obbligo di rispondere o di provvedere: il ricorrente, infatti, aveva chiesto di essere esaminato ai sensi dell'articolo 468 c.p.p..

La decisione della Corte territoriale deve ritenersi corretta in considerazione della natura e del contenuto dell'istanza che indicava un istituto (l'esame: cfr articolo 503 c.p.p.) riguardante il dibattimento ed avente un contenuto del tutto diverso dall'interrogatorio (cfr articoli 64 - 65 c.p.p.) previsto dalla norma di riferimento (articolo 415 bis c.p.p.). E' vero che sussiste il principio dell'interpretazione (e conservazione) degli atti ma e' anche vero che l'autorita' giudiziaria (nella specie il P.m.), a fronte di una richiesta - tanto piu' ove proveniente da un tecnico del diritto - ambigua, contraddittoria e non avente riscontro in alcuna norma processuale, non e' tenuta ad interpretarla essendo, pertanto, legittimata a disattenderla non dandovi corso.

p. 5.2. violazione dell'articolo 648 c.p. (motivo sub 4): la Corte territoriale, avanti alla quale la stessa doglianza era stata sollevata, l'ha disattesa osservando che "prestando il consenso alla rapina ogni complice ha percio' stesso acquisito la disponibilita' collegiale e giuridica delle armi funzionali al reato (...)" nonche' la disponibilita' "dei beni indicati sub a) tutti di provenienza delittuosa, in tal modo ricettandoli".

La motivazione sia dal punto di vista giuridico che fattuale e' ineccepibile in quanto, una volta accertato che l'imputato era ben consapevole di partecipare ad una rapina per la consumazione della quale si sarebbe dovuto far uso di tutto quell'armamentario, e' chiaro che risponde non solo del tentativo di rapina ma anche della ricettazione (nella specie sotto il profilo di "ricevere") di tutti quelle cose provento di reato che sarebbero servite per la consumazione del programmato reato.

p. 5.3. violazione dell'articolo 62 bis c.p. (motivo sub 5): la Corte ha respinto la richiesta di concessione delle attenuanti generiche "a fronte di precedenti penali per gravi fatti di reato dimostrativi di un inserimento nel circuito criminale piuttosto che di una volonta' di rimanervi al di fuori". La motivazione non si presta ad alcuna censura sotto il profilo di legittimita' anche a fronte della generica doglianza proposta.

p. 6. BO. .

p. 6.1. violazione degli articoli 266 - 271 c.p.p. (motivo sub 5): la censura e' fondata. Come si desume dalla impugnata sentenza, nel corso delle intercettazioni telefoniche autorizzate per la sola rapina, emersero indizi a carico dell'imputato anche per i reati di cui ai capi E (articolo 367 c.p.) ed F (articolo 642 c.p.).

La decisione della Corte territoriale, in ordine all'utilizzabilita' delle suddette intercettazioni anche per i reati di cui agli articoli 367 e 642 c.p., non e' condivisibile, ritenendo questa Corte di dare continuita' a quella giurisprudenza di legittimita' secondo la quale "In tema di intercettazione di comunicazioni o conversazioni, la circostanza che non possano considerarsi pertinenti a "diverso procedimento" risultanze concernenti fatti strettamente connessi a quello cui si riferisce l'autorizzazione giudiziale, e che dunque non rilevino i limiti di utilizzabilita' fissati all'articolo 270 c.p.p., non esclude che siano applicabili, anche a tale proposito, le condizioni generali cui la legge subordina l'ammissibilita' delle intercettazioni. Ne consegue che, quando nel corso di intercettazioni autorizzate per un dato reato emergono elementi concernenti fatti strettamente connessi al primo, detti elementi possono essere utilizzati solo nel caso in cui, per il reato cui si riferiscono, il controllo avrebbe potuto essere autonomamente disposto a norma dell'articolo 266 c.p.p." Cass. 4942/2004 riv 229999 - Cass. 12562/2010 riv 246594. La soluzione qui accolta, poi, trova, nel caso di specie, un ulteriore argomento derivante dal fatto che, pacificamente, fra i reati in questione e quello di rapina non vi e' alcuna connessione probatoria ma solo soggettiva. Da quanto detto consegue:

- l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza, limitatamente ai suddetti reati in quanto, come si evince dalla motivazione, l'unica fonte di prova e' costituita proprio dal contenuto delle intercettazioni;

- l'eliminazione delle relative pene per complessivi gg 30 ed euro 90,00 di multa (cfr sentenza di primo grado).

p. 7. C. .

p. 7.1. violazione delle norme in ordine al trattamento sanzionatorio (motivo sub 2): la Corte territoriale ha disatteso la richiesta non solo criticando il Tribunale per aver concesso le attenuanti generiche (sebbene equivalenti) - del che non si poteva che prenderne atto - ma osservando che, in considerazione del ruolo svolto dall'imputato (sabotatore del sistema di allarme dei furgoni blindati), costui aveva "commesso un'azione eticamente spregevole" e concludendo, sia pure implicitamente che il trattamento sanzionatorio doveva ritenersi piu' che adeguato. Anche la suddetta motivazione non si presta alla generica censura dedotta in questa sede, dovendosi ritenere che la Corte abbia correttamente ed adeguatamente motivato la reiezione dell'istanza.

p. 8. AT. .

Il ricorso presentato da At. e' inammissibile non avendo il ricorrente presentato alcun motivo.



P.Q.M.



ANNULLA

Senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Bo. Se. limitatamente ai reati di cui ai capi E) ed F) perche' i fatti non sussistono. Elimina le relative pene per complessivi giorni 30 di reclusione ed euro 90,00 di multa, nonche' la condanna al risarcimento e rifusione delle spese in favore della costituita parte civile Navale Ass.ni spa. Rigetta il ricorso del Bo. nel resto.



Dichiara inammissibile il ricorso di At. Ed. e rigetta gli altri ricorsi. Condanna At. - Gi. - Ca. - Ma. - C. al pagamento delle spese processuali e At. anche della somma di euro 1.000,00 alla cassa delle ammende.

Condanna tutti i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile Mo. No. srl liquidate in complessivi euro 5.054,40 come da nota spese.




Da: Benedetta16/12/2010 13:35:19
Da: enrico56 16/12/2010 13.27.26
qualcuno potrebbe postare questa sentenza per cortesia?
Non riesco a trovarla.
Cassazione, Sez. II, 25 ottobre 2010, n. 37843


Rapina tentata: distinzione tra tentativo compiuto e tentativo non compiuto Cassazione, Sez. II, 25 ottobre 2010, n. 37843     





RAPINA TENTATA: DISTINZIONE TRA TENTATIVO COMPIUTO E TENTATIVO NON COMPIUTO

Cassazione, Sez. II, 25 ottobre 2010, n. 37843



1. Il punto di partenza, per una corretta esegesi dell'articolo 56 c.p., non puo' che essere il dato storico: come si e' detto, fu proprio per evitare le incertezze interpretative derivanti dall'individuare quali fossero i mezzi che potevano essere considerati inizio dell'esecuzione criminosa (problema che diventava quasi irresolubile per i reati a forma libera) che il legislatore del 1930 s'indusse ad abbandonare la formula che parlava di "cominciamento" "mezzi" "esecuzione".

2. Nel nuovo articolo 56 c.p., infatti, non si parla piu' di mezzi ma di atti idonei (in contrapposizione agli atti inidonei di cui all'articolo 49 c.p., comma 2) e di azione che non si compie o di evento che non si verifica.

3. Ora, siccome l'azione e' quell'attivita' umana composta da uno o piu' atti, ne deriva, proprio sul piano logico (oltre che semantico) che il tentativo e' punibile non solo quando l'esecuzione e' compiuta ma anche quando l'agente ha compiuto uno o piu' atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volonta' di voler compiere un determinato delitto.

Sul punto, e' lo stesso articolo 56 c.p. che offre utili spunti di riflessione nella parte in cui dispone che il delitto tentato si verifica in due ipotesi: 1) quando l'azione non si compie (c.d. tentativo non compiuto); 2) quando l'evento non si verifica (ed tentativo compiuto).





Cassazione, Sez. II, 25 ottobre 2010, n. 37843

(Pres. Bardovagni - Rel. Geppino)





FATTO

p. 1. Con sentenza del 13/07/2009, la Corte di Appello di Milano confermava, in punto di responsabilita', la sentenza pronunciata in data 17/07/2008 dal Tribunale della medesima citta' con la quale C. N. - GI. Ag. - CA. An. - BO. Se. - MA. Gi. e AT. Ed. erano stati ritenuti responsabili dei delitti di ricettazione e tentata rapina aggravata.

p. 2. Avverso la suddetta sentenza, tutti i suddetti imputati hanno proposto ricorso per cassazione.

p. 2.1. GI. ha dedotto violazione degli articoli 56 e 628 c.p. per avere la Corte ritenuto la configurabilita' del tentativo, nonostante fosse stato arrestato in un momento in cui la presunta progettata rapina al furgone portavalori della Mo. non fosse ancora in esecuzione. Infatti, il suddetto furgone sarebbe passato dal luogo dove egli, insieme agli altri coimputati, fu sorpreso dalla Polizia, solo dopo due ore, e le armi con tutta l'attrezzatura per eseguire la rapina erano ricoverate in un box - nella disponibilita' di uno dei coimputati - che si trovava ad una distanza di circa km 4,5. In altri termini, ci si trovava di fronte ad atti meramente preparatori e non esecutivi che non avevano alcuna idoneita' causale a ledere il bene giuridico protetto. Infatti, la suddetta riunione non era altro che il momento in cui avrebbe dovuto perfezionarsi l'accordo a commettere il delitto, delitto dal quale, pero', esso ricorrente ben avrebbe potuto pur sempre ancora desistere.

p. 2,2. CA. ha dedotto i seguenti motivi:

1. Violazione dell'articolo 415 bis c.p.p. per non essere stato sentito dal P.m. nonostante lo avesse espressamente richiesto;

2. Illogicita' della motivazione per non avere la Corte territoriale creduto alla tesi difensiva secondo la quale esso ricorrente si trovava sul luogo dell'arresto solo per una "disgraziata circostanza fortuita" nonostante la suddetta tesi fosse stata confermata da prove testimoniali e documentali. La Corte, infatti, aveva tratto il suo convincimento sulla base di illazioni prive di alcun riscontro anche solo presuntivo, trascurando di dare conto degli elementi favorevoli indicati dalla difesa;

3. Violazione degli articoli 56 e 628 c.p. si tratta dello stesso motivo proposto dal Gi. ;

4. violazione dell'articolo 648 c.p. per avere la Corte ritenuto la configurabilita' del reato di ricettazione delle armi e del furgone che sarebbero serviti per la rapina, nonostante esso ricorrente non avesse mai avuto la disponibilita' delle armi ne' fosse intervenuto nell'acquisito o ricevimento dei suddetti beni;

5. violazione dell'articolo 62 bis c.p. per non avere la Corte concesso la suddetta attenuante nonostante fossero state indicate le ragioni che avrebbero dovuto indurre la Corte ad accogliere la richiesta (eccessivita' della pena - minore intensita' del dolo e alla partecipazione nel fatto).

p. 2.3. Ma. , ha dedotto i seguenti motivi:

1. violazione degli articoli 56 - 628 c.p. si tratta dello stesso motivo dedotto dal Gi. ;

2. violazione dell'articolo 192 c.p.p., comma 2 per avere la Corte territoriale ritenuto la responsabilita' di esso ricorrente sulla base di elementi che non presentavano i requisiti della gravita', precisione e concordanza. Invero, il nome del Ma. risultava solo nell'intercettazione telefonica del (OMESSO) (ossia il giorno della tentata rapina), alle ore 7,52 quando venne contattato dal M. (uno dei coimputati) il quale gli chiese di rendersi disponibile tutto il giorno. Tuttavia, esso ricorrente rispose che poteva esserlo fino alle ore 16,30, orario in cui doveva recarsi a prelevare i bambini a scuola. Ed era poi significativo il fatto che "ne' il giudice ne' l'attivita' investigativa riescono a chiarire con quali modalita' e funzioni il Ma. sarebbe stato introdotto nella struttura criminale". In particolare, quanto al preteso ruolo avuto nella manomissione della centralina dei furgoni navetta, nulla era stato provato, anche perche' non era neppure certo che fossero state manomesse ed i testi B. e Va. , incaricati dalla Mo. di effettuare una perizia sulla centralina di uno dei furgoni, aveva reso dichiarazioni discordanti e prive di credibilita' scientifica tant'e' che esso ricorrente aveva provveduto a querelare il legale rappresentante della Mo. per simulazione di reato e calunnia.

p. 2.4. BO. ha dedotto i seguenti motivi:

1. violazione degli articoli 56 e 628 c.p. si tratta dello stesso motivo dedotto dal Gi. ;

2. violazione dell'articolo 192 c.p.p., comma 2 per avere la Corte territoriale ritenuto la responsabilita' di esso ricorrente sulla base di elementi che non presentavano i requisiti della gravita', precisione e concordanza. Infatti, il preteso ruolo di addetto alla logistica e di collaboratore del M. alla studio e all'organizzazione della rapina, era ancorato ad un ordito indiziario privo di alcun pregio giuridico;

3. violazione degli articoli 266 e 271 c.p.p. per avere la Corte territoriale desunto la responsabilita' in ordine ai delitti di cui agli articoli 367 e 642 c.p. da colloqui telefonici intercettati ma che erano stati disposti in relazione alla rapina aggravata. Ad avviso del ricorrente, quindi, poiche' per i suddetti reati, che prevedevano una pena edittale inferiore nel massimo a cinque anni, non era possibile disporre intercettazioni telefoniche, allora, quelle conversazioni captate per un altro reato per il quale l'intercettazione era stata legittimamente autorizzata non avrebbe potuto essere utilizzata come prova.

p. 2.5. C. , ha dedotto i seguenti motivi:

1. contraddittorieta' e illogicita' della motivazione per avere la Corte territoriale ritenuto provata la penale responsabilita' per il delitto di concorso in tentata rapina aggravata pur avendo esso ricorrente offerto "una piu' che plausibile spiegazione alternativa" all'ipotesi accusatoria in ordine alla sua conoscenza con il Di. Do. (altro coimputato), all'incontro avuto con il M. , all'impossibilita' di manomettere l'impianto GPS non avendo mai egli ricoperto il ruolo di capo equipaggio il quale solo aveva la possibilita' di intervenire sul sistema;

2. violazione delle norme in ordine al trattamento sanzionatorio: si duole il ricorrente che, in modo illogico, era stata ritenuta la semplice equivalenza fra la circostanza aggravante di cui all'articolo 61 c.p., n. 7 e le attenuanti generiche e che il trattamento sanzionatorio, in violazione delle regole di cui all'articolo 133 c.p., era stato eccessivo tenuto conto che si trattava di rapina tentata e che non era stata valutata in modo equanime la complessiva personalita' di esso ricorrente.

p. 2.6. AT. non ha presentato alcun motivo.

DIRITTO

p. 3. violazione degli articoli 56 e 628 c.p.: in via di stretto diritto, in ordine ai principi applicabili in tema di tentativo, va affermato quanto segue.

L'articolo 56 c.p., disciplina il tentativo nei delitti e, essendo una fattispecie autonoma rispetto al reato consumato (ex plurimis Cass. 13/6/2001 riv 220330), richiede, come tutti i reati, la sussistenza sia dell'elemento soggettivo che oggettivo.

L'elemento soggettivo e' identico al dolo del reato che il soggetto agente si propone di compiere.

L'elemento oggettivo, invece, presenta spiccate peculiarita' in quanto ruota intorno a tre concetti:

- l'idoneita' degli atti;

- l'univocita' degli atti;

- il mancato compimento dell'azione o il mancato verificarsi dell'evento.

La linea di demarcazione fra la semplice intenzione non punibile (secondo il vecchio brocardo cogitationis poenam nemo patitur) e quella punibile si snoda proprio attraverso l'esatta comprensione dei suddetti principi.

Una premessa di natura sistematica: sebbene l'articolo 56 c.p. sia l'unica norma che disciplini espressamente il tentativo, tuttavia, utili argomenti si possono trarre, ai fini sistematici, anche dall'articolo 115 c.p. a norma del quale "qualora due o piu' persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di essa e' punibile per il solo fatto dell'accordo".

La suddetta norma, evidenzia, quindi, in modo plastico, il principio secondo il quale anche un semplice accordo a commettere un delitto (e, quindi, a fortiori, il semplice averlo pensato) non e' punibile (salva l'applicazione della misura di sicurezza) ponendosi all'estremo opposto del delitto consumato.

Ma e' proprio fra questi due estremi, ossia fra la semplice cogitatio o accordo (non punibile) ed il delitto consumato che si colloca la problematica del delitto tentato che consiste, appunto, nello stabilire quando un'azione, avendo superato la soglia della mera cogitatio, pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, dev'essere ugualmente punibile.

Il codice penale del 1889 (c.d. codice Zanardelli), influenzato dal codice napoleonico, all'articolo 61, punendo "colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione", poneva la soglia di punibilita' del delitto programmato nel momento in cui l'agente avesse cominciato l'esecuzione dell'azione: da qui, la distinzione fra atti preparatori non punibili ed atti di esecuzione punibili.

La distinzione, pero', creo' notevoli problemi interpretativi tanto che il legislatore del 1930 - peraltro anche per precise ragioni ideologiche - abbandono' espressamente il suddetto criterio, introducendo l'attuale articolo 56 c.p. che ruota intorno a due criteri: l'idoneita' e la inequivocita' degli atti compiuti dall'agente, nel senso che, solo ove l'azione presenti le suddette caratteristiche, l'agente puo' essere punito a titolo di tentativo.

Il dibattito (dottrinale e giurisprudenziale), pero', si e' riacutizzato perche', mentre prima la domanda era quali fossero i criteri per stabilire la differenza fra atti preparatori (non punibili) ed atti di esecuzione (punibili), ora la questione consiste nell'individuare la linea di confine che separa il semplice accordo (o la mera cogitatio), non punibile, dagli atti idonei inequivoci, punibili. In ordine al concetto di idoneita' degli atti (e non del mezzo come prescriveva il codice Zanardelli), l'opinione maggioritaria sia della dottrina che della stessa giurisprudenza di questa Corte, e' alquanto compatta nel ritenere che un atto si puo' ritenere idoneo quando, valutato ex ante ed in concreto (c.d. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo (ed criterio di valutazione su base parziale: ex plurimis Cass. 9/12/1996, Tansino, rv 206562), il giudice, sulla base della comune esperienza dell'uomo medio, possa ritenere che quegli atti - indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei - erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata: ex plurimis Cass. 40058/2008 riv 241649 (in motivazione) - Cass. 43255/2009 riv 245721 - Cass. 27323/2008 riv 240736 - Cass. 34242/2009 riv 244915.

Tanto risulta confermato anche dall'articolo 49 c.p., comma 2 che e' la norma speculare dell'articolo 56 c.p. nella parte in cui dispone la non punibilita' per l'inidoneita' dell'azione. Piu' controversa e' la nozione di univocita' degli atti. Secondo una prima tesi "anche gli atti preparatori possono configurare l'ipotesi del tentativo, allorquando essi rivelino, sulla base di una valutazione ex ante e indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei, l'adeguatezza causale nella sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto, dimostrando contemporaneamente, per la loro essenza ed il contesto nel quale s'inseriscono, l'intenzione dell'agente di commettere il delitto": Cass. 27323/2008 riv. 240736 - Cass. 43255/2009 Rv. 245720 "L'atto preparatorio puo' integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacita', sulla base di una valutazione "ex ante" e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto" - Cass. 40702/2009 Rv. 245123.

E' la c.d. tesi soggettiva in base alla quale, appunto, la prova del requisito dell'univocita' dell'atto puo' essere raggiunta non solo sulla base dell'atto in se' considerato ma anche aliunde e, quindi, anche sulla base di semplici atti preparatori qualora rivelino la finalita' che l'agente intendeva perseguire.

Ad avviso, invece, di un'altra tesi, "gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, come inizio di esecuzione, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata, in quanto la univocita' degli atti indica non un parametro probatorio, ma un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta; ne consegue che non sono punibili, a titolo di tentativo, i meri atti preparatori": Cass. 9411/2010 Rv. 246620 - Cass. 40058/2008 cit. - Cass. 36283/2003 riv 228310 - Cass. 43406/2001 riv 220144.

"Se e' vero, infatti, che il legislatore del 1930, obbedendo a sollecitazioni politiche dell'epoca, aveva ritenuto di allargare l'area del tentativo punibile redigendo il testo dell'articolo 56 c.p., non e' men vero che gran parte della dottrina e della giurisprudenza hanno dimostrato l'illusorieta' del proposito che, con quel mezzo, si intendeva attuare. Cio' perche' atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se l'idoneita' di un atto puo' denotare al piu' la potenzialita' dell'atto a conseguire una pluralita' di risultati, soltanto dall'inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa puo' dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente": Corte Cost 177/1980.

E' la c.d. tesi oggetti va secondo la quale gli atti possono essere considerati univoci ogni qualvolta, valutati in quel singolo contesto, rivelano, in se' e per se' considerati, l'intenzione dell'agente (ed criterio di essenza). Per questa tesi, quindi, "la "direzione non equivoca" indica, infatti, non un parametro probatorio, bensi' un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per se' rivelare l'intenzione dell'agente. L'univocita', intesa come criterio di "essenza", non esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettivita' per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e l'id quod plerumque accidit, l'intenzione, il fine perseguito dall'agente": Cass. 40058/2008 cit..

E' evidente il punto di frizione fra le due tesi. Infatti, mentre per la tesi soggettiva, l'univocita' va valutata sulla base delle circostanze concrete (con la conseguenza che si determina, sul piano della repressione penale, un arretramento della soglia di punibilita', in quanto anche gli atti in se' preparatori, possono, a determinate condizioni, essere considerati univoci), al contrario per la tesi oggettiva, l'univocita' coincide con l'inizio degli atti tipici di un determinato reato (con conseguente spostamento in avanti della soglia di punibilita', escludendosi l'univocita' degli atti meramente preparatori).

Questa Corte ritiene che la tesi ed oggettiva non sia condivisibile perche', riproponendo, di fatto, l'antica problematica di cui si discuteva sotto il codice Zanardelli, opera un'interpretazione abrogans della nuova normativa, lasciando insoluti, in specie per i reati a forma libera, quegli stessi interrogativi che avevano indotto il legislatore del 1930 a rivedere radicalmente l'intera normativa. Infatti, nella Relazione al progetto definitivo al codice penale, si trova scritto: "innovazioni radicali sono state introdotte nella disciplina del tentativo, sopprimendo la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi".

Si ritiene, quindi, che la tesi piu' corretta sia quella soggettiva per i motivi di seguito indicati.

Il punto di partenza, per una corretta esegesi dell'articolo 56 c.p., non puo' che essere il dato storico: come si e' detto, fu proprio per evitare le incertezze interpretative derivanti dall'individuare quali fossero i mezzi che potevano essere considerati inizio dell'esecuzione criminosa (problema che diventava quasi irresolubile per i reati a forma libera) che il legislatore del 1930 s'indusse ad abbandonare la formula che parlava di "cominciamento" "mezzi" "esecuzione".

Nel nuovo articolo 56 c.p., infatti, non si parla piu' di mezzi ma di atti idonei (in contrapposizione agli atti inidonei di cui all'articolo 49 c.p., comma 2) e di azione che non si compie o di evento che non si verifica.

La terminologia adoperata dal legislatore e' molto importante: una cosa e' parlare di cominciamento dell'esecuzione con mezzi idonei, altro e' parlare di azione non compiuta e di atti idonei a commettere il delitto.

E' evidente, infatti, l'arretramento della soglia di punibilita', laddove si consideri che i termini "azione" ed "atti", indicano, proprio a livello semantico, una maggiore estensione rispetto alla piu' ristretta categoria degli atti esecutivi.

In altri termini, il legislatore ha focalizzato la sua attenzione non solo sull'esecuzione ma anche sull'azione.

Ora, siccome l'azione e' quell'attivita' umana composta da uno o piu' atti, ne deriva, proprio sul piano logico (oltre che semantico) che il tentativo e' punibile non solo quando l'esecuzione e' compiuta ma anche quando l'agente ha compiuto uno o piu' atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volonta' di voler compiere un determinato delitto.

Sul punto, e' lo stesso articolo 56 c.p. che offre utili spunti di riflessione nella parte in cui dispone che il delitto tentato si verifica in due ipotesi: 1) quando l'azione non si compie (c.d. tentativo non compiuto); 2) quando l'evento non si verifica (ed tentativo compiuto).

Sebbene si sia soliti attribuire poca importanza alla suddetta distinzione, in quanto la si assimila a quella del codice Zanardelli fra "delitto tentato" e delitto mancato" (peraltro sanzionato piu' gravemente), il dato di fatto semanticamente rilevante e' che non si parla di "delitto tentato o mancato" ma di azione non compiuta e di evento non verificatosi.

Il suddetto dato non puo' non avere una sua rilevanza giuridica.

Infatti, quando la legge adopera la locuzione "evento che non si verifica" e' chiaro che ipotizza il caso dell'agente che ha compito l'esecuzione degli atti tipici del delitto programmato, ma che questo non si e' verificato per un fatto indipendente dalla sua volonta' (ad es. l'agente ha sparato a Tizio ma questi, all'ultimo momento, casualmente, si e' spostato, facendo, quindi, fallire l'attentato). Se, quindi, la legge ha gia' previsto la punibilita' dell'esecuzione degli atti di un delitto, quando prevede la punibilita' anche dell'azione, necessariamente non puo' che far riferimento ad un qualcosa che precede l'esecuzione vera e propria, ossia quell'insieme di atti (o semplice atto) che, sebbene non esecutivi, valutati unitariamente, abbiano l'astratta attitudine a produrre il delitto programmato. L'azione, lo si ripete, e' un termine molto ampio ed indica il risultato finale del compimento di un atto o piu' atti, e contiene, in se', tutti gli elementi che consentono di affermare, sia pure ex post, che quell'azione era idonea, ove portata a termine (rectius: eseguita) a perpetrare il delitto programmato.

Cio', quindi, permette di affermare che ci si trova di fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi in cui l'agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Quanto appena detto, trova una conferma negli speculari commi terzo e quarto dell'articolo 56 che, ancora una volta, confermano i due livelli del tentativo punibile (sanzionati in modo differente): la desistenza dell'azione nel senso sopra specificato, nel quale caso, la norma prevede che l'agente risponde degli atti compiuti solo se questi costituiscano un reato diverso; l'impedimento, da parte dell'agente, dell'evento determinato dal compimento degli atti esecutivi veri e propri, nel quale caso, l'agente risponde pur sempre del tentativo, sebbene con una diminuzione della pena.

E' evidente, quindi, che, anche a livello sanzionatorio, la legge ha voluto distinguere le due tipologie di tentativi che, se non vengono attuati per cause indipendenti dalla volonta' dell'agente, vengono puniti allo stesso modo (comma 1), mentre se il delitto non si verifica per la resipiscenza dell'agente, vengono sanzionati diversamente rendendo, pertanto, palese che l'azione che non si compie (o dalla quale l'agente desiste) e' un qualcosa che precede l'evento che non si verifica (o compie).

Ed ulteriore conferma puo' trarsi dall'articolo 49 c.p., comma 2 (che rappresenta, per cosi' dire, il lato speculare e contrario dell'articolo 56 c.p.) che esclude la punibilita' per "l'inidoneita' dell'azione" non degli atti esecutivi: il che significa che, per stabilire se ci si trova di fronte ad un tentativo punibile, a parte l'ipotesi del compimento degli atti esecutivi veri e propri (ipotesi considerata espressamente, come si e' detto, dall'articolo 56 c.p., comma 1 ultima parte), occorre aver riguardo piu' che all'idoneita' dei singoli atti, all'idoneita' dell'azione valutata nel suo complesso cosi' come appare cristallizzata in un determinato momento storico, tenuto conto di tutti gli elementi esterni ed interni, conosciuti e conoscibili. Solo se l'azione viene valutata unitariamente, puo' aversi un quadro d'insieme dei singoli atti che, se valutati singolarmente, possono anche sembrare in se' inidonei, ma che se inseriti in un piu' ampio contesto, appaiono per quelli che sono, ossia dei singoli anelli di una piu' complessa ed unica catena, l'uno funzionale all'altro per il compimento dell'azione finale destinata a sfociare nella consumazione del delitto programmato.

Si puo', quindi, concludere affermando che il legislatore del 1930, arretrando la soglia di punibilita' del tentativo, ha completamente ribaltato l'impostazione del codice Zanardelli in quanto ora sono punibili non solo gli atti di esecuzione veri e propri ma anche gli atti ad essi antecedenti che, per comodita' descrittiva, si possono continuare a chiamare ancora atti preparatori, a condizione pero' che posseggano quelle caratteristiche si cui si e' detto.

Si deve, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: "ai fini del tentativo punibile, assumono rilevanza penale non solo gli atti esecutivi veri propri del delitto pianificato, ma anche quegli atti che, pur essendo classificabili come atti preparatori, tuttavia, per le circostanze concrete (di luogo - di tempo - di mezzi ecc.) fanno fondatamente ritenere che l'azione - considerata come l'insieme dei suddetti atti - abbia la rilevante probabilita' di conseguire l'obiettivo programmato e che l'agente si trovi ormai ad un punto di non ritorno dall'imminente progettato delitto e che il medesimo sara' commesso a meno che non risultino percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualita', dovendosi, a tal fine, escludere solo quegli eventi imprevedibili non dipendenti dalla volonta' del soggetto agente atteso che costui ha solo un modo per dimostrare di avere receduto dal proposito criminoso: ossia la desistenza volontaria (articolo 56 c.p., comma 3) o il recesso attivo (articolo 56 c.p., comma 4)".

p. 4.1. Tanto premesso in diritto, dalla sentenza impugnata si evince che il fatto e' stato ricostruito nei termini di seguito indicati. A seguito di una fortuita segnalazione, la Polizia, sospettando che fosse in preparazione una rapina ai blindati della Mo. , inizio' l'intercettazione di alcune utenze telefoniche, nonche' servizi di pedinamento e appostamento.

Dalle suddette indagini, emerse che, in effetti, una banda di nove persone (gli imputati del presente processo e quelli gia' giudicati con la sentenza n 17988/2010 di questa Corte), stavano organizzando per il giorno (OMESSO) una rapina ai danni di un furgone blindato della Mo. che trasferiva presso il deposito di (OMESSO) il denaro raccolto presso vari punti commerciali.

Le indagini avevano permesso di chiarire il ruolo che ognuno dei nove avrebbe ricoperto nell'azione - le modalita' dell'azione - l'ora in cui la rapina sarebbe avvenuta.

Fu cosi' che la Polizia, anche per evitare una probabile sanguinosa rapina (alcuni dei componenti della banda erano coinvolti in altre rapine dello stesso genere conclusesi con omicidi), decise di intervenire ed arrestare tutte e nove le persone che si trovavano riunite ed appostate nel luogo stabilito per dare inizio all'assalto del furgone. In particolare, nella sentenza impugnata e' scritto: "Il gruppo tratto in arresto il (OMESSO) era composto da persone che per precedenti specifici, per condotte di vita, per essere indagati per analoghi fatti di reato, risultava dedito in via non occasionale alla organizzazione e consumazione di gravissimi reati. (...). Il gruppo era dotato di armi da guerra di micidiale potenza offensiva, di giubbotti antiproiettile utili nel caso non meramente ipotetico di dover ingaggiare un conflitto a fuoco, di radio ricetrasmittenti, di auto rubate e una anche taroccata, di un furgone pesante per bloccare il blindato portavalori, di flessibili dotati di compressore per forzare le lamiere del furgone, di liquido incendiario per dare fuoco alle auto dopo il loro utilizzo. Le macchine erano gia' operative e pronte per essere utilizzate avendo a bordo armi, munizioni, guanti per non lasciare impronte, erano occultate nelle immediate vicinanze del luogo di raduno della banda - il piazzale dell'Esselunga di (OMESSO) - ossia nel garage e nel cortile di M. . L'individuazione dell'obiettivo da rapinare era il frutto di uno studio accurato con pedinamento dei mezzi e appostamenti in loco, e soprattutto, era agevolata nell'esecuzione, dai contatti con C. - dipendente infedele della Mo. - che oltre a fornire loro importanti notizie sui movimenti degli automezzi navetta, si era prestato a manomettere l'impianto GPS cosi' da non permettere all'equipaggio di lanciare efficaci segnali d'allarme e alla centrale operativa di rimanere all'oscuro dell'assalto e da non localizzare l'automezzo. Era gia' stato posizionato nella mattinata del 6 dicembre il furgone Iveco Daily da utilizzare, come nelle pregresse vicende criminali, per bloccare, speronandolo, il portavalori. Si era potuto verificare una suddivisione di ruoli che vedeva in M. il capo, in C. il basista, in Bo. la persona deputata alla logistica e allo studio del colpo tanto da custodire il furgone Iveco, Sa. e Gi. erano giunti da (OMESSO) e avevano preso parte al posizionamento di questo automezzo nel punto in cui sarebbe dovuto avvenire l'assalto, in prossimita' dell'uscita dalla tangenziale. Nove persone erano convenute nel posto stabilito in assenza di alcuna valida ragione alternativa a quella dell'essere coinvolte nel progetto delittuoso, ed erano state tratte in arresto poco tempo prima che si muovessero per portarsi sul luogo di consumazione del reato. Le telefonate tra Bo. e la fidanzata, del resto, indicavano proprio in quella sera il momento culminante di tutta l'azione e, per lui, il momento in cui avrebbe potuto chiudere con quella vita e rifarsene un'altra in (OMESSO) insieme alla sua donna e grazie al bottino". La Corte territoriale, dopo essersi fatta carico dei motivi di gravame dei vari imputati, li ha disattesi rilevando che le difese "frazionano le singole azioni in modo da evitare che di esse venga data una lettura congiunta e unificatrice che invece e' il senso giuridico del concorso. E peraltro, chi degli imputati sarebbe dovuto essere all'oscuro dei piani: Gi. era arrivato insieme a Sa. due giorni prima e il (OMESSO) aveva partecipato a un incontro con M. e Bo. nel solito posto di riunione del parcheggio dell'Esselunga; At. si era incontrato con M. per la consegna del pecorino sardo; su Bo. non e' il caso di spendere ulteriori argomentazioni; Ma. era in giro con M. sin dalle otto del mattino non certo per bighellonare come ragazzini che hanno marinato la scuola, visto che M. seguiva le operazioni di posizionamento del furgone Iveco, cosa di molto rilievo per non far fallire il progetto, come accaduto in precedenza; Ca. era partito quella mattina con il volo da (OMESSO) dopo un contatto telefonico con M. e stava per atterrare a (OMESSO) dove veniva ricevuto da M. e Ma. in tempo piu' che sufficiente per essere messo al corrente degli ultimi particolari; la riunione interrotta dalla polizia non serviva, ragionevolmente, ad altro che a dettare gli ultimi dettagli con la indicazione da sergente maggiore di Bo. che li voleva tutti a posto. Poi, giusto il tempo di armarsi ed equipaggiarsi portandosi nel box di M. distante solo 4,5km e non ben, come troppo enfaticamente sottolineato dalle difese, tanto che Bo. e M. dicono di averlo scelto per le loro innocue chiacchierate giusto perche' vicino casa e cosi non disturbavano i famigliari. Per il resto, va fatto richiamo alla sentenza anche per cio' che attiene alla pretesa di riscontrare un'ipotesi di reato impossibile per la dotazione del cosiddetto sistema schiuma blocco. Basti rammentare che l'idoneita' va giudicata con prognosi postuma in base alle conoscenze di cui dispone l'agente nel momento in cui avvia il determinismo causale. Nozioni di scuola sorreggono l'assunto del Tribunale e condiviso dalla Corte". In questa sede, i ricorrenti, da una parte, reiterando gli argomenti di merito gia' proposti avanti ai giudici di merito, sostengono che non vi sarebbero elementi sufficienti per ritenere, ciascuno di essi, coinvolti, nella tentata rapina, dall'altra, sostengono che, a tutto concedere, il tentativo, proprio sotto il solo profilo giuridico, non sarebbe configurabile.

Quanto alle censure di merito, le medesime vanno tutte disattese, perche' la sentenza di appello, letta in uno con quella di primo grado, non evidenzia illogicita' e/o incongruenze, avendo chiarito il ruolo di ciascuno degli imputati nella progettata rapina ed avendo disatteso, sulla base di precisi riscontri fattuali (le indagini compiute dalla Polizia) che si trattava di tesi difensive prive della minima credibilita'. Pertanto, le doglianze riproposte in questa sede, vanno ritenute nulla piu' che un inammissibile tentativo di ottenere, in modo surrettizio, una rivalutazione di quegli stessi elementi di merito gia' presi ampiamente in esame da entrambi i giudici di merito. Quanto alla questione di diritto, secondo la tesi sostenuta da tutti gli imputati, il tentativo non sarebbe configurabile perche' l'azione tipica della rapina (il compimento di atti violenti) non era ancora iniziata quando furono arrestati: in quel momento, infatti, essi ben avrebbero potuto recedere dal proposito criminoso sicche' non potevano essere condannati per un'azione non commessa.

Il caso di specie, e' emblematico della problematica di diritto di cui si e' parlato.

Si e' chiarito che l'articolo 56 c.p. prevede e sanziona due ipotesi di tentativo: quello in cui l'azione non si verifica e quello in cui l'evento non si compie, per cause indipendenti dalla volonta' dell'agente (nel qual caso le due ipotesi, ai fini sanzionatoti, vengono assimilate) ovvero per resipiscenza dell'agente (nel qual caso, ai sensi dei commi 3 e 4, la sanzione varia).

Si e' anche chiarito che l'azione puo' essere considerata idonea quando, sulla base degli elementi fattuali in atti, puo' affermarsi che il programma criminoso dell'agente si e' ormai concluso e l'agente sta per passare alla fase operativa vera e propria. Nel caso di specie, da quanto emerge dalla sentenza impugnata, il piano operativo era stato completamente esaurito in quanto erano stati effettuati gli appostamenti ed erano stati predisposti i mezzi per eseguire il piano: il furgone Fiat era stato posizionato per lo speronamento; l'allarme Gps dei blindati da assaltare era stato disattivato; tutto l'armamentario necessario per perpetrare materialmente la rapina era disponibile; tutti gli uomini della banda si trovavano sul posto pronti ognuno di essi ad eseguire i compiti che era stato loro assegnato.

E' evidente, quindi, che, tutto era stato predisposto per passare alla fase esecutiva vera e propria (assalto al furgone che sarebbe passato da li' a poco).

Si verte, pertanto, nella prima delle ipotesi considerate: infatti, gli imputati non furono sorpresi ed arrestati mentre, ad es. eseguivano i pedinamenti del furgone blindato o mentre si approvvigionavano delle armi o mentre stavano discutendo delle modalita' operative e della distribuzione dei ruoli: in tale ipotesi, invero, sarebbe stato configurabile il reato impossibile per inidoneita' dell'azione ex articolo 49, comma 2.

Al contrario, vennero arrestati quando tutte le suddette operazioni prodromiche erano gia' state eseguite e, quindi, l'azione, in se' e per se' considerata, come correttamente ha rilevato la Corte territoriale, era ormai potenzialmente idonea al compimento della progettata rapina. Si sarebbe verificata invece la seconda ipotesi del tentativo ("se l'evento non si verifica") se gli imputati avessero iniziato l'assalto ossia avessero iniziato a compiere gli atti violenti richiesti dalla norma incriminatrice di cui all'articolo 628 c.p.): in tal caso, il tentativo si sarebbe potuto ipotizzare ove, per una causa estranea ed imprevista (ad es. intervento delle forze dell'ordine), l'evento non avrebbe potuto essere portato a termine.

Le due ipotesi, pero', ai fini sanzionatori, sono equiparate. Ed e' del tutto vano che gli imputati sostengano che ben avrebbero potuto recedere: cio' che, in realta', rileva e' che nessuno di essi lo fece perche' tale intenzione non puo' essere solo ipotizzata ma deve trovare un concreto riscontro fattuale che, nel caso in esame, manca del tutto. In conclusione, le censure proposte da tutti gli imputati (Ca. : motivi sub 2-3; Gi. : motivo unico; Ma. : motivi sub 1 - 2; Bo. motivi sub 1-2; C. motivo sub 1) in ordine alla violazione dell'articolo 56 c.p. vanno tutte disattese, avendo la Corte territoriale correttamente applicato il principio di diritto supra enunciato.

p. 5. CA. .

p. 5.1. violazione dell'articolo 415 bis c.p.p. (motivo sub 1): lo stesso ricorrente afferma che, nell'istanza rivolta al P.m., aveva chiesto di essere esaminato (cfr pag. 2 ricorso). Posta nei seguenti termini, la doglianza e' infondata. L'articolo 415 bis c.p.p., comma 3 dispone che l'indagato ha facolta', entro il termine di venti giorni dall'avviso delle conclusioni delle indagini preliminari: 1) di presentarsi per rilasciare dichiarazioni 2) di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio: in tale ultima ipotesi "il pubblico ministero deve procedervi".

La Corte sostiene che l'imputato, tramite il proprio difensore non aveva chiesto di essere interrogato ma aveva formulato una richiesta diversa sulla quale il pubblico ministero non aveva obbligo di rispondere o di provvedere: il ricorrente, infatti, aveva chiesto di essere esaminato ai sensi dell'articolo 468 c.p.p..

La decisione della Corte territoriale deve ritenersi corretta in considerazione della natura e del contenuto dell'istanza che indicava un istituto (l'esame: cfr articolo 503 c.p.p.) riguardante il dibattimento ed avente un contenuto del tutto diverso dall'interrogatorio (cfr articoli 64 - 65 c.p.p.) previsto dalla norma di riferimento (articolo 415 bis c.p.p.). E' vero che sussiste il principio dell'interpretazione (e conservazione) degli atti ma e' anche vero che l'autorita' giudiziaria (nella specie il P.m.), a fronte di una richiesta - tanto piu' ove proveniente da un tecnico del diritto - ambigua, contraddittoria e non avente riscontro in alcuna norma processuale, non e' tenuta ad interpretarla essendo, pertanto, legittimata a disattenderla non dandovi corso.

p. 5.2. violazione dell'articolo 648 c.p. (motivo sub 4): la Corte territoriale, avanti alla quale la stessa doglianza era stata sollevata, l'ha disattesa osservando che "prestando il consenso alla rapina ogni complice ha percio' stesso acquisito la disponibilita' collegiale e giuridica delle armi funzionali al reato (...)" nonche' la disponibilita' "dei beni indicati sub a) tutti di provenienza delittuosa, in tal modo ricettandoli".

La motivazione sia dal punto di vista giuridico che fattuale e' ineccepibile in quanto, una volta accertato che l'imputato era ben consapevole di partecipare ad una rapina per la consumazione della quale si sarebbe dovuto far uso di tutto quell'armamentario, e' chiaro che risponde non solo del tentativo di rapina ma anche della ricettazione (nella specie sotto il profilo di "ricevere") di tutti quelle cose provento di reato che sarebbero servite per la consumazione del programmato reato.

p. 5.3. violazione dell'articolo 62 bis c.p. (motivo sub 5): la Corte ha respinto la richiesta di concessione delle attenuanti generiche "a fronte di precedenti penali per gravi fatti di reato dimostrativi di un inserimento nel circuito criminale piuttosto che di una volonta' di rimanervi al di fuori". La motivazione non si presta ad alcuna censura sotto il profilo di legittimita' anche a fronte della generica doglianza proposta.

p. 6. BO. .

p. 6.1. violazione degli articoli 266 - 271 c.p.p. (motivo sub 5): la censura e' fondata. Come si desume dalla impugnata sentenza, nel corso delle intercettazioni telefoniche autorizzate per la sola rapina, emersero indizi a carico dell'imputato anche per i reati di cui ai capi E (articolo 367 c.p.) ed F (articolo 642 c.p.).

La decisione della Corte territoriale, in ordine all'utilizzabilita' delle suddette intercettazioni anche per i reati di cui agli articoli 367 e 642 c.p., non e' condivisibile, ritenendo questa Corte di dare continuita' a quella giurisprudenza di legittimita' secondo la quale "In tema di intercettazione di comunicazioni o conversazioni, la circostanza che non possano considerarsi pertinenti a "diverso procedimento" risultanze concernenti fatti strettamente connessi a quello cui si riferisce l'autorizzazione giudiziale, e che dunque non rilevino i limiti di utilizzabilita' fissati all'articolo 270 c.p.p., non esclude che siano applicabili, anche a tale proposito, le condizioni generali cui la legge subordina l'ammissibilita' delle intercettazioni. Ne consegue che, quando nel corso di intercettazioni autorizzate per un dato reato emergono elementi concernenti fatti strettamente connessi al primo, detti elementi possono essere utilizzati solo nel caso in cui, per il reato cui si riferiscono, il controllo avrebbe potuto essere autonomamente disposto a norma dell'articolo 266 c.p.p." Cass. 4942/2004 riv 229999 - Cass. 12562/2010 riv 246594. La soluzione qui accolta, poi, trova, nel caso di specie, un ulteriore argomento derivante dal fatto che, pacificamente, fra i reati in questione e quello di rapina non vi e' alcuna connessione probatoria ma solo soggettiva. Da quanto detto consegue:

- l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza, limitatamente ai suddetti reati in quanto, come si evince dalla motivazione, l'unica fonte di prova e' costituita proprio dal contenuto delle intercettazioni;

- l'eliminazione delle relative pene per complessivi gg 30 ed euro 90,00 di multa (cfr sentenza di primo grado).

p. 7. C. .

p. 7.1. violazione delle norme in ordine al trattamento sanzionatorio (motivo sub 2): la Corte territoriale ha disatteso la richiesta non solo criticando il Tribunale per aver concesso le attenuanti generiche (sebbene equivalenti) - del che non si poteva che prenderne atto - ma osservando che, in considerazione del ruolo svolto dall'imputato (sabotatore del sistema di allarme dei furgoni blindati), costui aveva "commesso un'azione eticamente spregevole" e concludendo, sia pure implicitamente che il trattamento sanzionatorio doveva ritenersi piu' che adeguato. Anche la suddetta motivazione non si presta alla generica censura dedotta in questa sede, dovendosi ritenere che la Corte abbia correttamente ed adeguatamente motivato la reiezione dell'istanza.

p. 8. AT. .

Il ricorso presentato da At. e' inammissibile non avendo il ricorrente presentato alcun motivo.



P.Q.M.



ANNULLA

Senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Bo. Se. limitatamente ai reati di cui ai capi E) ed F) perche' i fatti non sussistono. Elimina le relative pene per complessivi giorni 30 di reclusione ed euro 90,00 di multa, nonche' la condanna al risarcimento e rifusione delle spese in favore della costituita parte civile Navale Ass.ni spa. Rigetta il ricorso del Bo. nel resto.



Dichiara inammissibile il ricorso di At. Ed. e rigetta gli altri ricorsi. Condanna At. - Gi. - Ca. - Ma. - C. al pagamento delle spese processuali e At. anche della somma di euro 1.000,00 alla cassa delle ammende.

Condanna tutti i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile Mo. No. srl liquidate in complessivi euro 5.054,40 come da nota spese.




Da: Passacatania 16/12/2010 13:35:44
io l'ho fatto così..vi piace?


Ill.ma Corte di Appello di ………
Atto di appello e di esposizione dei contestuali motivi



Lo scrivente avv. ……………….., del foro di ………………….., quale difensore, giusta nomina in atti,  di  Tizio, nato a ………….il……………, residente a………………..in via………….n………………… per mezzo della presente propone appello avverso la sentenza n………………, emessa il………………e depositata in cancelleria il successivo……………….con la quale tizio è stato condannato alla pena della reclusione di anni…... e della multa perché ritenuto responsabile del delitto di cui agli artt. 56 e 628 comma 3°, n. 1, c.p.
Ed all'uopo espone i seguenti motivi di gravame:
(I)
Assoluzione perché il fatto non sussiste
Ad avviso di questo difensore non può essere condiviso l'orientamento sostenuto dall'ufficio del Pubblico Ministero e fatto proprio dall'organo giudicante secondo il quale nel caso di specie gli elementi di fatto costituiscono indizi gravi, precisi e concordanti, per ritenere la responsabilità di tizio per il delitto di cui all'art. 56 e 628 c.p. nei confronti della Banca Alfa.
Invero, non può assolutamente ritenersi che, il possesso di pistola scacciacani, di berretti per mascherarsi il viso, di due sacchetti ove riporre la refurtiva ed un motorino rubato per scappare, costituiscono elementi sui quali può emettersi un giudizio di responsabilità per delitto di rapina.
Ciò in quanto, se da un lato questi elementi possono essere tali da far ritenere la sussistenza dell'intenzione di commettere il delitto di rapina, non sono stati indicati altri elementi di fatto dai quali possa affermarsi la loro idoneità al suo compimento.
Il legislatore del 1930, infatti, modificando la precedente formulazione dell'art. 56 c.p., ha introdotto innovazioni radicali della disciplina del tentativo, sopprimendo la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi.
L'art. 56 c.p., nella nuova formulazione, oggi in vigore, non parla piu' di mezzi ma di atti idonei (in contrapposizione agli atti inidonei di cui all'articolo 49 c.p., comma 2) e di azione che non si compie o di evento che non si verifica.
Pertanto, il semplice possesso di mezzi idonei, quali armi, berretti, sacchetti di plastica,  non consentono di emettere sentenza di condanna per il delitto di rapina.
Invece, per la configurabilità del delitto tentato, occorre che il soggetto attivo pone in essere comportamenti dai quali si possa dedurre la sua intenzione a realizzare gli estremi della fattispecie penale che viene in considerazione.
Ed. infatti, il nostro sistema penale è fondato sul principio della colpevolezza con la conseguenza che la semplice intenzione non è punibile secondo il vecchio brocardo cogitationis poenam nemo patitur ex art. 49 c.p.
Tale principio viene ribadito dall'art. 115 c.p. a norma del quale "qualora due o piu' persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di essa e' punibile per il solo fatto dell'accordo".
Al fine di evitare che un soggetto venga punito per il solo accordo (non punibile), il legislatore ha inserito l'art. 56 c.p. che ruota intorno a due criteri: l'idoneità e la inequivocità degli atti compiuti dall'agente, nel senso che, solo ove l'azione presenti le suddette caratteristiche, l'agente può essere punito a titolo di tentativo.
In ordine al concetto di idoneità degli atti l'opinione maggioritaria della Suprema Corte di cassazione è alquanto compatta nel ritenere che un atto si può ritenere idoneo quando, valutato ex ante ed in concreto (c.d. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo, il Giudice, sulla base della comune esperienza dell'uomo medio, possa ritenere che quegli atti erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata (Cass. 40058/2008 riv 241649- Cass. 43255/2009 riv 245721 - Cass. 27323/2008 riv 240736 - Cass. 34242/2009 riv 244915).
Quanto alla nozione di univocità degli atti, questo difensore è consapevole che anche gli atti preparatori possono configurare l'ipotesi del tentativo, allorquando essi rivelino, sulla base di una valutazione ex ante e indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei, l'adeguatezza causale nella sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto, dimostrando contemporaneamente, per la loro essenza ed il contesto nel quale s'inseriscono, l'intenzione dell'agente di commettere il delitto": Cass. 27323/2008 riv. 240736 - Cass. 43255/2009 Rv. 245720.
L'atto preparatorio, dunque,  puo' integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione "ex ante" e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto". (Cass. 40702/2009 Rv. 245123).
Nel caso di specie, non può assolutamente ritenersi che il solo possesso di una pistola scacciacani, di berretti per mascherarsi il viso, di due sacchetti ove riporre la refurtiva ed un motorino rubato per scappare, costituiscono elementi dai quali possa evincersi l'inequivocità alla commissione di un delitto di rapina.
Questi elementi possono essere tali da far ritenere soltanto la sussistenza dell'intenzione di commettere il delitto di rapina.
Pertanto, la mancanza di ogni altro elemento (l'effettivo utilizzo dei berretti, l'essersi avvicinato alla banca con il sacchetto di plastica) deve indurre a ritenere insussistente il delitto contestato.
Ciò, in quanto, anche ritenendo che l'azione sia idonea, non sono stati riscontrati elementi per ritenere che Tizio e Caio siano passati alla fase operativa vera e propria, dal momento che potrebbe anche essersi verificato che, giunti sul luogo, abbiano  deciso di non commettere il delitto di rapina.
L''art. 56, infatti, prevede e sanziona due ipotesi di tentativo: quello in cui l'azione non si verifica e quello in cui l'evento non si compie, per cause indipendenti dalla volonta' dell'agente (nel qual caso le due ipotesi, ai fini sanzionatoti, vengono assimilate) ovvero per resipiscenza dell'agente (nel qual caso, ai sensi dei commi 3 e 4, la sanzione varia).
Ed, invero, la circostanza che gli imputati si trovavano a distanza notevole dalla Banca, il fatto che le pistole  non fossero pronte all'uso, inducono da un lato a ritenere che gli stessi potessero essere  sul punto di ravvedersi e dall'altro non consentono di affermare la necessaria partecipazione di entrambi all'azione criminosa progettata.
Tanto sopra premesso si chiede l'assoluzione dell'imputato perchè il fatto non sussiste, ovvero ai sensi del 530 co. II cpp, dato che nessun atto idoneo e diretto in modo non equivoco è stato commesso e, quindi gli indizi riscontrati non presentano le caratteristiche della gravità, precisione  e concordanza.

(II)
Riqualificazione giuridica del fatto contestato.

La circostanza che gli imputati, si trovassero a distanza di 100 metri dalla Banca, che le armi non erano pronte per l'utilizzo, che i berretti non erano ancora effettivamente utilizzati, inducono a ritenere sussistente la disciplina di cui all'art. 56 comma terzo, con la conseguente riduzione della pena irrogata, c.p.
(III)
Concessione delle attenuanti genriche di cui all'art. 62 bis c.p.
L'art. 62-bis c.p. prescrive che, indipendentemente dalle circostanze previste nell'articolo 62 c.p., il Giudice possa prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena.
La ratio dell'introduzione delle attenuanti generiche è quella di mitigare, attraverso il ricorso a circostanze non contemplate specificamente dalla legge e non predeterminate, le pene giudicate troppo aspre a seguito di una applicazione rigida e formale del paradigma sanzionatorio.
Per quanto concernono i requisiti richiesti ai fini della concessione delle attenuanti generiche, la giurisprudenza di legittimità ha escluso che l'unico parametro sia costituito dalla elencazione contenuta nell'art. 133 c.p., ritenendo invece che la concedibilità delle attenuanti generiche possa essere ravvisata in qualsiasi elemento di giudizio dal quale trarre la meritevolezza di una diminuzione di pena (Cass., 19 ottobre 1992, Riv. pen. 1993, p. 812).
La mancanza di precedenti penali, e gli elementi di fatto, soprattutto la circostanza che gli stessi si trovavano a distanza di 100 metri dalla banca inducono a ritenere concedibili le circostanze generiche di cui all'art.62 bis c.p.
Tanto sopra premesso e considerato si chiede di riconoscere le circostanze di cui all'art. 62 bis c.p. nella misura prevalente alle contestate aggravanti o in misura equivalente e conseguentemente rideterminare la pena applicata dal Giudice di prime cure.
Luogo e data
Firma
Avv…………….

Da: Kikka8216/12/2010 13:35:53
ALE MA CHE CI VUOLE???? LO SAI FARE O NO???? E' TARDI!!!!

Da: franx 7916/12/2010 13:37:01
ATTO CIVILE MASSIME E articolo su DE JURE:
Autorità:  Tribunale  Verona  sez. IV Data:  18 marzo 2009

1) È inammissibile la domanda giudiziale volta ad ottenere la positiva delibazione della liceità di una futura condotta, avendo essa il fine surrettizio di confiscare alla controparte il diritto di (re)azione giudiziaria, attraverso la sottrazione preventiva dell'autore all'eventuale giudizio di responsabilità.
2) La persistenza della qualifica di socio, in capo a chi non abbia poteri gestionali, non espone la società a pericoli tali da legittimare l'esclusione dello stesso in via cautelare.
L'ESCLUSIONE DEL SOCIO E LA TUTELA CAUTELARE, TRA DUBBI TRADIZIONALI E RISPOSTE NECESSARIE
Giur. merito 2010, 1, 134    Michele Nardelli
Sommario: 1. Premessa. - 2. Anticipazione cautelare e sentenze costitutive. - 3. Facoltà private e necessità di richieste giudiziarie.
. PREMESSA
La vicenda sottoposta al giudizio del Tribunale di Verona si è sviluppata nell'ambito di un procedimento cautelare.
Una società a responsabilità limitata e il suo amministratore, hanno chiesto in via cautelare l'esclusione del socio di minoranza e il divieto, per lo stesso, di accedere ai documenti sociali.
A giustificazione processuale della domanda, hanno chiarito che in via ordinaria sarebbe stata chiesta una sentenza costitutiva-dichiarativa, che avesse escluso per giusta causa il richiamato socio di minoranza.
L'amministratore ha anche addotto la volontà di esperire altra azione di merito, tesa ad ottenere in via ordinaria l'accertamento della legittimità del rifiuto opposto alla consegna dei documenti contabili, che il socio di minoranza aveva chiesto di ottenere.
In buona sostanza, quindi, la domanda cautelare è stata proposta al duplice fine di ottenere già con un provvedimento di urgenza l'esclusione del socio, e di ottenere, sempre in via d'urgenza, una pronuncia che legittimasse il rifiuto di consegnare i documenti richiesti dallo stesso socio.
Il Tribunale di Verona ha dichiarato inammissibile l'istanza cautelare.
E ciò ha fatto per entrambe le domande.
Quanto alla seconda, tesa ad ottenere una pronuncia che affermasse la liceità del rifiuto di consegnare i documenti, ha osservato che nel caso sottoposto non potevano dirsi sussistenti l'interesse ad agire e «financo» il pericolo di pregiudizio nel ritardo, perché la consegna dei documenti poteva essere rifiutata in via autonoma. Ovviamente, questo avrebbe potuto comportare la reazione giudiziaria del socio interessato, alla quale la società avrebbe dovuto resistere.
Ma proprio a quest'ultimo riguardo il Tribunale ha osservato che richiedere in via giudiziale una delibazione preventiva sulla legittimità di una futura condotta, avrebbe impedito alla controparte il diritto di agire in giudizio. E soprattutto avrebbe sottratto preventivamente, il soggetto che avesse rifiutato di consegnare i documenti richiesti dal socio, all'eventuale giudizio di responsabilità.
Quanto alla prima, tesa ad ottenere l'esclusione del socio, ha osservato che è dubbia l'ammissibilità di una pronuncia cautelare costitutiva (la revoca anticipatoria dello «status» di socio), laddove l'efficacia di una tale pronuncia è in realtà subordinata alla formazione del giudicato. Ha poi osservato che in ogni caso era inverosimile la sussistenza del pericolo di pregiudizio nel ritardo, dal momento che questo avrebbe dovuto trarsi dalla sola persistenza della qualifica di socio, in un caso in cui il soggetto interessato era privo di poteri gestionali. In questo senso, l'unica facoltà consentita a quest'ultimo, di accedere alle informazioni sociali, rientrava nei motivi di inammissibilità della seconda domanda, dal momento che la società ben avrebbe potuto decidere in via autonoma di non fornire le notizie richieste, salva una successiva decisione giudiziaria.
2. ANTICIPAZIONE CAUTELARE E SENTENZE COSTITUTIVE
Le questioni affrontate dal Tribunale di Verona sono in sostanza tre, così come rappresentate nelle massime.
Nel breve commento che seguirà, si cercherà di affrontarle singolarmente.
A questo proposito, il primo aspetto da approfondire, per i risvolti generali che presenta, che vanno ben al di là del caso specifico, è quello relativo alla seconda massima.
Il Tribunale, nello specifico, ha effettuato una presa di posizione in ordine ad una vicenda che obiettivamente si presenta complessa.
I termini della questione sono però semplici.
In sostanza, si tratta di decidere se si possa invocare una tutela cautelare, allorquando il merito della controversia richieda una pronuncia costitutiva, la cui efficacia sia collegata al passaggio in giudicato della relativa sentenza.
L'argomento che tradizionalmente ha portato ad escludere una tale possibilità, è consistito nella ritenuta insussistenza, prima della sentenza costitutiva, di una posizione soggettiva connotata dall'attualità (1)
(1) In generale Calvosa, Provvedimenti di urgenza, in Noviss. Dig. it., Torino, 1957, 449 e quindi 456, ove si dà conto della tesi per la quale il diritto cautelando dovrebbe essere già sussistente, perché altrimenti non vi sarebbe da temere alcuna lesione dello stesso, e poi si afferma che in realtà anche i diritti potestativi possono essere minacciati dal pericolo di lesione, nelle more del giudizio di cognizione, sicché si conclude aderendo alla tesi della ammissibilità della tutela cautelare anche nei casi in cui la situazione sostanziale necessiti di una pronuncia costitutiva.
(1). In altre parole, solo la sentenza - nei casi della specie - costituirebbe il diritto. Prima della decisione giudiziaria non vi sarebbe invece spazio per una tutela anticipata, rispetto ad un diritto solo sperato, e quindi ancora non suscettibile di tutela (2)
(2) In giurisprudenza cfr. Trib. Torino 12 luglio 2003, in Giur. it., 2004, 538; Trib. Bari, sez. lav., 9 giugno 2008, in www.dejure.giuffre.it; Trib. Marsala 18 novembre 2004, in questa Rivista, 2005, 531; Trib. Roma 5 novembre 2003, in questa Rivista, 2004, 457. In dottrina Satta, Limiti di applicazione dei provvedimenti d'urgenza, in Foro it., 1953, I, 132, ove è affermato che la costituzione provvisoria di un diritto appare inconcepibile e contraddittoria.
.
Tale tesi è stata sottoposta però a una rivisitazione da parte di altro orientamento, nella misura in cui si è evidenziato che anche nel caso della tutela costitutiva può esservi la doverosa necessità di anticipare gli effetti della futura decisione giudiziaria, al fine di non pregiudicare la posizione giuridica del soggetto interessato (3)
(3) In dottrina cfr. Tommaseo, Provvedimenti di urgenza, in Enc. dir., Milano, 1988, 872, il quale nota come in passato il dubbio sulla concedibilità della tutela cautelare, rispetto a diritti la cui assicurazione necessitava di sentenze costitutive, era dato dalla mancanza di una posizione soggettiva connotata dall'attualità (requisito che evidentemente sarebbe conseguito solo alla emanazione della sentenza), e poi afferma che si tratta però di un orientamento caratterizzato da un concettualismo esasperato, tale da pregiudicare l'effettività della tutela costitutiva; Proto Pisani, Provvedimenti d'urgenza, in Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, 387; Dini - Mammone, I provvedimenti d'urgenza, Milano, 1993, 301 ss.; Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, III, 7ª ed., Torino, 1989, 301 s.; Baccaglini, Provvedimento d'urgenza e anticipazione dell'effetto di accertamento della pronuncia di merito. Una questione non ancora sopita, in Resp. civ. prev., 2005, 830 ss. In giurisprudenza Pret. Roma 3 febbraio 1986, in questa Rivista, 1987, 602; Trib. Civitavecchia 5 settembre 2008, in www.deiure.giuffre.it; Trib. Torre Annunziata 21 ottobre 2003, in Dir. e giur., 2005, 112.
(3).
D'altra parte, non si è neppure mancato di osservare come la sentenza costitutiva tutelerebbe un diritto soggettivo preesistente al processo, e che sarebbe stato oggetto di una precedente violazione, sicché non vi sarebbe motivo per negare in tali casi l'applicabilità della tutela d'urgenza (4)
(4) M. Dini - E. A. Dini, I provvedimenti d'urgenza del diritto processuale civile e nel diritto del lavoro, 5ª ed., Milano, 1981, 301 e ss. (e ivi ampia rassegna di dottrina e giurisprudenza a favore delle due tesi). È interessante notare che proprio in base a tale ricostruzione Trib. Torino 2 aprile 2004, in questa Rivista, 2004, 1952, ha escluso che possa emanarsi un provvedimento d'urgenza rispetto ad una azione di merito di revocatoria, posto che mancherebbe, in tale ipotesi, un diritto perfetto preesistente alla pronuncia richiesta al giudice, e la pronuncia cautelare si risolverebbe nella produzione di un anomalo effetto costitutivo anticipato. Sotto altro profilo, mette conto evidenziare che in dottrina (Impagnatiello, Sentenze costitutive, condanne accessorie e provvisoria esecutività, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 3, 751 ss., e specie par. 7), non si è mancato di segnalare la necessità che la regola della immediata esecutività delle sentenze di primo grado sia intesa come riferita anche alle sentenze costitutive, al fine di non discriminare ingiustificatamente la tutela dei diritti potestativi rispetto ai diritti di credito.
.
Per completezza di trattazione, pare opportuno accennare anche alla connessa questione, a sua volta assai controversa, della ammissibilità o non di una cautela che sia completamente satisfattoria del diritto fatto valere, e che abbia quindi effetti astrattamente irreversibili.
Per comprendere appieno la rilevanza della questione può farsi l'esempio del provvedimento che ha autorizzato l'impianto di un embrione (5)
(5) Trib. Roma 17 febbraio 2000, in Giust. civ., 2000, I, 1157 e in questa Rivista, 2000, 527.
, provvedimento rispetto al quale la successiva sentenza che avesse rigettato la domanda sarebbe stata evidentemente inutiliter data. Ancora, può pensarsi alla ipotesi della richiesta di consegna di documentazione da indirizzare nei confronti di una banca (6)
(6) Cfr. Trib. Monza 21 maggio 1997, in Fall., 1998, 83; Trib. Milano 22 gennaio 1997, in Banca, borsa e tit. credito, 1998, II, 433.
, ovvero alla possibilità del socio di srl di accedere ai libri sociali al fine di svolgere il controllo sulla gestione sociale ai sensi dell'art. 2476 c.c. (7)
(7) Cfr. Trib. Messina 5 aprile 2003, in Vita not., 2003, 955; Trib. Ivrea 4 luglio 2005, in D&G, 2005.
.
In tutte tali ipotesi il provvedimento cautelare di accoglimento della domanda recherebbe degli effetti non eliminabili con una sentenza di merito, posto che la documentazione bancaria, o i libri sociali, sarebbero già entrati nella sfera di conoscenza degli interessati. E tuttavia deve considerarsi che anche il mancato accoglimento di una domanda cautelare potrebbe provocare danni irreparabili (8)
(8) Cfr. Trib. Milano 14 agosto1995, in Giur. it., 1996, I, 2, 354.
, sicché si deve essere consapevoli che il dogma della definitività degli effetti, utilizzato in molti casi per escludere la tutela d'urgenza, comporta quale conseguenza il sacrificio, in ipotesi a sua volta irreparabile, di «un diritto la cui esistenza appare probabile», a favore di un diritto che invece potrebbe apparire improbabile all'esito del procedimento cautelare (9)
(9) In tema cfr., in dottrina, Cristiano, I provvedimenti cautelari anticipatori: cenni generali, relazione tenuta all'incontro di studio I nuovi procedimenti in materia di diritto societario, Roma, 3-5 giugno 2003, 2, laddove si nota come l'orientamento restrittivo sembri in via di superamento; Tommaseo, Provvedimenti ..., op. cit., 861 e ivi nt. 28, ove si richiama l'osservazione, del medesimo Autore, per la quale «l'etica della giurisdizione d'urgenza consiste nel sacrificare l'improbabile al probabile». In giurisprudenza, tra le tante, cfr. Trib. Torino 10 dicembre 2003, in questa Rivista, 2004, 671, che ha dichiarato inammissibile la domanda di cancellazione in via d'urgenza della trascrizione di una domanda giudiziale, e Trib. Milano 30 settembre 2002, in Giur. milanese, 2002, 435, che ha invece accolto analoga domanda.
E tutto ciò porta ad affermare che la tutela cautelare rappresenta, anche nel caso di situazioni che necessitino - nel merito - di una sentenza costitutiva, come pure nei casi nei quali la anticipazione degli effetti in sede cautelare non consentirebbe il ripristino della situazione fattuale, un istituto ineliminabile di salvaguardia, al pari di ciò che è comunemente affermato in via generale (10)
(10) Cfr. Proto Pisani, in Foro it., 1985, I, 1884 e in Lezioni di diritto processuale civile, 2ª ed., Napoli, 1996, 655, ove si nota anche come la giurisdizione statuale, con il correlato diritto o potere di azione, sia la contropartita del divieto di autotutela privata. Di particolare rilievo sono poi alcune pronunce della Corte Costituzionale, che se da un lato hanno escluso, con riferimento alla riscossione esattoriale, che la potestà cautelare del giudice costituisca una componente essenziale della tutela giurisdizionale, che non per questo, a giudizio della Corte, potrebbe ritenersi priva di effettività (posto che la pronuncia del giudice in sede di giudizio di accertamento negativo, comporta che la P.A. soccombente debba prontamente restituire la somma riscossa e non dovuta: C. cost., sent. n. 63 del 1982, in Foro it., 1982, I, 1216), dall'altro lato hanno poi dapprima ammesso che la tutela cautelare concorre alla maggiore intensità della difesa giurisdizionale (C. cost., sent. n. 318 del 1995, in Foro it., 1995, I, 3092), e quindi che la piena tutela giurisdizionale deve essere assicurata anche in sede cautelare (C. cost., sent. n. 437 del 1995, in Foro it., 1995, 3060), posto che «dall'art. 700 è lecito enucleare la direttiva che, le quante volte il diritto assistito da fumus boni iuris è minacciato da pregiudizio imminente e irreparabile provocato dalla cadenza dei tempi necessari per farlo valere in via ordinaria, spetta al giudice il potere di emanare i provvedimenti d'urgenza che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito» (C. cost., sent. n. 190 del 1985, in Foro it., 1985, I, 1881). In dottrina cfr. altresì Costantino, Una svolta epocale nella giurisprudenza della Corte Costituzionale: si apre una breccia per la sospensione giudiziale della esecuzione esattoriale, in Foro it., 1995, I, 3092, e Cadono i limiti alla sospensione giudiziale della esecuzione esattoriale: passano i bersaglieri nella breccia aperta dalla sentenza n. 318 del 1995, in Foro it., 1995, I, 3060.
Tornando alla vicenda in esame, peraltro, e riprendendo l'argomento tradizionalmente usato a supporto della soluzione negativa, non può non evidenziarsi come la funzione della tutela atipica avrebbe dovuto ovviamente essere rivolta ad anticipare gli effetti della futura sentenza (la revoca anticipata dello «status» di socio), e non certamente la sentenza stessa. Sicché anche per questa via non vi sarebbero stati ostacoli alla piena possibilità di apprestare la cautela richiesta, ove chiaramente fossero stati sussistenti gli altri requisiti.
A ben guardare, proprio quest'ultimo aspetto è stato compiutamente valutato quelle volte in cui si è affermato che se in via cautelare è possibile ottenere, ad esempio, la consegna di un immobile, non sarà per contro possibile ottenere il trasferimento della proprietà dello stesso (11)
(11) Cfr. Conte, Sub art. 700, in Codice di procedura civile commentato a cura di Consolo e Luiso, 2ª ed., Milano, 2000, II, 3056. In giurisprudenza cfr. Trib. Torino 21 luglio 2003, in questa Rivista, 2004, 1124, che ha escluso che possa concedersi la tutela atipica per obbligare taluno a concludere un contrat to ai sensi dell'art. 2932 c.c., posto che in tal modo il provvedimento cautelare provocherebbe la costituzione del rapporto giuridico che invece spetta alla sentenza di merito.
Sotto un ultimo profilo, non può non evidenziarsi, ad ulteriore conforto della tesi che qui si sostiene, che neppure potrebbe precludere la tutela cautelare, anticipatoria di una sentenza costitutiva, l'argomento per il quale non vi sarebbe la certezza che una sentenza venga poi emessa.
Da un lato, come è noto, le recenti riforme hanno reso non più necessaria l'introduzione dei giudizi di merito a fronte di tutele cautelari che anticipino gli effetti delle future decisioni di merito. La regolamentazione cautelare potrebbe pertanto soddisfare le parti, che liberamente potrebbero decidere di non coltivare il giudizio di merito, e porre in essere esse stesse gli atti giuridici necessari ad attribuire stabilità ai loro rapporti.
Dall'altro lato, e comunque, vale la pena ricordare come la mancata instaurazione del giudizio di merito non precluda, alla stregua degli ordinari istituti giuridici, il prodursi di effetti definitivi, che a loro volta ben possono conseguire ai «meccanismi di stabilizzazione di diritto sostanziale», quali ad esempio la prescrizione e l'usucapione (12)
(12) Cfr. Caponi, Provvedimenti cautelari e azioni possessorie, in Foro it., 2005, V, 136.
In conclusione, sul punto, e dato atto che il Tribunale di Verona non ha escluso la possibilità di una tutela cautelare a fronte di una situazione giuridica che necessiti di una sentenza costitutiva, essendosi limitato ad evidenziare che tale soluzione sia dubbia, non può fare a meno di notarsi come in realtà la soluzione affermativa appaia preferibile rispetto a quella negativa.
Nella specie, poi, certamente condivisibile appare la negazione del requisito del pericolo di pregiudizio per la società, e per il socio di maggioranza, che nella prospettazione del ricorso avrebbe dovuto derivare dalla permanenza del socio di minoranza nella compagine sociale. Come appare evidente, se tale soggetto ha quale sua unica facoltà quella di chiedere di prendere visione delle informazioni sociali, e se a tale facoltà la società ben può opporre un rifiuto, salva verifica della legittimità dello stesso in ambito giudiziario, non vi è alcuno spazio per ritenere incombente sulla società un pericolo tale da legittimare l'esclusione cautelare del socio di minoranza.
3. FACOLTÀ PRIVATE E NECESSITÀ DI RICHIESTE GIUDIZIARIE
La prima massima riguarda l'ulteriore domanda sottoposta all'attenzione del Tribunale di Verona.
Si è detto che il socio di minoranza ha richiesto di ottenere la consegna di documenti contabili della società. A fronte di tale richiesta, l'amministratore ha opposto un rifiuto.
L'amministratore ha quindi annunciato di voler intentare un'azione di merito volta ad accertare la legittimità del rifiuto, chiedendo in via cautelare che al socio di minoranza venisse inibita la possibilità di accedere ai richiamati documenti sociali.
La questione che deriva da tale domanda va affrontata sotto due diversi profili.
Essi attengono ai requisiti del pericolo di pregiudizio irreparabile, che in assenza del provvedimento cautelare potrebbe gravare sul ricorrente, e dell'interesse ad agire in sede cautelare, ma più in generale in sede giurisdizionale.
Quanto al primo, giova premettere che un provvedimento è cautelare, o assolve a funzioni cautelari, quelle volte in cui, insuscettibile esso stesso di apprestare una regolamentazione definitiva al contendere, miri più semplicemente ad assicurare gli effetti di una sentenza di merito che probabilmente riconoscerà la fondatezza delle ragioni del ricorrente (fumus boni iuris), e la cui attesa probabilmente causerebbe dei danni allo stesso ricorrente (periculum in mora).
Come si evince da ciò, per ottenersi una tutela cautelare è necessario che i tempi del giudizio ordinario siano incompatibili con una pronta tutela della situazione giuridica soggettiva del ricorrente.
Si badi che ai fini del requisito in esame, ed anche nella prospettiva di definire i confini tra lo stesso e l'interesse ad agire, non è in discussione la necessità di un provvedimento giurisdizionale. In altre parole, dato per scontato che un soggetto abbia bisogno di un provvedimento del giudice per tutelare le proprie ragioni, il periculum in mora, ove sussistente, legittima tale soggetto ad invocare una tutela cautelare.
Se tuttavia le ragioni poste a base della domanda giudiziaria, non necessitino di un provvedimento del giudice, la questione relativa al periculum in mora non si pone neppure, perché non vi è proprio motivo di rivolgersi al giudice.
In questo senso, quello dell'interesse ad agire è un requisito che sta a monte rispetto a quello del pericolo da ritardo.
La precisazione in argomento è tanto più necessaria, ove si faccia mente locale ad alcuna delle tesi che tradizionalmente sono state sostenute a proposito degli istituti qui in esame.
Partendo con l'esame del concetto di interesse, va innanzi tutto chiarito che esso non si identifica in una nozione psicologica (bisogno o desiderio), bensì nella «esigenza di beni o valori da realizzare o da proteggere nel mondo sociale» (13)
(13) Betti, Interesse (diritto positivo), in Noviss. Dig. it., Torino, 1957, 839. L'Autore chiarisce il concetto spiegando che nella vita di relazione si fronteggiano interessi divergenti e contrastanti, che non possono avere attuazione pari e congiunta, ma solo attuazione differenziata secondo un rango di subordinazione. È quindi l'ordine giuridico, secondo tale impostazione, a stabilire il rango di subordinazione tra gli interessi in contrasto. E l'ordine giuridico effettua tale valutazione all'esito di una comparazione che tiene conto del merito della tutela giuridica, secondo le vedute politico-legislative dell'ordinamento.
Nell'ordinamento processuale, l'interesse ad agire è istituto ampiamente dibattuto (14)
(14) In generale Nasi, Interesse ad agire, in Enc. dir., Milano, 1988, 34 ss., ove si individua il «fatto» al verificarsi del quale sorge l'interesse ad agire, nella violazione del diritto, vale a dire nella esistenza di uno stato di fatto contrario al diritto, e si dà conto della tesi per la quale a tale considerazione viene aggiunta l'esigenza per la quale siano esaurite tutte le vie extraprocessuali per ottenere la realizzazione del diritto, al punto che il processo appaia come l'unico mezzo esperibile per l'eliminazione della lesione del diritto; Lugo, Manuale di diritto processuale civile, 7ª ed., Milano, 1979, 20, ove si afferma che l'interesse ad agire sussiste solo quando il diritto sia contestato o insoddisfatto, e quando perciò il titolare del diritto, senza l'intervento degli organi giurisdizionali, subirebbe un danno.
.
Richiamando l'opinione tradizionale secondo la quale esso è una condizione di ammissibilità della domanda (15)
(15) Attardi, Interesse ad agire, in Noviss. Dig. it., Torino, 1957, 840; Nasi, op. cit., 36. In giurisprudenza, da ultimo, Cass., sez. I, 30 maggio 2008, n. 14554, in Foro it., 2009, I, 208.
, le opinioni espresse sul tema si presentano del tutto contrastanti (16)
(16) Per una sintesi sia consentito rinviare a Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, 308 e ss.; Proto Pisani, Sub art. 100, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Allorio, II, Torino, 1973, 1065 ss., ove il richiamo dell'insegnamento del Chiovenda (Istituzioni, I, n. 40, 167), secondo il quale «l'interesse ad agire consiste in questo, che, senza l'intervento degli organi giurisdizionali, l'attore subirebbe un ingiusto danno».
, addirittura quanto alla individuazione delle tipologie di azioni nelle quali tale requisito dovrebbe essere indagato (17)
(17) Senza pretesa di completezza, a dire dell'Attardi, op. cit., l'interesse ad agire sarebbe presente nelle sole azioni di accertamento e cautelari; a dire dell'Andrioli, op. cit., e premessa la distinzione tra azioni tipiche (i cui presupposti di fatto sono precisamente indicati nella legge, quali le costitutive e le cautelari), e azioni atipiche (la cui giustificazione formale dipende da ciò, che il processo deve dare al privato quelle utilità che il libero gioco delle forze sociali e la spontanea osservanza delle norme possono attribuirgli, quali le azioni di condanna e di mero accertamento), l'interesse ad agire avrebbe nelle prime un ruolo esclusivamente sistematico - così anche Proto Pisani, op. cit., 1069 s., anche in riferimento alle azioni costitutive non necessarie, come l'azione ex art. 2932 c.c., nelle quali ancora una volta il requisito in esame non assumerebbe funzione pratica ma solo sistematica, perché l'inadempimento dell'obbligo sarebbe solo un elemento della fattispecie dedotta in giudizio, e la sua insussistenza porterebbe al rigetto della domanda nel merito-, mentre nelle seconde avrebbe il suo vero campo di applicazione, perché il giudice dovrebbe valutare se il ricorso agli organi giurisdizionali sia veramente necessario ovvero se altre forze riescano più idonee a garantire il risultato; a dire del Nasi, op. cit., 40, nelle azioni costitutive l'interesse ad agire non è mai diverso da quello tipizzato nella fattispecie che prevede l'azione costitutiva come diritto ad ottenere un certo effetto giuridico, al punto che l'interesse ad agire non sarebbe pertanto un elemento del concetto di azione; a dire dell'Allorio, Bisogno di tutela giuridica?, in Jus, 1954, 547, e del Garbagnati, Azione e interesse, in Jus, 1955, 316 ss., il concetto di interesse ad agire sarebbe del tutto superfluo nella misura in cui esso sarebbe insito nella definizione di ogni singola tipologia di tutela; a dire del Fazzalari, Note in tema di diritto e processo, Milano, 1957, 127 ss., l'interesse ad agire consisterebbe nella lesione del diritto, e sarebbe presente in tutte le azioni; a dire del Grasso, Note per un rinnovato discorso sull'interesse ad agire, in Jus, 1968, 349 e ss., l'interesse ad agire risiederebbe nella indispensabilità del processo, ovvero nella lesione attuale del sfera giuridica del ricorrente, e parimenti sarebbe presente in tutte le tipologie di azioni.
Volendo limitare l'analisi dell'istituto che ci occupa al caso in esame, va detto che esso presuppone una verifica che riguardi il procedimento cautelare e le azioni di condanna (18)
(18) La controversia sulla esistenza dell'obbligo, per la società, di porre a disposizione del socio di minoranza i documenti contabili, non presuppone -perché sia rilevante- un giudizio di accertamento del diritto del socio ad ottenere i documenti, ovvero di quello della società a negare tali documenti. Il giudizio di accertamento, infatti, riguarda l'affermazione della esistenza o non di un rapporto giuridico (Garbagnati, Azione e interesse, in Jus, 1955, 316 ss.; Proto Pisani, Appunti sulla tutela di mero accertamento, in Riv. trim dir. proc. civ., 1979, 641, ove l'affermazione per la quale la tutela di mero accertamento riguarda solo i diritti e non i fatti, ed ove si evidenzia comunque la difficoltà di discernere tra diritto e fatto), e non della esistenza o non di un diritto di accesso ai documenti, che evidentemente sottende - per essere rilevante - una domanda di condanna al soddisfacimento del diritto medesimo. Per contro, la sede cautelare nella quale il giudizio si è svolto impone di guardare anche alla tematica dell'interesse ad agire nello specifico ambito processuale. È di tutto rilievo richiamare uno scritto del Satta (peraltro in senso critico rispetto a Carnelutti, Accertamento giudiziale preventivo, in Riv. dir. proc., 1960, 177 ss.), A proposito dell'accertamento preventivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, specialmente 1401 s., ove si afferma che «l'idea di chiedere al giudice, come al vigile di un crocicchio, la via da seguire, [mi] pare una contraddizione in termini», e quanto alle obbligazioni si afferma poi che l'incertezza tra le parti sulla portata dei rispettivi obblighi deve essere risolta con la richiesta e con il rifiuto di adempimento. Aggiunge l'Autore, che in tali ipotesi non può parlarsi di tutela di accertamento, nel senso che l'accertamento è solo funzionale alla esecuzione, e si verte in «quella che l'esperienza ha qualificato come condanna», concludendo con l'affermazione per la quale «è assolutamente inconcepibile che le parti, in luogo della condanna, chiedano un mero accertamento».
Sotto il primo profilo, si è già detto che secondo l'impostazione tradizionale l'interesse ad agire si identificherebbe con il periculum in mora(19)
(19) Attardi, Interesse ad agire, op. cit. Dal canto loro, affermano invece che il periculum in mora deriverebbe solo dalle specifiche disposizioni dettate per le azioni cautelari, Garbagnati, Azione e interesse, op. cit.; Allorio, Bisogno di tutela giuridica?, op. cit.; Andrioli, Diritto processuale civile, op. cit., 312, ove si dà conto che anche nelle azioni cautelari l'interesse ad agire svolgerebbe semplice funzione sistematica, nel senso che il pericolo di un inutile provvedimento è eliminato dal semplice verificarsi delle condizioni di fatto, cui la possibilità di esercitare in giudizio dette azioni è collegata. Anche secondo Nasi, op. cit., 41, nelle azioni cautelari il diritto si identifica puramente e semplicemente nell'azione, dal momento che tali azioni producono determinati effetti giuridici nella sfera di un altro soggetto al verificarsi di ipotesi che prescindono del tutto dalla esistenza e dall'accertamento del diritto a vantaggio del quale è disposta la cautela. Afferma che la cognizione del giudice della cautela abbia per oggetto non un diritto o un rapporto giuridico, ma solo i presupposti di fatto per l'applicazione di una norma strumentale, Liebman, Unità del procedimento cautelare, in Riv. dir. proc., 1954, 17.
In senso contrario, e molto sommessamente, deve però ribadirsi come in realtà i due requisiti agiscano su piani diversi, perché prima di passare ad esaminare il pericolo di pregiudizio nel ritardo, deve positivamente riscontrarsi la necessità di un provvedimento giurisdizionale a tutela del diritto del soggetto che agisca in giudizio.
Se si accede a tale impostazione, è del tutto convincente la decisione del Tribunale di Verona, laddove ha escluso nel caso concreto il requisito del periculum in mora.
È infatti evidente che la società non è esposta ad alcun pericolo imminente di vedere pregiudicato il proprio diritto, poiché le è sufficiente opporre, alla richiesta del socio di minoranza, il rifiuto di esibizione dei documenti contabili (20)
(20) Molto opportunamente, il provvedimento che si commenta ha richiamato la tematica relativa al generale principio di cui all'art. 1460 c.c., che permette una forma di autotutela di carattere sostanziale, attivabile direttamente dalla parte.
A ben guardare, però, e alla stregua della qualificazione giuridica da attribuire al conflitto tra le parti, è altresì condivisibile il giudizio - che come detto sta a monte - di inesistenza, in capo alla società, dell'interesse ad agire per ottenere una sentenza che dichiari l'inesistenza del diritto del socio ad ottenere i documenti contabili. Si tratterebbe, astrattamente, di una azione di accertamento negativo (21)
(21) Sulle quali cfr. Proto Pisani, Appunti ... op. cit., 655 ss., specie in riferimento alla ripartizione dell'onere probatorio in tale tipo di azione, al fine di evitare la c.d. «azione di giattanza», e di rispettare il diritto di difesa del convenuto, ai sensi dell'art. 24 Cost.
, che però non potrebbe che incontrare i limiti propri imposti dall'art. 100 c.p.c. La società dovrebbe in altre parole dimostrare la necessità di una sentenza della specie, ed i motivi per i quali non le sarebbe sufficiente il mero rifiuto di consentire l'accesso ai documenti contabili.
In questo senso, infatti, non può non ritenersi che l'interesse della società ad ottenere l'affermazione dell'inesistenza di tale diritto, diventi attuale solo nel momento in cui il socio di minoranza attivi una specifica domanda di condanna (22)
(22) Secondo Nasi, op. cit., 41, nelle azioni di condanna non può distinguersi tra fatto costitutivo del diritto di credito e fatto costitutivo dell'interesse ad agire (da identificarsi nell'inadempimento spontaneo), perché l'obbligazione è esigibile fin dal suo sorgere. Da ciò deriva che si possa esercitare l'azione di condanna fin dal sorgere del diritto di credito, al fine di ottenere il titolo esecutivo. Ma in assenza di domanda di condanna, aggiungeremmo, o comunque in assenza di condotte del creditore che possano riflettere effetti negativi sulla posizione giuridica soggettiva del debitore, questi non ha interesse ad ottenere una pronuncia che accerti l'inesistenza del proprio obbligo, proprio perché la sua sfera giuridica non è in alcun modo lesa.
, tesa ad ottenere coattivamente l'affermazione del proprio diritto ad ottenere i documenti contabili (23)
(23) Attardi, Interesse ..., op. cit., nel richiamare la dottrina tradizionale nota come l'art. 100 c.p.c. esprime l'esigenza che oltre all'esistenza (o all'affermazione dell'esistenza), del diritto soggettivo fatto valere, sussista anche uno stato di fatto lesivo, in senso lato, del diritto medesimo, vale a dire una situazione che intacchi e diminuisca il valore di una situazione giuridica soggettiva.
Fino a tale momento, e non essendo seriamente messo in discussione il diritto della società ad opporre un rifiuto alla richiesta, ciò che astrattamente potrebbe dipendere anche dalla ritenuta liceità di tale rifiuto da parte del socio, in capo alla società non può ravvisarsi alcun interesse ad agire.
Come è ovvio, la mancanza di tale requisito renderebbe inammissibile anche la domanda ordinaria, e quindi a maggior ragione rende inammissibile la domanda cautelare, come in maniera condivisibile affermato dalla pronuncia in commento.

Da: Benedetta16/12/2010 13:37:49
Si sa dove correggeranno i compiti svolti a Perugia?

Da: Ale16/12/2010 13:37:50
a che ora ti portano??

Da: SORELLA16/12/2010 13:38:40
raga è tardi....mi devo allontanare un pò mi sento male.....vi prego inviate qualcosa.....torno tra un pò

Da: MANOGENA16/12/2010 13:39:14
PARERE E ATTO CIVILE...NAPOLI E' IN CAOS TOTALE PLEASE HELPPPPPPPPPPPPPPPPP  PARERE E ATTO CIVILE...NAPOLI E' IN CAOS TOTALE PLEASE HELPPPPPPPPPPPPPPPPP  PARERE E ATTO CIVILE...NAPOLI E' IN CAOS TOTALE PLEASE HELPPPPPPPPPPPPPPPPP  PARERE E ATTO CIVILE...NAPOLI E' IN CAOS TOTALE PLEASE HELPPPPPPPPPPPPPPPPP  PARERE E ATTO CIVILE...NAPOLI E' IN CAOS TOTALE PLEASE HELPPPPPPPPPPPPPPPPP

Da: spagna 16/12/2010 13:40:19
dove sei vero Ale?

Da: x ale16/12/2010 13:40:23
Ale ti arripigli?

Da: XAS16/12/2010 13:40:23
sapete a che ora consegna napoli?per favore

Da: ale7916/12/2010 13:40:28
..vorrei sapere gentilmente tra quanto può essere pronta la soluzione dell atto di civile..grazie mille

Da: claudio16/12/2010 13:42:20
Ma la massima della sent:
Cassazione, Sez. II, 25 ottobre 2010, n. 37843  ????


Anzicché postare la sentenza per esteso, mettete la massima...

Da: nu16/12/2010 13:42:35
bastaaaaaaaaaaaaa state scrivendo tante cazzate...

Da: sil16/12/2010 13:42:36
Napoli alle 17.30

Da: av16/12/2010 13:42:46
vi prego civile

Da: sgh16/12/2010 13:42:52
napoli fino alle 17.30 mi pare

Da: sara.8916/12/2010 13:44:00
raga fate l'atto di civile.
a napoli è un casino. sono tutti fermi e commissari indispettiti.

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