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ESAME SCRITTO 2010
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Da: dottor x16/12/2010 12:33:50
Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 21-09-2010) 25-10-2010, n. 37843     



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Svolgimento  Motivazione  PQM 
REATO IMPOSSIBILE

TENTATIVO


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BARDOVAGNI Paolo - Presidente

Dott. GENTILE Domenico - Consigliere

Dott. PRESTIPINO Antonio - Consigliere

Dott. TADDEI Margherita - Consigliere

Dott. RAGO Geppino - rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

1. G.A. nato il (OMISSIS);

2. A.E. nato (OMISSIS);

3. C.A.G. nato il (OMISSIS);

4. B.S. nato il (OMISSIS);

5. M.G. nato il (OMISSIS);

6. CR.NA. nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 13/07/2009 della Corte di Appello di Milano;

Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;

udita la relazione fatta dal Consigliere dott. RAGO Geppino;

Udito il Procuratore Generale in persona del dott. MAZZOTTA Gabriele ha concluso per l'annullamento senza rinvio limitatamente la conferma della condanna per i capi E) ed F); rigetto nel resto;

Udito per la parte civile Mondialpol Novara l'avv. Losengo Roberto che ha concluso per il rigetto ed il pagamento delle spese;

Uditi i difensori avv.ti Pezzoni Claudia (per B. - M. e G.) e Colaleo Luigi (per C.) i quali hanno concluso per l'accoglimento del ricorso.


Svolgimento del processo
p. 1. Con sentenza del 13/07/2009, la Corte di Appello di Milano confermava, in punto di responsabilità, la sentenza pronunciata in data 17/07/2008 dal Tribunale della medesima città con la quale CR.Na. - G.A. - C.A. - B. S. - M.G. e A.E. erano stati ritenuti responsabili dei delitti di ricettazione e tentata rapina aggravata. p. 2. Avverso la suddetta sentenza, tutti i suddetti imputati hanno proposto ricorso per cassazione. p. 2.1. G. ha dedotto violazione degli artt. 56 e 628 c.p. per avere la Corte ritenuto la configurabilità del tentativo, nonostante fosse stato arrestato in un momento in cui la presunta progettata rapina al furgone portavalori della Mondialpol non fosse ancora in esecuzione. Infatti, il suddetto furgone sarebbe passato dal luogo dove egli, insieme agli altri coimputati, fu sorpreso dalla Polizia, solo dopo due ore, e le armi con tutta l'attrezzatura per eseguire la rapina erano ricoverate in un box - nella disponibilità di uno dei coimputati - che si trovava ad una distanza di circa km 4,5. In altri termini, ci si trovava di fronte ad atti meramente preparatori e non esecutivi che non avevano alcuna idoneità causale a ledere il bene giuridico protetto. Infatti, la suddetta riunione non era altro che il momento in cui avrebbe dovuto perfezionarsi l'accordo a commettere il delitto, delitto dal quale, però, esso ricorrente ben avrebbe potuto pur sempre ancora desistere. p. 2,2. C. ha dedotto i seguenti motivi:

1. Violazione dell'art. 415 bis c.p.p. per non essere stato sentito dal P.m. nonostante lo avesse espressamente richiesto;

2. Illogicità della motivazione per non avere la Corte territoriale creduto alla tesi difensiva secondo la quale esso ricorrente si trovava sul luogo dell'arresto solo per una "disgraziata circostanza fortuita" nonostante la suddetta tesi fosse stata confermata da prove testimoniali e documentali. La Corte, infatti, aveva tratto il suo convincimento sulla base di illazioni prive di alcun riscontro anche solo presuntivo, trascurando di dare conto degli elementi favorevoli indicati dalla difesa;

3. Violazione degli artt. 56 e 628 c.p. si tratta dello stesso motivo proposto dal G.;

4. violazione dell'art. 648 c.p. per avere la Corte ritenuto la configurabilità del reato di ricettazione delle armi e del furgone che sarebbero serviti per la rapina, nonostante esso ricorrente non avesse mai avuto la disponibilità delle armi nè fosse intervenuto nell'acquisito o ricevimento dei suddetti beni;

5. violazione dell'art. 62 bis c.p. per non avere la Corte concesso la suddetta attenuante nonostante fossero state indicate le ragioni che avrebbero dovuto indurre la Corte ad accogliere la richiesta (eccessività della pena - minore intensità del dolo e alla partecipazione nel fatto). p. 2.3. M., ha dedotto i seguenti motivi:

1. violazione degli artt. 56 - 628 c.p. si tratta dello stesso motivo dedotto dal G.;

2. violazione dell'art. 192 c.p.p., comma 2 per avere la Corte territoriale ritenuto la responsabilità di esso ricorrente sulla base di elementi che non presentavano i requisiti della gravità, precisione e concordanza. Invero, il nome del M. risultava solo nell'intercettazione telefonica del (OMISSIS) (ossia il giorno della tentata rapina), alle ore 7,52 quando venne contattato dal Ma. (uno dei coimputati) il quale gli chiese di rendersi disponibile tutto il giorno. Tuttavia, esso ricorrente rispose che poteva esserlo fino alle ore 16,30, orario in cui doveva recarsi a prelevare i bambini a scuola. Ed era poi significativo il fatto che "nè il giudice nè l'attività investigativa riescono a chiarire con quali modalità e funzioni il M. sarebbe stato introdotto nella struttura criminale". In particolare, quanto al preteso ruolo avuto nella manomissione della centralina dei furgoni navetta, nulla era stato provato, anche perchè non era neppure certo che fossero state manomesse ed i testi Be. e V., incaricati dalla Mondialpol di effettuare una perizia sulla centralina di uno dei furgoni, aveva reso dichiarazioni discordanti e prive di credibilità scientifica tant'è che esso ricorrente aveva provveduto a querelare il legale rappresentante della Mondialpol per simulazione di reato e calunnia. p. 2.4. B. ha dedotto i seguenti motivi:

1. violazione degli artt. 56 e 628 c.p. si tratta dello stesso motivo dedotto dal G.;

2. violazione dell'art. 192 c.p.p., comma 2 per avere la Corte territoriale ritenuto la responsabilità di esso ricorrente sulla base di elementi che non presentavano i requisiti della gravità, precisione e concordanza. Infatti, il preteso ruolo di addetto alla logistica e di collaboratore del Ma. alla studio e all'organizzazione della rapina, era ancorato ad un ordito indiziario privo di alcun pregio giuridico;

3. violazione degli artt. 266 e 271 c.p.p. per avere la Corte territoriale desunto la responsabilità in ordine ai delitti di cui agli artt. 367 e 642 c.p. da colloqui telefonici intercettati ma che erano stati disposti in relazione alla rapina aggravata. Ad avviso del ricorrente, quindi, poichè per i suddetti reati, che prevedevano una pena edittale inferiore nel massimo a cinque anni, non era possibile disporre intercettazioni telefoniche, allora, quelle conversazioni captate per un altro reato per il quale l'intercettazione era stata legittimamente autorizzata non avrebbe potuto essere utilizzata come prova. p. 2.5. CR., ha dedotto i seguenti motivi:

1. contraddittorietà e illogicità della motivazione per avere la Corte territoriale ritenuto provata la penale responsabilità per il delitto di concorso in tentata rapina aggravata pur avendo esso ricorrente offerto "una più che plausibile spiegazione alternativa" all'ipotesi accusatoria in ordine alla sua conoscenza con il D. D. (altro coimputato), all'incontro avuto con il Ma., all'impossibilità di manomettere l'impianto GPS non avendo mai egli ricoperto il ruolo di capo equipaggio il quale solo aveva la possibilità di intervenire sul sistema;

2. violazione delle norme in ordine al trattamento sanzionatorio: si duole il ricorrente che, in modo illogico, era stata ritenuta la semplice equivalenza fra la circostanza aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 7 e le attenuanti generiche e che il trattamento sanzionatorio, in violazione delle regole di cui all'art. 133 c.p., era stato eccessivo tenuto conto che si trattava di rapina tentata e che non era stata valutata in modo equanime la complessiva personalità di esso ricorrente. p. 2.6. A. non ha presentato alcun motivo.

Motivi della decisione
p. 3. violazione degli artt. 56 e 628 c.p.: in via di stretto diritto, in ordine ai principi applicabili in tema di tentativo, va affermato quanto segue.

L'art. 56 c.p., disciplina il tentativo nei delitti e, essendo una fattispecie autonoma rispetto al reato consumato (ex plurimis Cass. 13/6/2001 riv 220330), richiede, come tutti i reati, la sussistenza sia dell'elemento soggettivo che oggettivo.

L'elemento soggettivo è identico al dolo del reato che il soggetto agente si propone di compiere.

L'elemento oggettivo, invece, presenta spiccate peculiarità in quanto ruota intorno a tre concetti:

- l'idoneità degli atti;

- l'univocità degli atti;

- il mancato compimento dell'azione o il mancato verificarsi dell'evento.

La linea di demarcazione fra la semplice intenzione non punibile (secondo il vecchio brocardo cogitationis poenam nemo patitur) e quella punibile si snoda proprio attraverso l'esatta comprensione dei suddetti principi.

Una premessa di natura sistematica: sebbene l'art. 56 c.p. sia l'unica norma che disciplini espressamente il tentativo, tuttavia, utili argomenti si possono trarre, ai fini sistematici, anche dall'art. 115 c.p. a norma del quale "qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di essa è punibile per il solo fatto dell'accordo".

La suddetta norma, evidenzia, quindi, in modo plastico, il principio secondo il quale anche un semplice accordo a commettere un delitto (e, quindi, a fortiori, il semplice averlo pensato) non è punibile (salva l'applicazione della misura di sicurezza) ponendosi all'estremo opposto del delitto consumato.

Ma è proprio fra questi due estremi, ossia fra la semplice cogitatio o accordo (non punibile) ed il delitto consumato che si colloca la problematica del delitto tentato che consiste, appunto, nello stabilire quando un'azione, avendo superato la soglia della mera cogitatio, pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, dev'essere ugualmente punibile.

Il codice penale del 1889 (c.d. codice Zanardelli), influenzato dal codice napoleonico, all'art. 61, punendo "colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione", poneva la soglia di punibilità del delitto programmato nel momento in cui l'agente avesse cominciato l'esecuzione dell'azione: da qui, la distinzione fra atti preparatori non punibili ed atti di esecuzione punibili.

La distinzione, però, creò notevoli problemi interpretativi tanto che il legislatore del 1930 - peraltro anche per precise ragioni ideologiche - abbandonò espressamente il suddetto criterio, introducendo l'attuale art. 56 c.p. che ruota intorno a due criteri:

l'idoneità e la inequivocità degli atti compiuti dall'agente, nel senso che, solo ove l'azione presenti le suddette caratteristiche, l'agente può essere punito a titolo di tentativo.

Il dibattito (dottrinale e giurisprudenziale), però, si è riacutizzato perchè, mentre prima la domanda era quali fossero i criteri per stabilire la differenza fra atti preparatori (non punibili) ed atti di esecuzione (punibili), ora la questione consiste nell'individuare la linea di confine che separa il semplice accordo (o la mera cogitatio), non punibile, dagli atti idonei inequivoci, punibili. In ordine al concetto di idoneità degli atti (e non del mezzo come prescriveva il codice Zanardelli), l'opinione maggioritaria sia della dottrina che della stessa giurisprudenza di questa Corte, è alquanto compatta nel ritenere che un atto si può ritenere idoneo quando, valutato ex ante ed in concreto (c.d. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo (ed criterio di valutazione su base parziale: ex plurimis Cass. 9/12/1996, Tansino, rv 206562), il giudice, sulla base della comune esperienza dell'uomo medio, possa ritenere che quegli atti - indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei - erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata: ex plurimis Cass. 40058/2008 riv 241649 (in motivazione) - Cass. 43255/2009 riv 245721 - Cass. 27323/2008 riv 240736 - Cass. 34242/2009 riv 244915.

Tanto risulta confermato anche dall'art. 49 c.p., comma 2 che è la norma speculare dell'art. 56 c.p. nella parte in cui dispone la non punibilità per l'inidoneità dell'azione. Più controversa è la nozione di univocità degli atti. Secondo una prima tesi "anche gli atti preparatori possono configurare l'ipotesi del tentativo, allorquando essi rivelino, sulla base di una valutazione ex ante e indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei, l'adeguatezza causale nella sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto, dimostrando contemporaneamente, per la loro essenza ed il contesto nel quale s'inseriscono, l'intenzione dell'agente di commettere il delitto":

Cass. 27323/2008 riv. 240736 - Cass. 43255/2009 Rv. 245720 "L'atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione "ex ante" e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto" - Cass. 40702/2009 Rv. 245123.

E' la c.d. tesi soggettiva in base alla quale, appunto, la prova del requisito dell'univocità dell'atto può essere raggiunta non solo sulla base dell'atto in sè considerato ma anche aliunde e, quindi, anche sulla base di semplici atti preparatori qualora rivelino la finalità che l'agente intendeva perseguire.

Ad avviso, invece, di un'altra tesi, "gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, come inizio di esecuzione, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata, in quanto la univocità degli atti indica non un parametro probatorio, ma un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta; ne consegue che non sono punibili, a titolo di tentativo, i meri atti preparatori": Cass. 9411/2010 Rv. 246620 - Cass. 40058/2008 cit. - Cass. 36283/2003 riv 228310 - Cass. 43406/2001 riv 220144.

"Se è vero, infatti, che il legislatore del 1930, obbedendo a sollecitazioni politiche dell'epoca, aveva ritenuto di allargare l'area del tentativo punibile redigendo il testo dell'art. 56 c.p., non è men vero che gran parte della dottrina e della giurisprudenza hanno dimostrato l'illusorietà del proposito che, con quel mezzo, si intendeva attuare. Ciò perchè atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se l'idoneità di un atto può denotare al più la potenzialità dell'atto a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall'inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente": Corte Cost 177/1980.

E' la c.d. tesi oggetti va secondo la quale gli atti possono essere considerati univoci ogni qualvolta, valutati in quel singolo contesto, rivelano, in sè e per sè considerati, l'intenzione dell'agente (ed criterio di essenza). Per questa tesi, quindi, "la "direzione non equivoca" indica, infatti, non un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sè rivelare l'intenzione dell'agente.

L'univocità, intesa come criterio di "essenza", non esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e l'id quod plerumque accidit, l'intenzione, il fine perseguito dall'agente": Cass. 40058/2008 cit..

E' evidente il punto di frizione fra le due tesi. Infatti, mentre per la tesi soggettiva, l'univocità va valutata sulla base delle circostanze concrete (con la conseguenza che si determina, sul piano della repressione penale, un arretramento della soglia di punibilità, in quanto anche gli atti in sè preparatori, possono, a determinate condizioni, essere considerati univoci), al contrario per la tesi oggettiva, l'univocità coincide con l'inizio degli atti tipici di un determinato reato (con conseguente spostamento in avanti della soglia di punibilità, escludendosi l'univocità degli atti meramente preparatori).

Questa Corte ritiene che la tesi ed oggettiva non sia condivisibile perchè, riproponendo, di fatto, l'antica problematica di cui si discuteva sotto il codice Zanardelli, opera un'interpretazione abrogans della nuova normativa, lasciando insoluti, in specie per i reati a forma libera, quegli stessi interrogativi che avevano indotto il legislatore del 1930 a rivedere radicalmente l'intera normativa.

Infatti, nella Relazione al progetto definitivo al codice penale, si trova scritto: "innovazioni radicali sono state introdotte nella disciplina del tentativo, sopprimendo la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi".

Si ritiene, quindi, che la tesi più corretta sia quella soggettiva per i motivi di seguito indicati.

Il punto di partenza, per una corretta esegesi dell'art. 56 c.p., non può che essere il dato storico: come si è detto, fu proprio per evitare le incertezze interpretative derivanti dall'individuare quali fossero i mezzi che potevano essere considerati inizio dell'esecuzione criminosa (problema che diventava quasi irresolubile per i reati a forma libera) che il legislatore del 1930 s'indusse ad abbandonare la formula che parlava di "cominciamento" "mezzi" "esecuzione".

Nel nuovo art. 56 c.p., infatti, non si parla più di mezzi ma di atti idonei (in contrapposizione agli atti inidonei di cui all'art. 49 c.p., comma 2) e di azione che non si compie o di evento che non si verifica.

La terminologia adoperata dal legislatore è molto importante: una cosa è parlare di cominciamento dell'esecuzione con mezzi idonei, altro è parlare di azione non compiuta e di atti idonei a commettere il delitto.

E' evidente, infatti, l'arretramento della soglia di punibilità, laddove si consideri che i termini "azione" ed "atti", indicano, proprio a livello semantico, una maggiore estensione rispetto alla più ristretta categoria degli atti esecutivi.

In altri termini, il legislatore ha focalizzato la sua attenzione non solo sull'esecuzione ma anche sull'azione.

Ora, siccome l'azione è quell'attività umana composta da uno o più atti, ne deriva, proprio sul piano logico (oltre che semantico) che il tentativo è punibile non solo quando l'esecuzione è compiuta ma anche quando l'agente ha compiuto uno o più atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto.

Sul punto, è lo stesso art. 56 c.p. che offre utili spunti di riflessione nella parte in cui dispone che il delitto tentato si verifica in due ipotesi: 1) quando l'azione non si compie (c.d. tentativo non compiuto); 2) quando l'evento non si verifica (ed tentativo compiuto).

Sebbene si sia soliti attribuire poca importanza alla suddetta distinzione, in quanto la si assimila a quella del codice Zanardelli fra "delitto tentato" e delitto mancato" (peraltro sanzionato più gravemente), il dato di fatto semanticamente rilevante è che non si parla di "delitto tentato o mancato" ma di azione non compiuta e di evento non verificatosi.

Il suddetto dato non può non avere una sua rilevanza giuridica.

Infatti, quando la legge adopera la locuzione "evento che non si verifica" è chiaro che ipotizza il caso dell'agente che ha compito l'esecuzione degli atti tipici del delitto programmato, ma che questo non si è verificato per un fatto indipendente dalla sua volontà (ad es. l'agente ha sparato a Tizio ma questi, all'ultimo momento, casualmente, si è spostato, facendo, quindi, fallire l'attentato).

Se, quindi, la legge ha già previsto la punibilità dell'esecuzione degli atti di un delitto, quando prevede la punibilità anche dell'azione, necessariamente non può che far riferimento ad un qualcosa che precede l'esecuzione vera e propria, ossia quell'insieme di atti (o semplice atto) che, sebbene non esecutivi, valutati unitariamente, abbiano l'astratta attitudine a produrre il delitto programmato. L'azione, lo si ripete, è un termine molto ampio ed indica il risultato finale del compimento di un atto o più atti, e contiene, in sè, tutti gli elementi che consentono di affermare, sia pure ex post, che quell'azione era idonea, ove portata a termine (rectius: eseguita) a perpetrare il delitto programmato.

Ciò, quindi, permette di affermare che ci si trova di fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi in cui l'agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Quanto appena detto, trova una conferma negli speculari commi terzo e quarto dell'art. 56 che, ancora una volta, confermano i due livelli del tentativo punibile (sanzionati in modo differente): la desistenza dell'azione nel senso sopra specificato, nel quale caso, la norma prevede che l'agente risponde degli atti compiuti solo se questi costituiscano un reato diverso; l'impedimento, da parte dell'agente, dell'evento determinato dal compimento degli atti esecutivi veri e propri, nel quale caso, l'agente risponde pur sempre del tentativo, sebbene con una diminuzione della pena.

E' evidente, quindi, che, anche a livello sanzionatorio, la legge ha voluto distinguere le due tipologie di tentativi che, se non vengono attuati per cause indipendenti dalla volontà dell'agente, vengono puniti allo stesso modo (comma 1), mentre se il delitto non si verifica per la resipiscenza dell'agente, vengono sanzionati diversamente rendendo, pertanto, palese che l'azione che non si compie (o dalla quale l'agente desiste) è un qualcosa che precede l'evento che non si verifica (o compie).

Ed ulteriore conferma può trarsi dall'art. 49 c.p., comma 2 (che rappresenta, per così dire, il lato speculare e contrario dell'art. 56 c.p.) che esclude la punibilità per "l'inidoneità dell'azione" non degli atti esecutivi: il che significa che, per stabilire se ci si trova di fronte ad un tentativo punibile, a parte l'ipotesi del compimento degli atti esecutivi veri e propri (ipotesi considerata espressamente, come si è detto, dall'art. 56 c.p., comma 1 ultima parte), occorre aver riguardo più che all'idoneità dei singoli atti, all'idoneità dell'azione valutata nel suo complesso così come appare cristallizzata in un determinato momento storico, tenuto conto di tutti gli elementi esterni ed interni, conosciuti e conoscibili.

Solo se l'azione viene valutata unitariamente, può aversi un quadro d'insieme dei singoli atti che, se valutati singolarmente, possono anche sembrare in sè inidonei, ma che se inseriti in un più ampio contesto, appaiono per quelli che sono, ossia dei singoli anelli di una più complessa ed unica catena, l'uno funzionale all'altro per il compimento dell'azione finale destinata a sfociare nella consumazione del delitto programmato.

Si può, quindi, concludere affermando che il legislatore del 1930, arretrando la soglia di punibilità del tentativo, ha completamente ribaltato l'impostazione del codice Zanardelli in quanto ora sono punibili non solo gli atti di esecuzione veri e propri ma anche gli atti ad essi antecedenti che, per comodità descrittiva, si possono continuare a chiamare ancora atti preparatori, a condizione però che posseggano quelle caratteristiche si cui si è detto.

Si deve, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: "ai fini del tentativo punibile, assumono rilevanza penale non solo gli atti esecutivi veri propri del delitto pianificato, ma anche quegli atti che, pur essendo classificabili come atti preparatori, tuttavia, per le circostanze concrete (di luogo - di tempo - di mezzi ecc.) fanno fondatamente ritenere che l'azione - considerata come l'insieme dei suddetti atti - abbia la rilevante probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che l'agente si trovi ormai ad un punto di non ritorno dall'imminente progettato delitto e che il medesimo sarà commesso a meno che non risultino percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualità, dovendosi, a tal fine, escludere solo quegli eventi imprevedibili non dipendenti dalla volontà del soggetto agente atteso che costui ha solo un modo per dimostrare di avere receduto dal proposito criminoso: ossia la desistenza volontaria (art. 56 c.p., comma 3) o il recesso attivo (art. 56 c.p., comma 4)". p. 4.1. Tanto premesso in diritto, dalla sentenza impugnata si evince che il fatto è stato ricostruito nei termini di seguito indicati. A seguito di una fortuita segnalazione, la Polizia, sospettando che fosse in preparazione una rapina ai blindati della Mondialpol, iniziò l'intercettazione di alcune utenze telefoniche, nonchè servizi di pedinamento e appostamento.

Dalle suddette indagini, emerse che, in effetti, una banda di nove persone (gli imputati del presente processo e quelli già giudicati con la sentenza n 17988/2010 di questa Corte), stavano organizzando per il giorno (OMISSIS) una rapina ai danni di un furgone blindato della Mondialpol che trasferiva presso il deposito di (OMISSIS) il denaro raccolto presso vari punti commerciali.

Le indagini avevano permesso di chiarire il ruolo che ognuno dei nove avrebbe ricoperto nell'azione - le modalità dell'azione - l'ora in cui la rapina sarebbe avvenuta.

Fu così che la Polizia, anche per evitare una probabile sanguinosa rapina (alcuni dei componenti della banda erano coinvolti in altre rapine dello stesso genere conclusesi con omicidi), decise di intervenire ed arrestare tutte e nove le persone che si trovavano riunite ed appostate nel luogo stabilito per dare inizio all'assalto del furgone. In particolare, nella sentenza impugnata è scritto: "Il gruppo tratto in arresto il (OMISSIS) era composto da persone che per precedenti specifici, per condotte di vita, per essere indagati per analoghi fatti di reato, risultava dedito in via non occasionale alla organizzazione e consumazione di gravissimi reati.

(...). Il gruppo era dotato di armi da guerra di micidiale potenza offensiva, di giubbotti antiproiettile utili nel caso non meramente ipotetico di dover ingaggiare un conflitto a fuoco, di radio ricetrasmittenti, di auto rubate e una anche taroccata, di un furgone pesante per bloccare il blindato portavalori, di flessibili dotati di compressore per forzare le lamiere del furgone, di liquido incendiario per dare fuoco alle auto dopo il loro utilizzo. Le macchine erano già operative e pronte per essere utilizzate avendo a bordo armi, munizioni, guanti per non lasciare impronte, erano occultate nelle immediate vicinanze del luogo di raduno della banda - il piazzale dell'Esselunga di (OMISSIS) - ossia nel garage e nel cortile di Ma.. L'individuazione dell'obiettivo da rapinare era il frutto di uno studio accurato con pedinamento dei mezzi e appostamenti in loco, e soprattutto, era agevolata nell'esecuzione, dai contatti con Cr. - dipendente infedele della Mondialpol - che oltre a fornire loro importanti notizie sui movimenti degli automezzi navetta, si era prestato a manomettere l'impianto GPS così da non permettere all'equipaggio di lanciare efficaci segnali d'allarme e alla centrale operativa di rimanere all'oscuro dell'assalto e da non localizzare l'automezzo. Era già stato posizionato nella mattinata del 6 dicembre il furgone Iveco Daily da utilizzare, come nelle pregresse vicende criminali, per bloccare, speronandolo, il portavalori. Si era potuto verificare una suddivisione di ruoli che vedeva in Ma. il capo, in Cr. il basista, in B. la persona deputata alla logistica e allo studio del colpo tanto da custodire il furgone Iveco, S. e G. erano giunti da (OMISSIS) e avevano preso parte al posizionamento di questo automezzo nel punto in cui sarebbe dovuto avvenire l'assalto, in prossimità dell'uscita dalla tangenziale.

Nove persone erano convenute nel posto stabilito in assenza di alcuna valida ragione alternativa a quella dell'essere coinvolte nel progetto delittuoso, ed erano state tratte in arresto poco tempo prima che si muovessero per portarsi sul luogo di consumazione del reato. Le telefonate tra B. e la fidanzata, del resto, indicavano proprio in quella sera il momento culminante di tutta l'azione e, per lui, il momento in cui avrebbe potuto chiudere con quella vita e rifarsene un'altra in (OMISSIS) insieme alla sua donna e grazie al bottino". La Corte territoriale, dopo essersi fatta carico dei motivi di gravame dei vari imputati, li ha disattesi rilevando che le difese "frazionano le singole azioni in modo da evitare che di esse venga data una lettura congiunta e unificatrice che invece è il senso giuridico del concorso. E peraltro, chi degli imputati sarebbe dovuto essere all'oscuro dei piani: G. era arrivato insieme a S. due giorni prima e il (OMISSIS) aveva partecipato a un incontro con Ma. e B. nel solito posto di riunione del parcheggio dell'Esselunga; A. si era incontrato con Ma. per la consegna del pecorino sardo;

su B. non è il caso di spendere ulteriori argomentazioni;

M. era in giro con Ma. sin dalle otto del mattino non certo per bighellonare come ragazzini che hanno marinato la scuola, visto che Ma. seguiva le operazioni di posizionamento del furgone Iveco, cosa di molto rilievo per non far fallire il progetto, come accaduto in precedenza; C. era partito quella mattina con il volo da (OMISSIS) dopo un contatto telefonico con Ma. e stava per atterrare a (OMISSIS) dove veniva ricevuto da Ma. e M. in tempo più che sufficiente per essere messo al corrente degli ultimi particolari; la riunione interrotta dalla polizia non serviva, ragionevolmente, ad altro che a dettare gli ultimi dettagli con la indicazione da sergente maggiore di B. che li voleva tutti a posto. Poi, giusto il tempo di armarsi ed equipaggiarsi portandosi nel box di Ma. distante solo 4,5km e non ben, come troppo enfaticamente sottolineato dalle difese, tanto che B. e Ma. dicono di averlo scelto per le loro innocue chiacchierate giusto perchè vicino casa e cosi non disturbavano i famigliari. Per il resto, va fatto richiamo alla sentenza anche per ciò che attiene alla pretesa di riscontrare un'ipotesi di reato impossibile per la dotazione del cosiddetto sistema schiuma blocco.

Basti rammentare che l'idoneità va giudicata con prognosi postuma in base alle conoscenze di cui dispone l'agente nel momento in cui avvia il determinismo causale. Nozioni di scuola sorreggono l'assunto del Tribunale e condiviso dalla Corte". In questa sede, i ricorrenti, da una parte, reiterando gli argomenti di merito già proposti avanti ai giudici di merito, sostengono che non vi sarebbero elementi sufficienti per ritenere, ciascuno di essi, coinvolti, nella tentata rapina, dall'altra, sostengono che, a tutto concedere, il tentativo, proprio sotto il solo profilo giuridico, non sarebbe configurabile.

Quanto alle censure di merito, le medesime vanno tutte disattese, perchè la sentenza di appello, letta in uno con quella di primo grado, non evidenzia illogicità e/o incongruenze, avendo chiarito il ruolo di ciascuno degli imputati nella progettata rapina ed avendo disatteso, sulla base di precisi riscontri fattuali (le indagini compiute dalla Polizia) che si trattava di tesi difensive prive della minima credibilità. Pertanto, le doglianze riproposte in questa sede, vanno ritenute nulla più che un inammissibile tentativo di ottenere, in modo surrettizio, una rivalutazione di quegli stessi elementi di merito già presi ampiamente in esame da entrambi i giudici di merito. Quanto alla questione di diritto, secondo la tesi sostenuta da tutti gli imputati, il tentativo non sarebbe configurabile perchè l'azione tipica della rapina (il compimento di atti violenti) non era ancora iniziata quando furono arrestati: in quel momento, infatti, essi ben avrebbero potuto recedere dal proposito criminoso sicchè non potevano essere condannati per un'azione non commessa.

Il caso di specie, è emblematico della problematica di diritto di cui si è parlato.

Si è chiarito che l'art. 56 c.p. prevede e sanziona due ipotesi di tentativo: quello in cui l'azione non si verifica e quello in cui l'evento non si compie, per cause indipendenti dalla volontà dell'agente (nel qual caso le due ipotesi, ai fini sanzionatoti, vengono assimilate) ovvero per resipiscenza dell'agente (nel qual caso, ai sensi dei commi 3 e 4, la sanzione varia).

Si è anche chiarito che l'azione può essere considerata idonea quando, sulla base degli elementi fattuali in atti, può affermarsi che il programma criminoso dell'agente si è ormai concluso e l'agente sta per passare alla fase operativa vera e propria. Nel caso di specie, da quanto emerge dalla sentenza impugnata, il piano operativo era stato completamente esaurito in quanto erano stati effettuati gli appostamenti ed erano stati predisposti i mezzi per eseguire il piano: il furgone Fiat era stato posizionato per lo speronamento; l'allarme Gps dei blindati da assaltare era stato disattivato; tutto l'armamentario necessario per perpetrare materialmente la rapina era disponibile; tutti gli uomini della banda si trovavano sul posto pronti ognuno di essi ad eseguire i compiti che era stato loro assegnato.

E' evidente, quindi, che, tutto era stato predisposto per passare alla fase esecutiva vera e propria (assalto al furgone che sarebbe passato da lì a poco).

Si verte, pertanto, nella prima delle ipotesi considerate: infatti, gli imputati non furono sorpresi ed arrestati mentre, ad es. eseguivano i pedinamenti del furgone blindato o mentre si approvvigionavano delle armi o mentre stavano discutendo delle modalità operative e della distribuzione dei ruoli: in tale ipotesi, invero, sarebbe stato configurabile il reato impossibile per inidoneità dell'azione ex art. 49, comma 2.

Al contrario, vennero arrestati quando tutte le suddette operazioni prodromiche erano già state eseguite e, quindi, l'azione, in sè e per sè considerata, come correttamente ha rilevato la Corte territoriale, era ormai potenzialmente idonea al compimento della progettata rapina. Si sarebbe verificata invece la seconda ipotesi del tentativo ("se l'evento non si verifica") se gli imputati avessero iniziato l'assalto ossia avessero iniziato a compiere gli atti violenti richiesti dalla norma incriminatrice di cui all'art. 628 c.p.): in tal caso, il tentativo si sarebbe potuto ipotizzare ove, per una causa estranea ed imprevista (ad es. intervento delle forze dell'ordine), l'evento non avrebbe potuto essere portato a termine.

Le due ipotesi, però, ai fini sanzionatori, sono equiparate. Ed è del tutto vano che gli imputati sostengano che ben avrebbero potuto recedere: ciò che, in realtà, rileva è che nessuno di essi lo fece perchè tale intenzione non può essere solo ipotizzata ma deve trovare un concreto riscontro fattuale che, nel caso in esame, manca del tutto. In conclusione, le censure proposte da tutti gli imputati ( C.: motivi sub 2-3; G.: motivo unico; M.:

motivi sub 1 - 2; B. motivi sub 1-2; Cr. motivo sub 1) in ordine alla violazione dell'art. 56 c.p. vanno tutte disattese, avendo la Corte territoriale correttamente applicato il principio di diritto supra enunciato. p. 5. C.. p. 5.1. violazione dell'art. 415 bis c.p.p. (motivo sub 1): lo stesso ricorrente afferma che, nell'istanza rivolta al P.m., aveva chiesto di essere esaminato (cfr pag. 2 ricorso). Posta nei seguenti termini, la doglianza è infondata. L'art. 415 bis c.p.p., comma 3 dispone che l'indagato ha facoltà, entro il termine di venti giorni dall'avviso delle conclusioni delle indagini preliminari: 1) di presentarsi per rilasciare dichiarazioni 2) di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio: in tale ultima ipotesi "il pubblico ministero deve procedervi".

La Corte sostiene che l'imputato, tramite il proprio difensore non aveva chiesto di essere interrogato ma aveva formulato una richiesta diversa sulla quale il pubblico ministero non aveva obbligo di rispondere o di provvedere: il ricorrente, infatti, aveva chiesto di essere esaminato ai sensi dell'art. 468 c.p.p..

La decisione della Corte territoriale deve ritenersi corretta in considerazione della natura e del contenuto dell'istanza che indicava un istituto (l'esame: cfr art. 503 c.p.p.) riguardante il dibattimento ed avente un contenuto del tutto diverso dall'interrogatorio (cfr artt. 64 - 65 c.p.p.) previsto dalla norma di riferimento (art. 415 bis c.p.p.). E' vero che sussiste il principio dell'interpretazione (e conservazione) degli atti ma è anche vero che l'autorità giudiziaria (nella specie il P.m.), a fronte di una richiesta - tanto più ove proveniente da un tecnico del diritto - ambigua, contraddittoria e non avente riscontro in alcuna norma processuale, non è tenuta ad interpretarla essendo, pertanto, legittimata a disattenderla non dandovi corso. p. 5.2. violazione dell'art. 648 c.p. (motivo sub 4): la Corte territoriale, avanti alla quale la stessa doglianza era stata sollevata, l'ha disattesa osservando che "prestando il consenso alla rapina ogni complice ha perciò stesso acquisito la disponibilità collegiale e giuridica delle armi funzionali al reato (...)" nonchè la disponibilità "dei beni indicati sub a) tutti di provenienza delittuosa, in tal modo ricettandoli".

La motivazione sia dal punto di vista giuridico che fattuale è ineccepibile in quanto, una volta accertato che l'imputato era ben consapevole di partecipare ad una rapina per la consumazione della quale si sarebbe dovuto far uso di tutto quell'armamentario, è chiaro che risponde non solo del tentativo di rapina ma anche della ricettazione (nella specie sotto il profilo di "ricevere") di tutti quelle cose provento di reato che sarebbero servite per la consumazione del programmato reato. p. 5.3. violazione dell'art. 62 bis c.p. (motivo sub 5): la Corte ha respinto la richiesta di concessione delle attenuanti generiche "a fronte di precedenti penali per gravi fatti di reato dimostrativi di un inserimento nel circuito criminale piuttosto che di una volontà di rimanervi al di fuori". La motivazione non si presta ad alcuna censura sotto il profilo di legittimità anche a fronte della generica doglianza proposta. p. 6. B.. p. 6.1. violazione degli artt. 266 - 271 c.p.p. (motivo sub 5): la censura è fondata. Come si desume dalla impugnata sentenza, nel corso delle intercettazioni telefoniche autorizzate per la sola rapina, emersero indizi a carico dell'imputato anche per i reati di cui ai capi E (art. 367 c.p.) ed F (art. 642 c.p.).

La decisione della Corte territoriale, in ordine all'utilizzabilità delle suddette intercettazioni anche per i reati di cui agli artt. 367 e 642 c.p., non è condivisibile, ritenendo questa Corte di dare continuità a quella giurisprudenza di legittimità secondo la quale "In tema di intercettazione di comunicazioni o conversazioni, la circostanza che non possano considerarsi pertinenti a "diverso procedimento" risultanze concernenti fatti strettamente connessi a quello cui si riferisce l'autorizzazione giudiziale, e che dunque non rilevino i limiti di utilizzabilità fissati all'art. 270 c.p.p., non esclude che siano applicabili, anche a tale proposito, le condizioni generali cui la legge subordina l'ammissibilità delle intercettazioni. Ne consegue che, quando nel corso di intercettazioni autorizzate per un dato reato emergono elementi concernenti fatti strettamente connessi al primo, detti elementi possono essere utilizzati solo nel caso in cui, per il reato cui si riferiscono, il controllo avrebbe potuto essere autonomamente disposto a norma dell'art. 266 c.p.p." Cass. 4942/2004 riv 229999 - Cass. 12562/2010 riv 246594. La soluzione qui accolta, poi, trova, nel caso di specie, un ulteriore argomento derivante dal fatto che, pacificamente, fra i reati in questione e quello di rapina non vi è alcuna connessione probatoria ma solo soggettiva. Da quanto detto consegue:

- l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza, limitatamente ai suddetti reati in quanto, come si evince dalla motivazione, l'unica fonte di prova è costituita proprio dal contenuto delle intercettazioni;

- l'eliminazione delle relative pene per complessivi gg 30 ed Euro 90,00 di multa (cfr sentenza di primo grado). p. 7. CR.. p. 7.1. violazione delle norme in ordine al trattamento sanzionatorio (motivo sub 2): la Corte territoriale ha disatteso la richiesta non solo criticando il Tribunale per aver concesso le attenuanti generiche (sebbene equivalenti) - del che non si poteva che prenderne atto - ma osservando che, in considerazione del ruolo svolto dall'imputato (sabotatore del sistema di allarme dei furgoni blindati), costui aveva "commesso un'azione eticamente spregevole" e concludendo, sia pure implicitamente che il trattamento sanzionatorio doveva ritenersi più che adeguato. Anche la suddetta motivazione non si presta alla generica censura dedotta in questa sede, dovendosi ritenere che la Corte abbia correttamente ed adeguatamente motivato la reiezione dell'istanza. p. 8. A..

Il ricorso presentato da A. è inammissibile non avendo il ricorrente presentato alcun motivo.
P.Q.M.
ANNULLA Senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di B.S. limitatamente ai reati di cui ai capi E) ed F) perchè i fatti non sussistono. Elimina le relative pene per complessivi giorni 30 di reclusione ed Euro 90,00 di multa, nonchè la condanna al risarcimento e rifusione delle spese in favore della costituita parte civile Navale Ass.ni spa. Rigetta il ricorso del B. nel resto.

Dichiara inammissibile il ricorso di A.E. e rigetta gli altri ricorsi. Condanna A. - G. - C. - M. - Cr. al pagamento delle spese processuali e A. anche della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Condanna tutti i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile Mondialpol Novara srl liquidate in complessivi Euro 5.054,40 come da nota spese.

Da: francy67 16/12/2010 12:33:59
ALE E PAKOZZO CHE DITE DI QUESTO??

L'esclusione del socio lavoratore da una società cooperativa, incidendo sul rapporto associativo, costituisce un'impedimento allo svolgimento della prestazione mutualistica, che automaticamente comporta la cessazione del rapporto di lavoro, al cui verificarsi, in deroga a quanto disposto dall'art. 40, co.3, ultima parte, Cpc, consegue la devoluzione dell'intera controversia alla cognizione del tribunale ordinario, dovendo considerarsi prevalenti gli aspetti associativi sui profili lavoristici inscindibilmente connessi.

E' quanto stabilito dalla Sezione Lavoro del Tribunale di Bari nella sentenza depositata il 21 dicembre 2004.

(Altalex, 22 aprile 2005. Nota di Vito Amendolagine. Per il commento si rimanda all'articolo di approfondimento dello stesso autore)



| esclusione | socio | cooperativa | tutela d'urgenza | Vito Amendolagine | aspetti associativi |

Tribunale di Bari - Sezione Lavoro, sentenza 21.12.2004

Esclusione socio cooperativa - tutela d'urgenza - aspetti associativi - profili lavoristici - connessione§
(Artt. 40 co.3° e 700, c.p.c., 5 l. 3 aprile 2001, n.142, 9 l. 14 febbraio 2003, n.30, 12 lett. a) e b) l. 3 ottobre 2001, n.366, 1 lett. a) d.lgs.vo 17 gennaio 2003, n.5)

Tribunale di Bari


Sezione lavoro


IL GIUDICE



Sciogliendo la riserva di cui al verbale di udienza del 10.12.2004;

letti gli atti di causa

Osserva

Quanto segue.

Il ricorrente ha adito, ai sensi dell'art 700 c.p.c., questo Giudice del Lavoro,chiedendo di emettere nei confronti delle società resistenti i seguenti provvedimenti:

Dichiarare inefficace o invalida l'esclusione dalla qualità di socio della cooperativa convenuta, deliberata in data 1.09.2004., nonché il licenziamento intimatogli con decorrenza dal 2.09.2004;

Sospendere l'efficacia del licenziamento sino alla decisione di merito e ordinare alle società resistenti BARI ECOLOGIA SCARL ed ECORIPA s.r.l. l'immediata reintegra del lavoratore nel posto di lavoro e nella retribuzione.

Si costituiva ritualmente la convenuta, eccependo in via preliminare l'incompetenza per materia e funzionale del giudice adito e assumendo essere competente sulla domanda esclusivamente il tribunale ordinario.

Ciò premesso in fatto, il giudicante osserva che si configura fondata l'eccezione preliminare di incompetenza formulata dalla parte resistente per le ragioni di seguito indicate.

La risoluzione della delicata questione della competenza e del rito applicabile alle controversie tra cooperativa e socio lavoratore richiede un esame del panorama normativo, anche alla luce del recente intervento di riforma operato dalla legge 14 febbraio 2003, n.30.

La materia è regolata dall' art 5 legge 3 aprile 2001 n.142.

Prima di tale intervento legislativo era prevalente in dottrina e in giurisprudenza la tesi secondo cui, poiché le cooperative di lavoro hanno come scopo mutualistico quello di procurare occasioni di lavoro ai propri soci, la prestazione lavorativa di questi costituirebbe adempimento del contratto sociale quale conferimento; secondo questo approccio ermeneutico, dunque, sarebbe stata applicabile la disciplina in materia societaria, e non le norme sul lavoro subordinato.

Massima espressione di questo orientamento è costituito dalla sentenza della Corte Costituzionale 12 febbraio 1996 n.30, in cui si colgono gli elementi differenziali che contraddistinguono la posizione del socio lavoratore rispetto a quella del prestatore di lavoro subordinato: in particolare, l'essere il primo vincolato da un contratto che, oltre ad obbligarlo ad una prestazione continuativa di lavoro in stato di subordinazione rispetto alla società, lo rende altresì partecipe dello scopo dell'impresa collettiva.

Successivamente, la giurisprudenza di legittimità ha esteso al socio lavoratore la disciplina processualistica del lavoro attraverso l'inquadramento della fattispecie nell'ambito dei rapporti di lavoro parasubordinato di cui all'art.409 c.p.c.(CASS. SEZ. UN. 30 ottobre 1998 n.10096).

La legge n.142/2001 segnava una svolta storica, costituendo il superamento degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali sopra citati.

In particolare, tale normativa si segnalava per l'adozione del doppio rapporto-societario e di lavoro:

quest'ultimo allora definito ulteriore e distinto, e dunque, configurazione di una pluralità di fattispecie negoziali collegate.

Quanto alla competenza, l'art.5 della legge de qua devolveva le controversie relative ai rapporti di lavoro in qualunque forma al giudice del lavoro. Rimanevano, invece, di competenza del Tribunale ordinario le controversie inerenti al rapporto associativo.

Tale disciplina, esemplare per la chiarezza, è stata di recente modificata dall'art.9 della legge 14 febbraio 2003 n. 30, in cui, oltre a stabilire che il rapporto di lavoro si estingue con il recesso e l'esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli articoli 2526 e 2527 c.c., si affidano al Tribunale ordinario le controversie tra socio e cooperativa relative alle prestazioni mutualistiche.

L'esclusione del socio lavoratore viene, dunque, a configurarsi, nel nuovo testo dell'art.5 comma 2, come causa di estinzione ope legis del rapporto di lavoro.

Il duplice rapporto che lega il socio lavoratore alla cooperativa può, dunque, essere qualificato in termini di collegamento negoziale unilaterale: se cessa il rapporto sociale, viene meno automaticamente anche il rapporto di lavoro. Viceversa, la cessazione del rapporto di lavoro non determina affatto di per sé la cessazione del rapporto sociale.

La ricostruzione del rapporto tra socio lavoratore e cooperativa in termini di collegamento negoziale unilaterale contribuisce a risolvere anche la delicata questione della competenza e del rito applicabile alle controversie in oggetto. Da tale ricostruzione, infatti, si desume quanto meno una prevalenza del rapporto sociale rispetto a quello di lavoro.

È certo che il legislatore del 2003 ha complicato notevolmente la questione, sostituendo ad un principio generale chiaro(se la causa verte sul rapporto associativo, cognizione del giudice civile;se verte sul rapporto di lavoro, cognizione del giudice del lavoro) un altro principio ermeneuticamente oscuro, attraverso l'attribuzione della cognizione al giudice civile nelle controversie attinenti alla prestazione mutualistica.

Una ragionevole proposta di lettura è stata quella di chi ha interpretato la novella, anche per la sua collocazione topografica nell'art.5 co. 2, subito dopo la previsione della cessazione ex lege del rapporto di lavoro in caso di estinzione individuale del rapporto sociale, nel senso che precluderebbe al giudice del lavoro solamente la cognizione delle controversie relative al recesso o all'esclusione del socio, malgrado questi eventi abbiano appunto effetto estintivo anche del rapporto di lavoro e malgrado possano in ipotesi essere stati originati da condotte plurioffensive(che costituiscono, cioè, inadempimento su entrambi i piani).Pertanto il giudice del lavoro dovrebbe restare competente su tutte le controversie inerenti il rapporto di lavoro che non investano anche quello associativo.

Invero, a parere di questo Giudicante, la risoluzione della questione di competenza non può prescindere da un'indagine sul significato che deve attribuirsi al termine prestazione mutualistica: indagine tanto più complicata in assenza di una definizione normativa.

Non convincente appare una lettura della norma che equipari la prestazione mutualistica al rapporto mutualistico: rapporto quest'ultimo avente ad oggetto la prestazione di attività lavorativa del socio.

Da tale interpretazione dovrebbe desumersi che tutte le domande relative ai diversi aspetti del rapporto di lavoro, collegato al rapporto associativo, sarebbero rimesse al tribunale ordinario e non al giudice del lavoro.

Né piace al giudice adito la ricostruzione della prestazione mutualistica in termini di prestazione proveniente dalla cooperativa e non dal socio:quindi come attribuzione mutualistica, vantaggio mutualistico ovvero situazione che trova il suo titolo nel contratto di società e non in quello di lavoro.

La prestazione mutualistica va intesa in senso reciproco e bilaterale.

Di conseguenza questo Giudicante ritiene che la legge n.30 del 2003 non abbia per nulla intaccato la duplice natura del rapporto - associativo e di lavoro - che lega il socio lavoratore alla cooperativa.

Sicuramente la prestazione lavorativa del socio non può considerarsi, seguendo orientamenti anteriori alla legge n. 142 del 2001, mero adempimento del contratto sociale.

Si tratta, infatti, di un rapporto che, sebbene non più distinto, può considerarsi tuttavia ulteriore rispetto a quello associativo e costituisce, pertanto, il titolo giuridico diretto in forza del quale la prestazione lavorativa viene esplicata.

Pertanto, rimane indiscussa la competenza del giudice del lavoro per tutto quanto riguardi i profili inerenti all'attuazione del rapporto di lavoro (che resta ulteriore rispetto a quello associativo), dalle controversie in materia di retribuzione o di contribuzione a quelle in materia di sanzioni disciplinari, o di modalità di svolgimento del rapporto (mansioni, trasferimento ecc.).

Tale competenza discende dalla normativa generale (art.409 c.p.c.)in grado di attribuire al giudice del lavoro le controversie relative ai rapporti di lavoro subordinato e parasubordinato: normativa che non pare possa considerarsi implicitamente derogata dalla previsione del nuovo art.5 co.2.. Potranno, invece, ritenersi sicuramente escluse dalla cognizione del giudice del lavoro le controversie inerenti i rapporti di lavoro sprovvisti degli elementi della subordinazione ovvero della prevalente personalità, continuità e coordinazione richiesti dalla previsione di cui all'art.409 c.p.c., quali le controversie di lavoro dei soci con rapporto di lavoro autonomo.

Giova a questo punto richiamare il principio generale in base al quale la competenza del gudice adito è regolata dal petitum e dalla causa petendi.

Il ricorrente chiede, in primo luogo, la dichiarazione di inefficacia della delibera di esclusione da socio, sicchè la proposizione di tale domanda di per sé già vale ad individuare nel Tribunale ordinario il giudice competente a conoscere della causa.

È evidente che il ricorrente sia, quanto meno formalmente socio, essendo stata formalizzata la sua domanda di ammissione a socio in data 14/07/2003. Con tale atto il ricorrente, oltre ad obbligarsi al versamento di una quota del valore nominale di euro 129,12 quale tassa di ammissione, dichiarava di conoscere lo statuto e il regolamento interno della cooperativa e di accettarli integralmente.

L 'esclusione da socio, deliberata in data 1/09/2004, ha dunque determinato ope legis la cessazione del rapporto di lavoro che legava il R. alla BARI ECOLOGIA S.C.A.R.L.

Invero, la controversia sull'esclusione del socio, la quale è per definizione potenzialmente connessa ad una controversia di competenza del giudice del lavoro, non subisce l'attrazione del rito del lavoro (a meno di non voler considerare pleonastica la norma speciale).

La norma sulla competenza di cui all'art.5 co.2 della legge n.142 sicuramente non ha derogato alla normativa generale di cui all'art. 409 c.p.c.; tuttavia, essa costituisce una deroga alla norma di cui all'art.40, co.3, la quale prevede che le cause accessorie,di garanzia, pregiudiziali, sulla compensazione o riconvenzionali siano attratte dal rito del lavoro. La legge di riforma ha, dunque, introdotto un'eccezione alla vis attractiva prevalente di cui - ai sensi dell'art. 40, 3° comma - il rito del lavoro è munito rispetto a quello ordinario.

Per quanto finora si è detto va affermata la competenza del Tribunale ordinario in relazione alle controversie tra socio e cooperativa attinenti alla prestazione mutualistica e, dunque, anche alla possibilità di svolgere o meno tale prestazione.Tale possibilità è negata in radice dall'esclusione la quale, incidendo sul rapporto associativo, fa automaticamente venir meno anche quello di lavoro.

L'esclusione del socio, pertanto, è un aspetto strettamente attinente alla prestazione mutualistica e alla possibilità di svolgere tale prestazione.

Lì dove la controversia presenti un'inscindibilità tra aspetti associativi e profili lavoristici, come nel caso de quo, i primi devono ritenersi assorbenti e ciò incide anche sul piano della competenza, in deroga alla previsione dell'art. 40 co.3, c.p.c.

Rimane, invece, ferma in base alla normativa generale di cui all'art.409 c.p.c. la competenza del giudice del lavoro per tutti gli aspetti strettamente attinenti al rapporto di lavoro, ove questi presenti i requisiti della subordinazione e della parasubordinazione.

Inoltre, è opportuno evidenziare come, quand'anche questo Tribunale avesse rigettato l'eccezione di incompetenza al fine di dichiarare l'illegittimità del licenziamento e la reintegra del dipendente nel posto di lavoro, questo risultato non sarebbe stato in concreto perseguibile, ostandovi il disposto dell'art.2, co.1, della legge n.142/2001.

Tale norma prevede l'estensione ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato

dei diritti previsti dallo Statuto dei Lavoratori, con esclusione dell'art.18 ogni volta che venga a cessare, con il rapporto di lavoro, anche quello associativo. La norma in questione fa, dunque, riferimento all'impossibilità di apprestare i rimedi previsti dall'art.18 laddove il vincolo societario si sia estinto.

Nella fattispecie in esame, come si desume anche dai documenti prodotti in giudizio (comunicazione di esclusione da socio e di licenziamento da lavoratore), l'estinzione del vincolo sociale è cronologicamente anteriore rispetto a quella del rapporto di lavoro.

Pertanto, sarebbe comunque pregiudiziale, rispetto alla domanda di reintegra, l'accertamento preliminare della legittimità dell'esclusione da socio, accertamento questo relativo ad un aspetto societario e, dunque, necessariamente devoluto al Giudice ordinario.

Allo stesso modo devono ritenersi riservate alla cognizione di quest'ultimo le valutazioni inerenti alla sussistenza dell'affectio societatis da parte del ricorrente, nonché quelle concernenti la verifica di una effettiva e non soltanto formale qualità di socio.

Ne consegue la declaratoria di incompetenza del giudice del lavoro e la trasmissione degli atti al Presidente del Tribunale per le determinazioni consequenziali.

Le spese restano compensate.

P.Q.M.

Il Giudice, D.ssa Angela Arbore dichiara la propria incompetenza, e, per l'effetto, rimette gli atti al Presidente del Tribunale.

Le spese sono compensate.

Bari, 21.12.2004

IL GIUDICE
D.ssa Angela Arbore

Depositata in Cancelleria il 21.12.2004

Da: PETRONIO16/12/2010 12:34:35
Cari ragazzi,
complimneti per il Forum.
Sappiate che la soluzione per l'atto di civile trovasi nella sentenza del Tribunale di Verona del 18/03/2009. Il ricorso ex art. 700, in sostanza è inammissibile poiché inammissibile è la domanda cautelare finalizzata ad una pronuncia costitutiva di esclusione del socio. Ed invero, leggendo attentamente la traccia, l'esclusione che compete agli organi o alla persona esattamente indivudiata dallo statuto, ancora non si è avuta (è stata attivata solo la procedura).
Solo allorquando il socio chiede l'accesso ai documenti, quindi, il legale rapp.te della S.r.l. fa inoltrare il 700 per accelerare laprocedura di esclusione, che non spetta però al Giudice. 

Da: seby16/12/2010 12:34:45
Raga qual' è la soluzione  definitiva del civile?

Da: paolaaaa16/12/2010 12:35:19
X CIVILE NON SO SE PUO' SERVIRE

I diritti di controllo del socio accomandante
I diritti di controllo del socio accomandante     PDF     Print     E-mail
Autore: avv. Valerio Sangiovanni  

Mentre sono numerosi gli interventi giurisprudenziali sul diritto di controllo del socio di s.r.l., sono rare le pronunce in materia di diritto di controllo dell'accomandante. Il provvedimento in commento rappresenta un'ottima occasione per esaminare l'estensione di tale diritto, comparandolo con la disciplina prevista per la s.r.l.



Il commento
di Valerio Sangiovanni



Il contesto normativo

Il diritto di controllo dei soci accomandanti è disciplinato nell'art. 2320, comma 3, c.c., secondo cui "in ogni caso essi hanno diritto di aver comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite, e di controllarne l'esattezza, consultando i libri e gli altri documenti della società" [1]. Nella s.r.l. [2] il diritto di controllo del socio è disciplinato nell'art. 2476, comma 2, c.c.: "i soci che non partecipano all'amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all'amministrazione" [3].

In ambedue i tipi societari sussiste dunque un diritto di controllo. "Diritto di controllo" è peraltro un'espressione piuttosto generica, che va concretizzata a seconda delle particolarità dei singoli tipi. Nella s.a.s. il legislatore parla di un diritto "di avere comunicazione" e di un diritto "di controllare l'esattezza mediante consultazione". Nella s.r.l. il riferimento è a un diritto "di avere notizie" e a un diritto "di consultare" libri e documenti. In entrambi i casi il diritto di controllo consiste di più elementi: un diritto "di comunicazione" (ossia di ricevere informazioni) e un diritto "di consultazione" (ossia di verificare libri e documenti). Proprio per il fatto che il diritto di controllo si può esercitare in modi diversi pare più opportuno utilizzare l'espressione plurale, facendo riferimento a "diritti" di controllo.


La titolarità dei diritti di controllo

Le prime questioni da affrontare sono a chi spettino i diritti di controllo (titolarità "attiva" dei diritti) e nei confronti di chi essi vadano esercitati (titolarità "passiva" dei diritti).

Iniziamo a occuparci di titolarità attiva dei diritti di controllo.

Al riguardo si deve osservare che nella s.a.s. l'intera normativa (e anche la disciplina dei diritti di controllo) è imperniata sulla distinzione fondamentale fra soci accomandanti e soci accomandatari. La legge prevede che "l'amministrazione della società può essere conferita soltanto ai soci accomandatari" (art. 2318, comma 2, c.c.). I soci accomandanti sono esclusi dall'amministrazione e "non possono compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per singoli affari. Il socio accomandante che contravviene a tale divieto assume responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali e può essere escluso a norma dell'articolo 2286" (art. 2319 c.c.). Proprio in quanto l'accomandante è escluso dall'amministrazione, egli ha bisogno di controllare l'operato degli accomandatari. L'accomandatario invece, dal canto suo, non ha bisogno della concessione di diritti di controllo, in quanto è amministratore e dovrebbe controllare sé stesso. Quest'ultima affermazione non è - in realtà - del tutto appropriata, se si riflette sul fatto che in una s.a.s. vi possono essere più accomandatari (così come, vedremo meglio sotto, nella s.r.l. vi possono essere più amministratori). Può pertanto capitare che un accomandatario intenda controllare l'operato di un altro accomandatario. Trattandosi di un accomandatario, a rigore non gli spetterebbero i diritti di controllo, riconosciuti dall'art. 2320, comma 3, c.c. ai soli accomandanti. Questa soluzione - troppo legata al dato formale del testo normativo - lascia in realtà insoddisfatti, nella misura in cui vi è una ripartizione dei compiti amministrativi e una correlata esigenza di controllare quanto facciano gli altri amministratori.

Il ragionamento da svolgersi per quanto riguarda la s.r.l. non è, nella sostanza, diverso. L'art. 2476, comma 2, c.c. individua nei "soci", "che non partecipano all'amministrazione", i titolari dei diritti di controllo. Dunque, per essere titolare dei diritti di controllo occorre il sussistere di due presupposti: 1) si deve trattare di soci; 2) si deve trattare di soci che non partecipano all'amministrazione.

Per quanto riguarda il primo elemento (sussistenza della qualità di socio), si tratta di accertare se il soggetto che pretende l'informazione o la documentazione rivesta o meno tale status. Si deve pertanto fare riferimento alle disposizioni che regolano l'acquisto e la perdita della qualità di socio. Problemi particolari si pongono in caso di recesso del socio (art. 2473 c.c.). Il punto essenziale è capire da quando Tizio, che dichiara di recedere, cessi di essere socio: la qualità di socio viene meno con la semplice dichiarazione di recesso o solo nel momento successivo in cui la quota viene liquidata? In assenza di elementi testuali che fanno propendere per una soluzione oppure per l'altra, deve preferirsi un'interpretazione orientata a una tutela sostanziale della posizione del recedente: la determinazione del valore della quota pare questione di così centrale importanza da doversi riconoscere a chi recede il potere di continuare a esercitare i diritti di controllo.

Per quanto riguarda il secondo elemento (non-partecipazione all'amministrazione), la situazione è più complessa. Si deve partire dalla constatazione che nella s.r.l. non necessariamente tutti i soci sono amministratori: si deve distinguere fra soci "puri" (non amministratori) e soci-amministratori. Gli amministratori veri e propri (intendo quelli formalmente nominati tali) "partecipano" all'amministrazione, sono a conoscenza delle vicende della società e - in linea di principio - non hanno bisogno d'informazioni. Invece i soci puri (ossia quelli che non sono amministratori) sono esclusi dall'amministrazione, non sanno come viene gestita la società e per questa ragione, come contrappeso alla loro esclusione dall'amministrazione, hanno il diritto di controllo. Si tratta di soggetti che hanno investito in società e che devono avere il diritto di sapere come il patrimonio sociale viene gestito dagli amministratori.

A ben vedere, però, l'art. 2476, comma 3, c.c. non distingue - in modo lineare - fra soci-amministratori e soci-non amministratori. Se così fosse, alla domanda relativa alla titolarità dei diritti di controllo sarebbe facile da rispondere, nel senso che essi spetterebbero a tutti i soci che non ricoprono formalmente la carica di amministratore. Ma l'art. 2476, comma 3, c.c. utilizza una terminologia diversa; la disposizione distingue fra soci che "partecipano all'amministrazione" e soci che "non partecipano all'amministrazione". Non è dunque decisiva la titolarità della carica di amministratore in sé, ma il fatto di partecipare all'amministrazione.

Bisogna allora comprendere cosa intenda il legislatore con l'espressione "partecipare all'amministrazione". Tale espressione deve interpretarsi tenendo conto di quelle che sono le particolarità dell'amministrazione della s.r.l. dopo la riforma del 2003: "quando l'amministrazione è affidata a più persone, queste costituiscono il consiglio di amministrazione. L'atto costitutivo può tuttavia prevedere … che l'amministrazione sia ad esse affidata disgiuntamente oppure congiuntamente; in tali casi si applicano, rispettivamente, gli articoli 2257 e 2258" (art. 2475, comma 3, c.c.). Nella s.r.l. può dunque operare il sistema di amministrazione disgiuntiva, dove la partecipazione all'amministrazione non è corale: ciascun gestore si occupa di un'area (o comunque gestisce la società autonomamente dagli altri). In un contesto del genere, pur in presenza di una pluralità di amministratori, ciascuno di essi non necessariamente sa ciò che fanno gli altri. Ecco allora che, se essi - oltre che amministratori - sono soci, il diritto di controllo può servire a informarsi sull'operato degli altri amministratori.

Scendendo in maggior dettaglio nell'analisi si deve rilevare che, nel caso di amministrazione disgiuntiva nella s.r.l., trova applicazione l'art. 2257 c.c. La legge prevede che "l'amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri" (art. 2257, comma 1, c.c.). Di conseguenza un amministratore può non sapere quello che sta facendo un altro. La legge specifica che "se l'amministrazione spetta disgiuntamente a più soci, ciascun socio amministratore ha diritto di opporsi all'operazione che un altro voglia compiere, prima che sia compiuta" (art. 2257, comma 2, c.c.). Può tuttavia capitare che il diritto di opposizione non possa esercitarsi in quanto l'amministratore Tizio ignora ciò che sta per compiere Caio (che ha in mente una certa operazione).

Questa situazione problematica (ignoranza di un amministratore relativamente a quanto sta per compiere l'altro) può essere risolta in diversi modi. Il primo è quello di ricostruire un dovere in capo a Caio (che ha in mente una certa operazione) di comunicare a Tizio (altro gestore) l'operazione che sta per compiere, prima che essa venga compiuta. Quest'obbligo è probabilmente ricavabile dal dovere generale di diligenza cui sono tenuti gli amministratori. Se però un dovere di comunicazione preventiva non può essere ricostruito, allora spetta a Tizio attivarsi e chiedere informazioni. Dal momento che Tizio è sia amministratore sia socio della società, egli può attivarsi come amministratore oppure come socio. Se Tizio agisce nel suo ruolo di amministratore, si può affermare un suo "dovere" di attivarsi, mentre se Tizio agisce nel suo ruolo di socio si può affermare un suo "diritto" di attivarsi [4].

In altre parole anche al soggetto che sia socio e contemporaneamente amministratore può essere riconosciuto il diritto di controllo nella misura in cui non partecipa all'amministrazione. Per comprenderci meglio, può essere utile un esempio. Si immagini che in una s.r.l. vi siano tre soci-amministratori, ognuno dei quali - in regime di amministrazione disgiuntiva - segue una certa area della gestione della società: Tizio ad esempio si occupa degli aspetti commerciali, Caio del settore finanziario e Sempronio del personale. A rigore si dovrebbe escludere che tali soci abbiano il diritto di controllo, in quanto amministratori della società e - come tali - "partecipanti all'amministrazione". In realtà una soluzione del genere non è soddisfacente, attesa la ripartizione della funzione amministrativa fra i diversi soci-amministratori. Al contrario: al fine di un'appropriata vigilanza sulla gestione della società, a ciascuno di essi dovrà essere riconosciuto il diritto di controllo nella misura in cui non partecipa all'amministrazione. Dunque si deve ritenere, per tornare all'esempio fatto, che Tizio possa ottenere da Caio informazioni sugli aspetti finanziari e, viceversa, Caio possa ottenere da Tizio informazioni sulle vicende commerciali.

Si può allora arrivare ad affermare che la formulazione dell'art. 2476, comma 2, c.c. non è riuscita perfettamente. Più appropriato sarebbe stato un tenore del genere: "nella misura in cui non partecipano all'amministrazione, i soci hanno diritto …". In questo modo si sarebbe segnalato che, ai fini del riconoscimento dei diritti di controllo, non è decisivo il fatto di essere o non essere amministratore, bensì la misura in cui si partecipa all'attività amministrativa.

Questa soluzione pare confermata alla luce di un'altra particolarità della s.r.l. L'art. 2468, comma 3, c.c. prevede la figura dei soci dotati di diritti particolari; secondo questa disposizione "resta salva la possibilità che l'atto costitutivo preveda l'attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l'amministrazione della società o la distribuzione degli utili". Può dunque capitare che nella s.r.l. vi siano soci che non sono amministratori, ma che sono dotati di particolari diritti riguardanti l'amministrazione della società. Ad essi, a volersi limitare al dato testuale dell'art. 2476, comma 2, c.c., non spetterebbe il diritto di controllo (in quanto partecipano all'amministrazione, mediante l'esercizio dei diritti loro riconosciuti). In realtà questa soluzione lascia insoddisfatti. Molto difatti dipende da quale sia il contenuto del "particolare diritto". Se tale diritto è parecchio limitato nell'oggetto (ad esempio consiste nella mera possibilità di nominare un amministratore), pare poco sensato escludere - per il resto - in capo al socio il diritto di controllo.

In un contesto simile il Tribunale di Taranto, nel luglio 2007, ha avuto occasione di occuparsi di un caso degno di essere riferito [5]. Il socio di minoranza (con il 10% del capitale) di una s.r.l. aveva nominato un amministratore. Quando aveva chiesto di esercitare il diritto di controllo, gli era stato opposto dalla società di non godere di tale diritto trattandosi di un socio che partecipava - mediante tale amministratore - all'amministrazione. Il Tribunale di Taranto rigetta questa eccezione, affermando che il semplice fatto di aver nominato un amministratore non fa assurgere il socio a socio che partecipa all'amministrazione. La partecipazione - difatti - è in capo all'amministratore, non al socio che lo ha nominato.

Infine si noti che la qualità di accomandante (nella s.a.s.) e di socio che non partecipa all'amministrazione (nella s.r.l.) è sufficiente per essere dotato del diritto di controllo. Non ha invece alcun rilievo l'ammontare della partecipazione detenuta.

Determinato a chi spettino i diritti di controllo (titolarità attiva dei diritti), si tratta di comprendere nei confronti di chi essi vadano esercitati (problematica della titolarità passiva).

Nella s.a.s. il diritto di controllo viene esercitato nei confronti della società, la quale opera mediante le persone che la amministrano (ossia gli accomandatari). Nell'ordinanza in commento vengono peraltro convenuti in giudizio sia la società sia il socio accomandatario.

Anche nella s.r.l. il diritto viene esercitato nei confronti della società, che opera attraverso i suoi amministratori.

In entrambi i tipi societari, dunque, la controparte del socio che esercita i diritti di controllo è la società. È però evidente che il socio deve interfacciarsi con gli amministratori, quali soggetti che hanno la rappresentanza della società e possono dare concretezza alle modalità di esercizio dei diritti di controllo.


Le finalità dei diritti di controllo

Identificati i soggetti titolari (attivamente e passivamente) dei diritti di controllo, si tratta di comprendere quali siano le finalità per cui essi vengono concessi dal legislatore.

I diritti d'informazione e di consultazione sono uno "strumento di controllo" in senso lato dei soci sull'operato degli amministratori. Il fatto che i soci siano titolari del potere di controllo è circostanza idonea già di per sé (ossia indipendentemente dal suo effettivo esercizio) a influenzare l'operato dei gestori. Questi, sapendo che i soci possono effettuare delle verifiche, tendono ad agire bene. In ultima istanza i diritti di controllo dei soci contribuiscono ad assicurare una buona gestione della società.

Già dal punto di vista della collocazione sistematica, sia nella s.a.s. sia nella s.r.l., il diritto di controllo è strettamente legato alla materia della responsabilità dei gestori. Per quanto riguarda la s.a.s., l'art. 2320 c.c. - che disciplina la posizione dei soci accomandanti in generale - statuisce, in certi casi, la loro responsabilità; non è casuale che nello stesso contesto dell'art. 2320 c.c. venga regolato il diritto di controllo degli accomandanti. Non diversamente avviene nell'art. 2476 c.c. (dettato per la s.r.l.), la cui rubrica riassume il significato di "informazione" e di "consultazione" con l'espressione - appunto - di "controllo" dei quotisti; l'art. 2476 c.c. è la disposizione che disciplina la responsabilità degli amministratori.

Proprio in considerazione del fatto che i diritti di controllo spettano ai soci non amministratori, la prima funzione del diritto di controllo è la raccolta d'informazioni al fine dell'accertamento della possibile responsabilità dei gestori [6]. I dati e le notizie ottenuti dai soci possono condurre i soci a far valere la responsabilità degli amministratori. Tipicamente il socio opera in due fasi: 1) prima chiede le informazioni e poi, se ritiene che ne sussistano i presupposti, 2) agisce per danni nei confronti dei gestori. La ricerca di dati e notizie da parte dei soci può pertanto avere finalità "repressive".

Sarebbe tuttavia riduttivo ritenere che i diritti di controllo siano finalizzati esclusivamente all'esercizio dell'azione di responsabilità. I dati e le notizie raccolti dai soci possono, invece, servire a numerosi altri scopi.

Uno degli altri contesti in cui il diritto di controllo può assumere importanza è la revoca degli amministratori. La revoca degli amministratori nella s.a.s. segue un regime speciale: "se l'atto costitutivo non dispone diversamente, per la nomina degli amministratori e per la loro revoca nel caso indicato nel secondo comma dell'articolo 2259 sono necessari il consenso dei soci accomandatari e l'approvazione di tanti soci che rappresentino la maggioranza del capitale da essi sottoscritto" (art. 2319 c.c.). Questa disposizione rende più difficile la revoca degli amministratori, facendola dipendere dal consenso degli accomandatari. Rimangono però fermi gli altri casi in cui può essere chiesta la revoca. A tal fine il socio accomandante può aver bisogno di raccogliere informazioni mediante l'esercizio del diritto di controllo. Anche nella s.r.l. il diritto di controllo dei soci può essere finalizzato alla revoca degli amministratori [7].

Più in generale i diritti di controllo sono strumentali all'esercizio di qualsiasi altro diritto che l'ordinamento riconosce ai soci. Ad esempio il diritto di controllo può servire a ottenere informazioni che servono per invalidare le decisioni dei soci (cfr., per la s.r.l., l'art. 2479 ter c.c.).


L'oggetto dei diritti di controllo

La lettura dell'art. 2320 c.c. induce, in un primo momento, a pensare che il diritto di controllo dell'accomandante sia piuttosto limitato. Secondo tale disposizione gli accomandanti hanno diritto "di aver comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite" e "di controllarne l'esattezza, consultando i libri e gli altri documenti della società". Il primo diritto riconosciuto agli accomandanti è quello di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto profitti/perdite. Tale comunicazione non è però fine a sé stessa, ma è finalizzata a consentire l'esercizio di un controllo. La disposizione prevede difatti che bilancio e conto profitti/perdite possano essere controllati e al fine di effettuare questa verifica è possibile consultare i libri e gli altri documenti della società. Rimanendo fermo che la comunicazione di bilancio e conto profitti/perdite avviene una volta sola all'anno, per il resto si deve ritenere che gli accomandanti possano in qualsiasi momento verificarne l'esattezza. Ne consegue che il diritto di consultazione è continuo (purché giustificato dall'esigenza di controllare l'esattezza di bilancio e conto profitti/perdite). La consultazione può avere a oggetto i "libri" e gli altri "documenti della società". Con riferimento ai "libri", si tratterà dei libri obbligatori (libro giornale e libro degli inventari) ai sensi dell'art. 2214, comma 1, c.c. [8]. Inoltre potranno essere consultati le scritture contabili e gli altri documenti indicati nell'art. 2214, comma 2, c.c. [9]. La nozione di altri "documenti della società" è ampia.

Nel caso della s.r.l. l'art. 2476, comma 2, c.c. prevede che i soci che non partecipano all'amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori "notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all'amministrazione".

Quali sono le informazioni che possono essere legittimamente chieste dal quotista agli amministratori della società? L'espressione utilizzata dal legislatore è ampia: "notizie sullo svolgimento degli affari sociali". Il riferimento agli "affari sociali" consente di escludere dal diritto dei quotisti le informazioni che non hanno alcun legame con la s.r.l. (d'altra parte, nella prassi, appare improbabile che un socio chieda agli amministratori notizie su circostanze diverse dagli affari sociali). In ogni caso si deve ritenere che non possano essere chieste informazioni di carattere privato sugli amministratori e sugli altri soci.

Per il resto l'oggetto del diritto d'informazione del socio è, almeno teoricamente, illimitato. Il quotista potrebbe dunque rivolgersi agli amministratori e chiedere di essere informato su una non meglio specificata "situazione della società". A una richiesta del genere dovrebbe tuttavia essere legittimo rispondere in modo altrettanto generico. È difatti ragionevole ritenere che valga un principio di sostanziale corrispondenza fra genericità del dato richiesto e genericità dell'informazione fornita. Il principio di buona fede nell'esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.: "il contratto deve essere eseguito secondo buona fede") può imporre, fra le altre cose, che le richieste d'informazioni presentate dai soci di una s.r.l. siano ragionevolmente dettagliate. A questo riguardo si può segnalare che il Tribunale di Bologna, nel dicembre 2006, ha deciso che il socio deve presentare un'elencazione dei documenti di cui intende fare copia [10]. Nonostante l'esigenza di una certa specificazione della domanda d'informazioni, la richiesta dei soci non deve essere accompagnata da una motivazione.

Le informazioni richiedibili agli amministratori sono varie. Fra le vicende sociali su cui i quotisti hanno diritto di essere informati rientra lo stesso operato dei gestori. Gli amministratori rappresentano la s.r.l. e, nell'esercizio di tale funzione, concludono dei contratti e - più in generale - compiono delle operazioni. I quotisti possono chiedere informazioni su tali contratti e operazioni. In presenza di documenti scritti, quali contratti, è peraltro più probabile una richiesta di "consultazione" del testo piuttosto che di mera "informazione" sul contenuto degli stessi.

Non sempre il mero ottenimento d'informazioni è sufficiente a soddisfare il bisogno informativo del socio. Non è dunque un caso che la legge, oltre al diritto di ottenere dati e notizie, riconosca al socio di s.r.l. il diverso diritto di "consultare". Anche il diritto di consultazione, come quello d'informazione, ha un oggetto molto ampio. Nella s.r.l. la consultazione si estende a tutti i libri sociali e a tutta la documentazione relativa all'amministrazione della società. I libri sociali della s.r.l. sono indicati nell'art. 2478, comma 1, c.c.: 1) il libro dei soci; 2) il libro delle decisioni dei soci; 3) il libro delle decisioni degli amministratori; 4) il libro delle decisioni del collegio sindacale o del revisore. Considerato tuttavia che il libro delle decisioni del collegio sindacale o del revisore è tenuto a cura dei sindaci o del revisore (art. 2478, comma 2, c.c.), la relativa istanza del quotista dovrà essere indirizzata a tali soggetti e non agli amministratori (salvo ritenere che la richiesta debba essere rivolta ai gestori, i quali - a loro volta - contatteranno i sindaci o il revisore). La legge prevede poi espressamente che, oltre che dei libri sociali, i soci possano prendere visione della documentazione relativa all'amministrazione. Va preferita una nozione ampia di "documenti relativi all'amministrazione".

Nella s.a.s. fra il diritto di comunicazione del bilancio e il diritto di controllarne l'esattezza pare sussistere un rapporto di successione temporale nel tempo. L'esercizio del primo diritto deve insomma precedere l'esercizio del secondo. Nella s.r.l., invece, fra il diritto d'informazione e quello di consultazione non sussiste un rapporto di successione temporale. Astrattamente si potrebbe essere portati a pensare diversamente, cioè nel senso che il primo sia preliminare al secondo: il quotista chiede dapprima agli amministratori certe informazioni; se queste non bastano oppure non lo convincono, chiede di consultare la documentazione esistente presso la società. In realtà il socio può esercitare, a sua scelta, il diritto d'informazione oppure quello di consultazione. Informazione e consultazione sono due facce della stessa medaglia, due espressioni dello stesso potere di controllo.

Sulla base di quanto esposto, si deve dunque assumere che l'oggetto dei diritti di controllo dei soci di s.r.l. sia estremamente ampio. In questo contesto si pone il problema se gli amministratori possano opporre un rifiuto all'accesso a certe informazioni che devono reputarsi segrete. Il rischio è quello che il socio possa utilizzare tali dati e notizie a danno della società.

In altri ordinamenti la questione è risolta in modo espresso dal legislatore. Nel sistema tedesco, ad esempio, la legge prevede che gli amministratori possano rifiutare le informazioni e la consultazione quando si deve temere che i soci le usino per scopi estranei a quelli sociali e in tal modo arrechino alla società o a un'impresa collegata un danno non irrilevante (così il § 51a, comma 2, GmbHG) [11].

Nell'ordinamento italiano la legge è invece silente sul punto. Conseguentemente si può sostenere la tesi che il diritto del socio non conosca limite alcuno nella raccolta d'informazioni; una volta ottenuti dati e notizie, il quotista non può però rivelarle a terzi. Questa soluzione è - in linea di principio - condivisibile, anche se porta con sé il rischio di un danno irreparabile alla società. Vi sono cioè dei casi in cui il fine del socio di arrecare danno alla società è talmente evidente che si deve poter affermare un diritto degli amministratori di rifiutare le informazioni. Il caso tipico è quello del quotista che svolge un'attività concorrenziale. A ciò si aggiunga che, contro la possibilità di divulgare informazioni ai soci, si può forse invocare l'art. 99 del codice della proprietà industriale (D.Lgs. n. 30 del 2005), secondo cui "salva la disciplina della concorrenza sleale, è vietato rivelare a terzi oppure acquisire od utilizzare le informazioni e le esperienze aziendali di cui all'articolo 98" [12]. L'art. 98 D.Lgs. n. 30 del 2005 determina quali sono le informazioni segrete. L'applicazione di questa disposizione presuppone che i soci possano qualificarsi come terzi.

La tempistica dell'esercizio dei diritti di controllo

Qual è il momento "giusto" per i soci per esercitare i diritti di controllo? Né la disciplina della s.a.s. né la disciplina della s.r.l. offrono elementi testuali per rispondere con certezza a questa domanda. La risposta deve dunque essere data tenendo in considerazione i principi generali.

La regola di buona fede nell'esecuzione del contratto esige che i tempi (e i modi) dell'esercizio dei diritti di controllo si determinino sulla base anche di quelli che sono gli interessi della controparte (cioè della società). Ad esempio la buona fede nell'esecuzione del contratto impone che, nell'esercizio del diritto di controllo, si scelgano i tempi meno sgraditi alla società. In linea di principio il socio può esercitare in qualsiasi momento i suoi diritti di informazione e di consultazione. La scelta dei tempi deve tuttavia tenere conto degli interessi della società. Per fare un esempio estremo, la richiesta di consultare la documentazione di notte o nel fine-settimana potrebbe essere rifiutata; deve invece essere fissato un appuntamento in un momento diverso (in orari lavorativi), nel corso del quale il socio ottiene l'accesso richiesto. La regola è che, mentre è sempre legittimo l'esercizio del diritto, non possono trovare accoglimento nell'ordinamento fenomeni di abuso.

Dal canto loro gli amministratori, ai quali il socio si rivolge per avere accesso alla documentazione, devono dare seguito tempestivamente alla domanda. Anche se la legge non impone espressamente l'immediata soddisfazione, il principio di buona fede nell'esecuzione del contratto impone di soddisfare con la dovuta celerità la richiesta. Per una soluzione dei casi concreti che si pongono nella prassi si deve fare affidamento sul principio di proporzionalità. Se l'immediata esecuzione della domanda d'informazione o di consultazione ostacola in modo eccessivo l'attività aziendale, gli amministratori sono legittimati a ritardarla per il tempo necessario. Non dovrebbe al contrario essere sufficiente, per opporsi a una tempestiva soddisfazione della domanda del socio, il fatto che ne derivino piccoli disagi. Un certo onere organizzativo è, del resto, implicito nella soddisfazione della richiesta del socio, a maggior ragione quando il quantitativo di documentazione da visionarsi è ampio. Inoltre va tenuto presente che in alcuni casi gli amministratori non dispongono immediatamente delle informazioni o dei documenti richiesti, ma devono recuperarli (o predisporli) e ciò richiede un certo tempo. Il Tribunale di Roma ha avuto occasione di occuparsi, nel dicembre 2007, di un caso in cui l'amministratore della società non aveva dato alcun seguito alle ripetute richieste scritte del socio di avere accesso alla documentazione [13]. Tale comportamento costituisce una condotta ostruzionistica.

In linea di principio il momento ideale per esercitare il diritto di controllo è l'assemblea dei soci. In tale contesto difatti i soci sono già riuniti con gli amministratori e possono rivolgere alla società tutte le domande che desiderano. La convocazione e la tenuta dell'assemblea richiedono un certo sforzo organizzativo e comportano dei costi; se il socio può soddisfare il bisogno informativo partecipando alla stessa, è irragionevole che pretenda - poco prima o poco dopo la riunione assembleare - di ottenere le stesse informazioni. Sul punto si è espressa, nel febbraio 2008, la Corte di Appello di Milano [14]. Questa autorità giudiziaria ha negato che il socio avesse diritto di ottenere il bilancio con allegati nel corso dell'assemblea, in quanto tali documenti erano stati messi a disposizione dei soci prima dell'assemblea e la mancata consultazione degli stessi era ascrivibile unicamente al comportamento del socio. La richiesta del socio è stata ritenuta ingiustificata, oltre che incompatibile con il corso normale di svolgimento della riunione assembleare e con le sue finalità. Nella fattispecie la richiesta del socio non era finalizzata ad analizzare o verificare un qualche dato, bensì intesa a sopperire, in via del tutto generale e onnicomprensivo, a un difetto di previa conoscenza imputabile al solo richiedente. Il consesso era inteso alla discussione e approvazione, non già alla mera consultazione, previamente imputabilmente omessa, del bilancio e dei documenti. La consultazione generale, in quel momento, avrebbe decisamente attardato se non impedito lo svolgimento della riunione e il raggiungimento dei compiti specificamente demandati all'assemblea.

Se - dal punto di vista astratto - l'affermazione fatta (e cioè che, se possibile, il diritto di controllo va esercitato in assemblea) appare corretta, bisogna però riflettere sul fatto che nella s.a.s. non si ha un'assemblea dei soci in senso tecnico. E anche nella s.r.l. l'istituto dell'assemblea ha perso di importanza a seguito della riforma del 2003. Ora, come è noto, si distingue fra "decisioni dei soci" (art. 2479 c.c.) e "assemblea dei soci" (art. 2479 bis c.c.). Di norma, pertanto, capita frequentemente che i diritti di controllo dei soci vengano esercitati - tanto nella s.a.s. quanto nella s.r.l. - al di fuori dell'assemblea.

Sempre con riferimento alla "tempistica" dell'esercizio dei diritti di controllo, vi è da chiedersi se essi siano esercitabili una volta sola oppure a certe scadenze oppure, in ipotesi, in continuazione. Al riguardo pare opportuno distinguere fra la s.a.s. e la s.r.l. Come si accennava, nella s.a.s. vi è un riferimento di carattere temporale: l'art. 2320, comma 3, c.c. parla difatti di comunicazione "annuale" del bilancio e del conto profitti/perdite. Una volta ricevuto il bilancio e il conto profitti/perdite gli accomandanti possono, però, controllarne l'esattezza e questa attività di controllo non pare limitata nel suo contenuto e nella sua durata. Nella s.r.l. invece non vi è alcun legame fra il diritto di controllo e l'annualità del bilancio. Ne consegue che, una volta esercitato il diritto di controllo, il quotista rimane libero di esercitarlo nuovamente in relazione ad altre vicende sociali. Il diritto di controllo nella s.r.l. non è limitato a un certo numero di informazioni o consultazioni all'anno.

In ambedue i tipi societari il socio che abbia ottenuto certi dati dalla società può chiedere chiarimenti oppure altre informazioni o documenti. Naturalmente devono ritenersi illegittime e, dunque, vietate le richieste di specificazioni che costituiscono in realtà un abuso del diritto. Se il socio, ad esempio, chiede una seconda volta informazioni che gli sono già state date, gli amministratori possono rifiutarsi di darle nuovamente. Non risulta difatti esservi alcuna reale giustificazione alla richiesta, che - per di più - crea inutili costi alla società.

Le modalità di esercizio dei diritti di controllo

Dal punto di vista delle modalità di esercizio dei diritti di controllo ci si deve chiedere se la richiesta d'informazioni vada fatta per iscritto o possa essere presentata anche oralmente. Né la disciplina della s.a.s né la disciplina della s.r.l. offrono dati testuali espressi per rispondere a questa domanda. La scelta è pertanto lasciata ai soci, che potranno avanzare le loro richieste sia oralmente che per iscritto.

Lo stesso vale per quanto riguarda le modalità di risposta degli amministratori. Questi possono scegliere le modalità (orali o scritte) che ritengono più appropriate per rispondere ai soci. La scelta fra mezzo orale e mezzo scritto dipende essenzialmente dal tipo e dalla quantità delle informazioni richieste.

Anche con riferimento al "luogo" in cui i diritti di controllo possono essere esercitati non è dato trovare risposte espresse nel testo della legge. Nella s.a.s. si parla di "comunicazione" annuale del bilancio e del conto profitti/perdite. La comunicazione potrebbe avvenire via posta elettronica o cartacea, senza necessità di individuare un luogo fisico di esercizio dei diritti. Tuttavia, dal momento che gli accomandanti possono controllarne l'esattezza consultando i libri e gli altri documenti, può risultare necessario recarsi presso la sede della società; è difatti presso la sede della società che vengono conservati libri e documenti. Gli accomandatari devono pertanto consentire l'accesso agli spazi in cui il materiale si trova. Di norma bisognerà mettere a disposizione una stanza in cui l'accomandante può esaminare, con la dovuta calma, la documentazione. Il discorso appena effettuato per la s.a.s. in merito al "luogo" in cui esercitare i diritti di controllo vale anche per la s.r.l.

Sulla possibilità di delegare a un professionista l'esercizio del diritto di controllo, l'art. 2320, comma 3, c.c. tace. Si deve tuttavia ritenere che nulla osti alla possibilità d'incaricare un professionista. Nell'ordinanza in commento il giudice consente espressamente che sia un professionista a esercitare il diritto di controllo in nome e per conto del socio. Nella s.r.l. l'art. 2476, comma 2, c.c. prevede espressamente che il diritto di controllo possa essere esercitato mediante un professionista di fiducia. Il termine "professionista" è piuttosto generico e pare riferirsi a qualsiasi tipo di professione. Tipicamente l'incarico può essere conferito a un commercialista, a un revisore oppure a un avvocato. Lo statuto potrebbe individuare le categorie di professionisti cui può essere affidato l'incarico: ad esempio i soli commercialisti.

In caso di delega per l'esercizio dei diritti di controllo, non occorre che il delegato eserciti tale diritto congiuntamente al socio delegante. Il professionista può esercitare da solo il diritto, per poi riferirne gli esiti al socio.

Nel contesto qui in esame, un profilo che può assumere una certa rilevanza pratica è quello relativo al segreto. Il professionista incaricato di esercitare il controllo può venire a conoscenza di circostanze sensibili che, in ipotesi, potrebbe poi divulgare a danno della società. Al riguardo si deve ritenere che il delegato che esercita il diritto di controllo in nome e per conto del socio debba mantenere il segreto. Se si tratta di un soggetto tenuto al segreto professionale (ad esempio un avvocato), tale obbligo deriva dalle disposizioni che regolano il segreto professionale. Ma anche quando si tratti di una persona che non è assoggettata a segreto professionale, è lecito assumere che debba mantenere il segreto sui fatti di cui venga a conoscenza nell'esercizio delegato del diritto di controllo. Difatti il conferimento dell'incarico di esercitare il diritto di controllo determina il sorgere di un rapporto contrattuale fra il socio e il delegato e tale rapporto va eseguito secondo buona fede. L'esecuzione secondo buona fede del contratto impone di mantenere il segreto.

Tanto premesso, nulla vieta che il socio pretenda dal professionista la sottoscrizione di un'apposita dichiarazione con cui si impegna a mantenere la riservatezza. In questo modo viene formalizzato un dovere che peraltro, ad avviso di chi scrive, è già desumibile dai principi generali.

Sul punto è possibile poi immaginare un'apposita clausola statutaria, la quale preveda che la possibilità di avvalersi di professionisti per l'esercizio del diritto di controllo sia subordinata al rilascio di una dichiarazione del terzo ai sensi della quale si impegna a non divulgare ciò di cui venga a conoscenza.


Asportazione di originali e asportazione di copie

L'ordinanza in commento si sofferma sul diritto dell'accomandante di estrarre copie. Il tema è legato alla distinta tematica della possibilità di asportare gli originali. In linea di principio questa possibilità deve essere negata. Nella s.a.s. il bilancio e il conto profitti/perdite vengono comunicati agli accomandanti (in copia) e non si pongono dunque problemi di asportazione di originali. Al fine di controllarne l'esattezza, abbiamo già rilevato come la legge consenta agli accomandanti di consultare i libri e gli altri documenti della società. "Consultazione", dal punto di vista letterale, non significa "asportazione". L'asportazione di libri e documenti originali della società può causare ostacoli alla gestione della stessa. La loro asportazione per un breve periodo di tempo può anche essere sostanzialmente priva di conseguenze negative, ma la loro sottrazione per un lungo periodo di tempo è certamente idonea a creare problemi all'operatività, fino - in ipotesi - a determinare l'insorgenza di danni. Il bisogno informativo dell'accomandante, del resto, può essere - in genere - adeguatamente soddisfatto anche se gli vengono date le sole copie della documentazione di cui ha bisogno. Un ragionamento analogo, nel senso che non è consentito asportare gli originali, dovrebbe valere anche per la s.r.l.

Proprio in quanto gli originali non sono disponibili per i soci (dovendo rimanere, in linea di principio, presso la sede della società), acquista particolare importanza la possibilità di fare copia del materiale. La questione non è peraltro disciplinata espressamente né per la s.a.s. né per la s.r.l. e deve essere risolta in applicazione dei principi generali.

Iniziando a riflettere su quanto avviene nella s.a.s., il "diritto di estrazione" non è espressamente menzionato nell'art. 2320, comma 3, c.c., il quale si limita a menzionare il diritto di controllare l'esattezza del bilancio e del conto profitti/perdite consultando i libri e gli altri documenti. La "consultazione" di cui parla la disposizione parrebbe consistere nella sola possibilità di prendere visione dei libri e degli altri documenti (e non nel fotocopiare). Si potrebbe allora sostenere la tesi che, siccome la norma non indica espressamente la possibilità dell'estrazione di documentazione, tale diritto non debba essere riconosciuto. Questo argomento, tuttavia, non può trovare accoglimento, se si vuole garantire sostanza al diritto di controllo. A sostegno della tesi che l'estrazione di copie è consentita solo laddove espressamente prevista dalla legge si potrebbe inoltre addurre il tenore letterale dell'art. 2422, comma 1, c.c. in materia di s.p.a., dove si prevede espressamente che i soci hanno diritto di esaminare i libri "e di ottenerne estratti a proprie spese". Anche questo argomento tuttavia lascia insoddisfatti dal punto di vista di una tutela sostanziale del diritto di controllo, in quanto può oggettivamente risultare complesso verificare la gestione della società senza ottenere copia della documentazione.

In altre parole il problema principale, evidenziato nell'ordinanza in commento, è che la documentazione può essere complessa e ne può essere necessaria un'analisi dettagliata, che tende a essere difficile in breve tempo. Assumendo che, di regola, la consultazione avvenga presso la sede della società, l'accomandante che esercita tale diritto sarebbe costretto a trattenersi presso la sede per ore, se non per giorni. Molto più comoda è la possibilità di estrarre copia della documentazione che può poi essere esaminata con calma altrove.

Un'altra ragione per consentire la possibilità di fare copia della documentazione risiede nel fatto che ci sono casi in cui il materiale deve essere prodotto in altra sede. Se l'accomandante non può portare con sé quantomeno una copia della documentazione, verrebbe impedito nell'esercizio di altri suoi diritti.

Contro la possibilità di asportare copia della documentazione si potrebbe argomentare nel senso che tale diritto può, laddove necessario, essere fatto valere in sede processuale. Si pensi all'art. 210, comma 1, c.p.c., il quale prevede che "il giudice istruttore, su istanza di parte, può ordinare all'altra parte o a un terzo di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l'acquisizione al processo". Addirittura si potrebbe procedere a un sequestro di libri e documenti, stabilendo la legge che il giudice può autorizzare il sequestro giudiziario "di libri, registri, documenti, modelli, campioni e di ogni altra cosa da cui si pretende desumere elementi di prova, quanto è controverso il diritto alla esibizione o alla comunicazione ed è opportuno provvedere alla loro custodia temporanea" (art. 670, n. 2, c.p.c.). Questo argomento (del possibile esercizio in sede processuale come alternativa al diritto di controllo in sede extra-processuale), peraltro, non appare convincente. Bisogna difatti riflettere che il diritto di controllo del socio non è necessariamente preliminare all'esercizio di un'azione in giudizio. Si è visto sopra che sono diverse le finalità per cui può essere esercitato il controllo e il primo di tali fini è, molto semplicemente, proprio l'acquisizione d'informazioni (al di fuori e indipendentemente da un possibile successivo processo).

Rispetto a quanto prospettato finora, la questione non si pone diversamente nella s.r.l. Il diritto del quotista di essere adeguatamente informato sull'andamento della società avrebbe natura solo formale se non potesse concretizzarsi nella possibilità di chiedere copia di libri e documenti. Nella s.r.l. bisogna peraltro dare conto di una particolarità, dal momento che in questo tipo societario è previsto espressamente che il diritto di consultazione possa essere esercitato "anche tramite professionisti". Queste persone, proprio per il loro carattere di professionalità, sono tendenzialmente in grado - pur senza farne copia - di valutare con velocità il significato della documentazione che esaminano. Siffatta possibilità porterebbe a escludere il diritto dei soci di fare copie [15]. Ad avviso di chi scrive, tuttavia, una tutela sostanziale del diritto di controllo è possibile solo estraendo copia della documentazione.

La giurisprudenza è intervenuta più volte in materia di diritto dei soci di estrarre copie della documentazione e può essere utile relazionare brevemente su di essa. Il Tribunale di Roma, nel dicembre 2007, ha affermato che il diritto di ottenere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare i libri e i documenti sociali ricomprende necessariamente quello di estrarre copie [16]. Similmente il Tribunale di Pavia, nell'agosto 2007, ha deciso che il socio di s.r.l. ha diritto di esercitare il controllo sull'attività di amministrazione della società anche attraverso il rilascio di copia di tutta la documentazione afferente la gestione della società [17]. La negazione del diritto di estrarre copia della documentazione vanificherebbe il potere di controllo del socio, stante la complessità dello studio della documentazione, che non può ritenersi esauribile con la sola consultazione della stessa. Il Tribunale di Taranto, nel luglio 2007, ha stabilito che al socio non amministratore di una s.r.l. è riconosciuto il diritto di consultare i libri sociali e i documenti relativi alla gestione e di estrarne copia, senza alcun limite se non quello della buona fede [18]. Il Tribunale di Bologna, nel dicembre 2006, ha stabilito che il diritto di consultazione dei libri sociali e dei documenti relativi all'amministrazione comprende anche la possibilità di estrarne copia [19].

Giunti alla conclusione che il socio (sia di s.a.s. sia di s.r.l.) ha diritto di estrarre copie, si tratta di capire a chi debbano essere imputate le relative spese. Né in materia di s.a.s. né in materia di s.r.l. si trova, nella legge, una risposta esplicita a questa questione.

Con riferimento ai costi per l'ottenimento delle copie, è preferibile la tesi per cui essi sono a carico del richiedente. In questo senso milita quanto stabilisce l'art. 2422, comma 1, c.c. secondo cui i soci hanno diritto di ottenere estratti "a proprie spese". Questa disposizione è dettata per la s.p.a., ma mi pare si possa applicare analogicamente agli altri tipi societari. Dal punto di vista della ratio di questa soluzione, si noti che l'imporre dei costi al socio che vuole esercitare il diritto di controllo disincentiva comportamenti emulativi, senza - con ciò - menomare sensibilmente il suo potere.

Anche relativamente all'aspetto dei costi si registrano alcuni interventi giurisprudenziali. Nel febbraio 2008 la Corte di Appello di Milano, con riferimento a una s.r.l., ha negato che il diritto di controllo del socio sia tanto esteso da poter accollare alla società l'onere di ricerca e analisi dei documenti da fotocopiare e da spedire [20]. Questa autorità giudiziaria aderisce a una tesi restrittiva, affermando che il diritto a "consultare" concerne la previa visione ed esame dei documenti, ma non implica necessariamente e di per sé altre facoltà. Sempre con riferimento a una s.r.l., il Tribunale di Roma - nella già citata ordinanza del dicembre 2007 - ha preso posizione in materia di spese per l'estrazione di copie, affermando che esse sono a carico di chi le richiede, in quanto in tal senso milita l'art. 210, comma 3, c.p.c., secondo cui "se l'esibizione importa una spesa, questa deve essere in ogni caso anticipata dalla parte che ha proposto l'istanza di esibizione" [21]. In realtà è dubbio che dalla disposizione processuale si possa ricavare un principio di diritto sostanziale. Inoltre si deve osservare che la norma del codice di procedura civile disciplina solo l'anticipazione della spesa e non stabilisce chi debba reggerla in via definitiva.

La sentenza

Tribunale di Salerno, sez. I, ord., 16 luglio 2009 - G.U. Colucci - Tizio c. Alfa s.a.s e Caio
Il socio accomandante ha diritto di consultare i libri sociali e la documentazione della società nonché di estrarre copia di tali libri e documentazione.

(Omissis).
Con il suddetto ricorso ex art. 700 c.p.c. è stato chiesto, in particolare, che venga ordinato ai resistenti quanto segue: "di esibire al ricorrente e/o a professionista di sua fiducia, che sin d'ora si indica nella persona del dr. …, con facoltà per il … di estrarne copia, tutti i libri sociali, la documentazione afferente l'amministrazione della s.a.s il cui elenco è puramente indicativo e segnatamente: fatture acquisti e vendite da anno 2004 a 2008; libri contabili acquisti vendite cespiti ammortizzabili anni dal 2004 al 2008; libro giornale 2004-2008; prospetto delle rimanenze con modalità di calcolo e criterio di valutazione adottato anni dal 2004 al 2007; estratto conto credito verso clienti al 31 dicembre degli anni dal 2004 al 2007 nonché al 30 settembre 2008; listino prezzo di vendita materiale dal 2004 al 2008; estratti conto bancari 2006/2007 e al 30 settembre 2008; mod. Unico 2008; dichiarazioni studi di settore dal 2004 al 2007, in ogni caso con condanna di controparte a spese e compensi del procedimento".
Si sono, quindi, costituiti in giudizio la società resistente, il socio accomandatario di tale società … e il socio accomandatario della società stessa … (quest'ultima evidentemente intervenuta spontaneamente, non essendo destinataria delle domande formulate in ricorso), i quali hanno chiesto, in particolare, il rigetto del ricorso, oltre la condanna della parte ricorrente al risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 96 c.p.c. e alle spese del procedimento.
Le domande cautelari formulate in ricorso meritano accoglimento.
Sotto il profilo del fumus boni iuris, va evidenziato che l'art. 2320 c.c. prevede che il socio accomandante ha in ogni caso il diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite, e ha il diritto di controllarne l'esattezza, consultando i libri e gli altri documenti della società.
È chiaro, pertanto, che il socio accomandante ha sicuramente il diritto di consultare i libri sociali e tutta la documentazione della società.
Ne consegue, ovviamente, che il socio accomandante ha anche il diritto di estrarre copia di tali libri e di tale documentazione, in quanto la complessità dei libri sociali e della relativa documentazione è senz'altro incompatibile con una mera visione di essi: soltanto attraverso la estrazione di copia di libri e documenti il socio accomandante può essere posto in condizione di esercitare effettivamente e non in via meramente formale il suo diritto di controllo sullo svolgimento della vita della società.
In ordine, poi, al requisito del periculum in mora, va osservato che senz'altro sussiste nel caso di specie il rischio che, durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, il ricorrente possa subire un pregiudizio imminente e irreparabile.
La impossibilità di controllare lo svolgimento della vita della società, infatti, espone il ricorrente al rischio che si possano verificare vicende sociali che possano pregiudicare in maniera irreversibile i diritti del socio accomandante in quanto, fra l'altro, il mancato controllo potrebbe produrre conseguenze irreversibili o difficilmente reversibili sia sotto il profilo dell'assetto dei rapporti fra i soci sia sotto il profilo della utile gestione dell'attività sociale da parte dell'organo amministrativo della società.
L'eventuale danno per l'accomandante potrebbe, quindi, rivelarsi non riparabile o almeno molto problematico da riparare.
Vanno, pertanto, senz'altro accolte tutte le domande cautelari formulate nel presente procedimento nell'interesse del ricorrente.
(Omissis).

Da: DOLLIDO16/12/2010 12:35:35
ancora non si sa nulla di civile

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Da: raf16/12/2010 12:35:54
mille grazie a raffaella ed a pasqualinok da me.....
la mia donna mi sta facendo uscire pazzo da la' dentro....grazie di nuovo.

Da: Santo16/12/2010 12:36:41
per civile pakozzo?...ale?...dove siete...non sono del mestiere aiutatemi.

Da: cristal16/12/2010 12:36:54
soluzione per l'atto di penale per favore

Da: mARCOLIN8016/12/2010 12:36:55
MA COSA POSSO INVIARE ALLA MIA RAGAZZA X AIUTARLA IN PENALE??
L'ATTO NN L'FA TATTO ANCORA NESSUNO...
GRAZIE INFINITE A TUTTI

Da: carolina16/12/2010 12:37:33
novita da bari???????????????????

Da: kammerl16/12/2010 12:37:34
Qui c'è tutto
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L'ESCLUSIONE DEL SOCIO E LA TUTELA CAUTELARE, TRA DUBBI TRADIZIONALI E RISPOSTE NECESSARIE


Giur. merito 2010, 1, 134

Michele Nardelli
Sommario: 1. Premessa. - 2. Anticipazione cautelare e sentenze costitutive. - 3. Facoltà private e necessità di richieste giudiziarie.


1. PREMESSA
La vicenda sottoposta al giudizio del Tribunale di Verona si è sviluppata nell'ambito di un procedimento cautelare.
Una società a responsabilità limitata e il suo amministratore, hanno chiesto in via cautelare l'esclusione del socio di minoranza e il divieto, per lo stesso, di accedere ai documenti sociali.
A giustificazione processuale della domanda, hanno chiarito che in via ordinaria sarebbe stata chiesta una sentenza costitutiva-dichiarativa, che avesse escluso per giusta causa il richiamato socio di minoranza.
L'amministratore ha anche addotto la volontà di esperire altra azione di merito, tesa ad ottenere in via ordinaria l'accertamento della legittimità del rifiuto opposto alla consegna dei documenti contabili, che il socio di minoranza aveva chiesto di ottenere.
In buona sostanza, quindi, la domanda cautelare è stata proposta al duplice fine di ottenere già con un provvedimento di urgenza l'esclusione del socio, e di ottenere, sempre in via d'urgenza, una pronuncia che legittimasse il rifiuto di consegnare i documenti richiesti dallo stesso socio.
Il Tribunale di Verona ha dichiarato inammissibile l'istanza cautelare.
E ciò ha fatto per entrambe le domande.
Quanto alla seconda, tesa ad ottenere una pronuncia che affermasse la liceità del rifiuto di consegnare i documenti, ha osservato che nel caso sottoposto non potevano dirsi sussistenti l'interesse ad agire e «financo» il pericolo di pregiudizio nel ritardo, perché la consegna dei documenti poteva essere rifiutata in via autonoma. Ovviamente, questo avrebbe potuto comportare la reazione giudiziaria del socio interessato, alla quale la società avrebbe dovuto resistere.
Ma proprio a quest'ultimo riguardo il Tribunale ha osservato che richiedere in via giudiziale una delibazione preventiva sulla legittimità di una futura condotta, avrebbe impedito alla controparte il diritto di agire in giudizio. E soprattutto avrebbe sottratto preventivamente, il soggetto che avesse rifiutato di consegnare i documenti richiesti dal socio, all'eventuale giudizio di responsabilità.
Quanto alla prima, tesa ad ottenere l'esclusione del socio, ha osservato che è dubbia l'ammissibilità di una pronuncia cautelare costitutiva (la revoca anticipatoria dello «status» di socio), laddove l'efficacia di una tale pronuncia è in realtà subordinata alla formazione del giudicato. Ha poi osservato che in ogni caso era inverosimile la sussistenza del pericolo di pregiudizio nel ritardo, dal momento che questo avrebbe dovuto trarsi dalla sola persistenza della qualifica di socio, in un caso in cui il soggetto interessato era privo di poteri gestionali. In questo senso, l'unica facoltà consentita a quest'ultimo, di accedere alle informazioni sociali, rientrava nei motivi di inammissibilità della seconda domanda, dal momento che la società ben avrebbe potuto decidere in via autonoma di non fornire le notizie richieste, salva una successiva decisione giudiziaria.
2. ANTICIPAZIONE CAUTELARE E SENTENZE COSTITUTIVE
Le questioni affrontate dal Tribunale di Verona sono in sostanza tre, così come rappresentate nelle massime.
Nel breve commento che seguirà, si cercherà di affrontarle singolarmente.
A questo proposito, il primo aspetto da approfondire, per i risvolti generali che presenta, che vanno ben al di là del caso specifico, è quello relativo alla seconda massima.
Il Tribunale, nello specifico, ha effettuato una presa di posizione in ordine ad una vicenda che obiettivamente si presenta complessa.
I termini della questione sono però semplici.
In sostanza, si tratta di decidere se si possa invocare una tutela cautelare, allorquando il merito della controversia richieda una pronuncia costitutiva, la cui efficacia sia collegata al passaggio in giudicato della relativa sentenza.
L'argomento che tradizionalmente ha portato ad escludere una tale possibilità, è consistito nella ritenuta insussistenza, prima della sentenza costitutiva, di una posizione soggettiva connotata dall'attualità (1)

(1) In generale Calvosa, Provvedimenti di urgenza, in Noviss. Dig. it., Torino, 1957, 449 e quindi 456, ove si dà conto della tesi per la quale il diritto cautelando dovrebbe essere già sussistente, perché altrimenti non vi sarebbe da temere alcuna lesione dello stesso, e poi si afferma che in realtà anche i diritti potestativi possono essere minacciati dal pericolo di lesione, nelle more del giudizio di cognizione, sicché si conclude aderendo alla tesi della ammissibilità della tutela cautelare anche nei casi in cui la situazione sostanziale necessiti di una pronuncia costitutiva.
(1). In altre parole, solo la sentenza - nei casi della specie - costituirebbe il diritto. Prima della decisione giudiziaria non vi sarebbe invece spazio per una tutela anticipata, rispetto ad un diritto solo sperato, e quindi ancora non suscettibile di tutela (2)

(2) In giurisprudenza cfr. Trib. Torino 12 luglio 2003, in Giur. it., 2004, 538; Trib. Bari, sez. lav., 9 giugno 2008, in www.dejure.giuffre.it; Trib. Marsala 18 novembre 2004, in questa Rivista, 2005, 531; Trib. Roma 5 novembre 2003, in questa Rivista, 2004, 457. In dottrina Satta, Limiti di applicazione dei provvedimenti d'urgenza, in Foro it., 1953, I, 132, ove è affermato che la costituzione provvisoria di un diritto appare inconcepibile e contraddittoria.
.
Tale tesi è stata sottoposta però a una rivisitazione da parte di altro orientamento, nella misura in cui si è evidenziato che anche nel caso della tutela costitutiva può esservi la doverosa necessità di anticipare gli effetti della futura decisione giudiziaria, al fine di non pregiudicare la posizione giuridica del soggetto interessato (3)

(3) In dottrina cfr. Tommaseo, Provvedimenti di urgenza, in Enc. dir., Milano, 1988, 872, il quale nota come in passato il dubbio sulla concedibilità della tutela cautelare, rispetto a diritti la cui assicurazione necessitava di sentenze costitutive, era dato dalla mancanza di una posizione soggettiva connotata dall'attualità (requisito che evidentemente sarebbe conseguito solo alla emanazione della sentenza), e poi afferma che si tratta però di un orientamento caratterizzato da un concettualismo esasperato, tale da pregiudicare l'effettività della tutela costitutiva; Proto Pisani, Provvedimenti d'urgenza, in Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, 387; Dini - Mammone, I provvedimenti d'urgenza, Milano, 1993, 301 ss.; Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, III, 7ª ed., Torino, 1989, 301 s.; Baccaglini, Provvedimento d'urgenza e anticipazione dell'effetto di accertamento della pronuncia di merito. Una questione non ancora sopita, in Resp. civ. prev., 2005, 830 ss. In giurisprudenza Pret. Roma 3 febbraio 1986, in questa Rivista, 1987, 602; Trib. Civitavecchia 5 settembre 2008, in www.deiure.giuffre.it; Trib. Torre Annunziata 21 ottobre 2003, in Dir. e giur., 2005, 112.
(3).
D'altra parte, non si è neppure mancato di osservare come la sentenza costitutiva tutelerebbe un diritto soggettivo preesistente al processo, e che sarebbe stato oggetto di una precedente violazione, sicché non vi sarebbe motivo per negare in tali casi l'applicabilità della tutela d'urgenza (4)

(4) M. Dini - E. A. Dini, I provvedimenti d'urgenza del diritto processuale civile e nel diritto del lavoro, 5ª ed., Milano, 1981, 301 e ss. (e ivi ampia rassegna di dottrina e giurisprudenza a favore delle due tesi). È interessante notare che proprio in base a tale ricostruzione Trib. Torino 2 aprile 2004, in questa Rivista, 2004, 1952, ha escluso che possa emanarsi un provvedimento d'urgenza rispetto ad una azione di merito di revocatoria, posto che mancherebbe, in tale ipotesi, un diritto perfetto preesistente alla pronuncia richiesta al giudice, e la pronuncia cautelare si risolverebbe nella produzione di un anomalo effetto costitutivo anticipato. Sotto altro profilo, mette conto evidenziare che in dottrina (Impagnatiello, Sentenze costitutive, condanne accessorie e provvisoria esecutività, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 3, 751 ss., e specie par. 7), non si è mancato di segnalare la necessità che la regola della immediata esecutività delle sentenze di primo grado sia intesa come riferita anche alle sentenze costitutive, al fine di non discriminare ingiustificatamente la tutela dei diritti potestativi rispetto ai diritti di credito.
.
Per completezza di trattazione, pare opportuno accennare anche alla connessa questione, a sua volta assai controversa, della ammissibilità o non di una cautela che sia completamente satisfattoria del diritto fatto valere, e che abbia quindi effetti astrattamente irreversibili.
Per comprendere appieno la rilevanza della questione può farsi l'esempio del provvedimento che ha autorizzato l'impianto di un embrione (5)

(5) Trib. Roma 17 febbraio 2000, in Giust. civ., 2000, I, 1157 e in questa Rivista, 2000, 527.
, provvedimento rispetto al quale la successiva sentenza che avesse rigettato la domanda sarebbe stata evidentemente inutiliter data. Ancora, può pensarsi alla ipotesi della richiesta di consegna di documentazione da indirizzare nei confronti di una banca (6)

(6) Cfr. Trib. Monza 21 maggio 1997, in Fall., 1998, 83; Trib. Milano 22 gennaio 1997, in Banca, borsa e tit. credito, 1998, II, 433.
, ovvero alla possibilità del socio di srl di accedere ai libri sociali al fine di svolgere il controllo sulla gestione sociale ai sensi dell'art. 2476 c.c. (7)

(7) Cfr. Trib. Messina 5 aprile 2003, in Vita not., 2003, 955; Trib. Ivrea 4 luglio 2005, in D&G, 2005.
.
In tutte tali ipotesi il provvedimento cautelare di accoglimento della domanda recherebbe degli effetti non eliminabili con una sentenza di merito, posto che la documentazione bancaria, o i libri sociali, sarebbero già entrati nella sfera di conoscenza degli interessati. E tuttavia deve considerarsi che anche il mancato accoglimento di una domanda cautelare potrebbe provocare danni irreparabili (8)

(8) Cfr. Trib. Milano 14 agosto1995, in Giur. it., 1996, I, 2, 354.
, sicché si deve essere consapevoli che il dogma della definitività degli effetti, utilizzato in molti casi per escludere la tutela d'urgenza, comporta quale conseguenza il sacrificio, in ipotesi a sua volta irreparabile, di «un diritto la cui esistenza appare probabile», a favore di un diritto che invece potrebbe apparire improbabile all'esito del procedimento cautelare (9)

(9) In tema cfr., in dottrina, Cristiano, I provvedimenti cautelari anticipatori: cenni generali, relazione tenuta all'incontro di studio I nuovi procedimenti in materia di diritto societario, Roma, 3-5 giugno 2003, 2, laddove si nota come l'orientamento restrittivo sembri in via di superamento; Tommaseo, Provvedimenti ..., op. cit., 861 e ivi nt. 28, ove si richiama l'osservazione, del medesimo Autore, per la quale «l'etica della giurisdizione d'urgenza consiste nel sacrificare l'improbabile al probabile». In giurisprudenza, tra le tante, cfr. Trib. Torino 10 dicembre 2003, in questa Rivista, 2004, 671, che ha dichiarato inammissibile la domanda di cancellazione in via d'urgenza della trascrizione di una domanda giudiziale, e Trib. Milano 30 settembre 2002, in Giur. milanese, 2002, 435, che ha invece accolto analoga domanda.
.
E tutto ciò porta ad affermare che la tutela cautelare rappresenta, anche nel caso di situazioni che necessitino - nel merito - di una sentenza costitutiva, come pure nei casi nei quali la anticipazione degli effetti in sede cautelare non consentirebbe il ripristino della situazione fattuale, un istituto ineliminabile di salvaguardia, al pari di ciò che è comunemente affermato in via generale (10)

(10) Cfr. Proto Pisani, in Foro it., 1985, I, 1884 e in Lezioni di diritto processuale civile, 2ª ed., Napoli, 1996, 655, ove si nota anche come la giurisdizione statuale, con il correlato diritto o potere di azione, sia la contropartita del divieto di autotutela privata. Di particolare rilievo sono poi alcune pronunce della Corte Costituzionale, che se da un lato hanno escluso, con riferimento alla riscossione esattoriale, che la potestà cautelare del giudice costituisca una componente essenziale della tutela giurisdizionale, che non per questo, a giudizio della Corte, potrebbe ritenersi priva di effettività (posto che la pronuncia del giudice in sede di giudizio di accertamento negativo, comporta che la P.A. soccombente debba prontamente restituire la somma riscossa e non dovuta: C. cost., sent. n. 63 del 1982, in Foro it., 1982, I, 1216), dall'altro lato hanno poi dapprima ammesso che la tutela cautelare concorre alla maggiore intensità della difesa giurisdizionale (C. cost., sent. n. 318 del 1995, in Foro it., 1995, I, 3092), e quindi che la piena tutela giurisdizionale deve essere assicurata anche in sede cautelare (C. cost., sent. n. 437 del 1995, in Foro it., 1995, 3060), posto che «dall'art. 700 è lecito enucleare la direttiva che, le quante volte il diritto assistito da fumus boni iuris è minacciato da pregiudizio imminente e irreparabile provocato dalla cadenza dei tempi necessari per farlo valere in via ordinaria, spetta al giudice il potere di emanare i provvedimenti d'urgenza che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito» (C. cost., sent. n. 190 del 1985, in Foro it., 1985, I, 1881). In dottrina cfr. altresì Costantino, Una svolta epocale nella giurisprudenza della Corte Costituzionale: si apre una breccia per la sospensione giudiziale della esecuzione esattoriale, in Foro it., 1995, I, 3092, e Cadono i limiti alla sospensione giudiziale della esecuzione esattoriale: passano i bersaglieri nella breccia aperta dalla sentenza n. 318 del 1995, in Foro it., 1995, I, 3060.
.
Tornando alla vicenda in esame, peraltro, e riprendendo l'argomento tradizionalmente usato a supporto della soluzione negativa, non può non evidenziarsi come la funzione della tutela atipica avrebbe dovuto ovviamente essere rivolta ad anticipare gli effetti della futura sentenza (la revoca anticipata dello «status» di socio), e non certamente la sentenza stessa. Sicché anche per questa via non vi sarebbero stati ostacoli alla piena possibilità di apprestare la cautela richiesta, ove chiaramente fossero stati sussistenti gli altri requisiti.
A ben guardare, proprio quest'ultimo aspetto è stato compiutamente valutato quelle volte in cui si è affermato che se in via cautelare è possibile ottenere, ad esempio, la consegna di un immobile, non sarà per contro possibile ottenere il trasferimento della proprietà dello stesso (11)

(11) Cfr. Conte, Sub art. 700, in Codice di procedura civile commentato a cura di Consolo e Luiso, 2ª ed., Milano, 2000, II, 3056. In giurisprudenza cfr. Trib. Torino 21 luglio 2003, in questa Rivista, 2004, 1124, che ha escluso che possa concedersi la tutela atipica per obbligare taluno a concludere un contrat to ai sensi dell'art. 2932 c.c., posto che in tal modo il provvedimento cautelare provocherebbe la costituzione del rapporto giuridico che invece spetta alla sentenza di merito.
.
Sotto un ultimo profilo, non può non evidenziarsi, ad ulteriore conforto della tesi che qui si sostiene, che neppure potrebbe precludere la tutela cautelare, anticipatoria di una sentenza costitutiva, l'argomento per il quale non vi sarebbe la certezza che una sentenza venga poi emessa.
Da un lato, come è noto, le recenti riforme hanno reso non più necessaria l'introduzione dei giudizi di merito a fronte di tutele cautelari che anticipino gli effetti delle future decisioni di merito. La regolamentazione cautelare potrebbe pertanto soddisfare le parti, che liberamente potrebbero decidere di non coltivare il giudizio di merito, e porre in essere esse stesse gli atti giuridici necessari ad attribuire stabilità ai loro rapporti.
Dall'altro lato, e comunque, vale la pena ricordare come la mancata instaurazione del giudizio di merito non precluda, alla stregua degli ordinari istituti giuridici, il prodursi di effetti definitivi, che a loro volta ben possono conseguire ai «meccanismi di stabilizzazione di diritto sostanziale», quali ad esempio la prescrizione e l'usucapione (12)

(12) Cfr. Caponi, Provvedimenti cautelari e azioni possessorie, in Foro it., 2005, V, 136.
.
In conclusione, sul punto, e dato atto che il Tribunale di Verona non ha escluso la possibilità di una tutela cautelare a fronte di una situazione giuridica che necessiti di una sentenza costitutiva, essendosi limitato ad evidenziare che tale soluzione sia dubbia, non può fare a meno di notarsi come in realtà la soluzione affermativa appaia preferibile rispetto a quella negativa.
Nella specie, poi, certamente condivisibile appare la negazione del requisito del pericolo di pregiudizio per la società, e per il socio di maggioranza, che nella prospettazione del ricorso avrebbe dovuto derivare dalla permanenza del socio di minoranza nella compagine sociale. Come appare evidente, se tale soggetto ha quale sua unica facoltà quella di chiedere di prendere visione delle informazioni sociali, e se a tale facoltà la società ben può opporre un rifiuto, salva verifica della legittimità dello stesso in ambito giudiziario, non vi è alcuno spazio per ritenere incombente sulla società un pericolo tale da legittimare l'esclusione cautelare del socio di minoranza.
3. FACOLTÀ PRIVATE E NECESSITÀ DI RICHIESTE GIUDIZIARIE
La prima massima riguarda l'ulteriore domanda sottoposta all'attenzione del Tribunale di Verona.
Si è detto che il socio di minoranza ha richiesto di ottenere la consegna di documenti contabili della società. A fronte di tale richiesta, l'amministratore ha opposto un rifiuto.
L'amministratore ha quindi annunciato di voler intentare un'azione di merito volta ad accertare la legittimità del rifiuto, chiedendo in via cautelare che al socio di minoranza venisse inibita la possibilità di accedere ai richiamati documenti sociali.
La questione che deriva da tale domanda va affrontata sotto due diversi profili.
Essi attengono ai requisiti del pericolo di pregiudizio irreparabile, che in assenza del provvedimento cautelare potrebbe gravare sul ricorrente, e dell'interesse ad agire in sede cautelare, ma più in generale in sede giurisdizionale.
Quanto al primo, giova premettere che un provvedimento è cautelare, o assolve a funzioni cautelari, quelle volte in cui, insuscettibile esso stesso di apprestare una regolamentazione definitiva al contendere, miri più semplicemente ad assicurare gli effetti di una sentenza di merito che probabilmente riconoscerà la fondatezza delle ragioni del ricorrente (fumus boni iuris), e la cui attesa probabilmente causerebbe dei danni allo stesso ricorrente (periculum in mora).
Come si evince da ciò, per ottenersi una tutela cautelare è necessario che i tempi del giudizio ordinario siano incompatibili con una pronta tutela della situazione giuridica soggettiva del ricorrente.
Si badi che ai fini del requisito in esame, ed anche nella prospettiva di definire i confini tra lo stesso e l'interesse ad agire, non è in discussione la necessità di un provvedimento giurisdizionale. In altre parole, dato per scontato che un soggetto abbia bisogno di un provvedimento del giudice per tutelare le proprie ragioni, il periculum in mora, ove sussistente, legittima tale soggetto ad invocare una tutela cautelare.
Se tuttavia le ragioni poste a base della domanda giudiziaria, non necessitino di un provvedimento del giudice, la questione relativa al periculum in mora non si pone neppure, perché non vi è proprio motivo di rivolgersi al giudice.
In questo senso, quello dell'interesse ad agire è un requisito che sta a monte rispetto a quello del pericolo da ritardo.
La precisazione in argomento è tanto più necessaria, ove si faccia mente locale ad alcuna delle tesi che tradizionalmente sono state sostenute a proposito degli istituti qui in esame.
Partendo con l'esame del concetto di interesse, va innanzi tutto chiarito che esso non si identifica in una nozione psicologica (bisogno o desiderio), bensì nella «esigenza di beni o valori da realizzare o da proteggere nel mondo sociale» (13)

(13) Betti, Interesse (diritto positivo), in Noviss. Dig. it., Torino, 1957, 839. L'Autore chiarisce il concetto spiegando che nella vita di relazione si fronteggiano interessi divergenti e contrastanti, che non possono avere attuazione pari e congiunta, ma solo attuazione differenziata secondo un rango di subordinazione. È quindi l'ordine giuridico, secondo tale impostazione, a stabilire il rango di subordinazione tra gli interessi in contrasto. E l'ordine giuridico effettua tale valutazione all'esito di una comparazione che tiene conto del merito della tutela giuridica, secondo le vedute politico-legislative dell'ordinamento.
.
Nell'ordinamento processuale, l'interesse ad agire è istituto ampiamente dibattuto (14)

(14) In generale Nasi, Interesse ad agire, in Enc. dir., Milano, 1988, 34 ss., ove si individua il «fatto» al verificarsi del quale sorge l'interesse ad agire, nella violazione del diritto, vale a dire nella esistenza di uno stato di fatto contrario al diritto, e si dà conto della tesi per la quale a tale considerazione viene aggiunta l'esigenza per la quale siano esaurite tutte le vie extraprocessuali per ottenere la realizzazione del diritto, al punto che il processo appaia come l'unico mezzo esperibile per l'eliminazione della lesione del diritto; Lugo, Manuale di diritto processuale civile, 7ª ed., Milano, 1979, 20, ove si afferma che l'interesse ad agire sussiste solo quando il diritto sia contestato o insoddisfatto, e quando perciò il titolare del diritto, senza l'intervento degli organi giurisdizionali, subirebbe un danno.
.
Richiamando l'opinione tradizionale secondo la quale esso è una condizione di ammissibilità della domanda (15)

(15) Attardi, Interesse ad agire, in Noviss. Dig. it., Torino, 1957, 840; Nasi, op. cit., 36. In giurisprudenza, da ultimo, Cass., sez. I, 30 maggio 2008, n. 14554, in Foro it., 2009, I, 208.
, le opinioni espresse sul tema si presentano del tutto contrastanti (16)

(16) Per una sintesi sia consentito rinviare a Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, 308 e ss.; Proto Pisani, Sub art. 100, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Allorio, II, Torino, 1973, 1065 ss., ove il richiamo dell'insegnamento del Chiovenda (Istituzioni, I, n. 40, 167), secondo il quale «l'interesse ad agire consiste in questo, che, senza l'intervento degli organi giurisdizionali, l'attore subirebbe un ingiusto danno».
, addirittura quanto alla individuazione delle tipologie di azioni nelle quali tale requisito dovrebbe essere indagato (17)

(17) Senza pretesa di completezza, a dire dell'Attardi, op. cit., l'interesse ad agire sarebbe presente nelle sole azioni di accertamento e cautelari; a dire dell'Andrioli, op. cit., e premessa la distinzione tra azioni tipiche (i cui presupposti di fatto sono precisamente indicati nella legge, quali le costitutive e le cautelari), e azioni atipiche (la cui giustificazione formale dipende da ciò, che il processo deve dare al privato quelle utilità che il libero gioco delle forze sociali e la spontanea osservanza delle norme possono attribuirgli, quali le azioni di condanna e di mero accertamento), l'interesse ad agire avrebbe nelle prime un ruolo esclusivamente sistematico - così anche Proto Pisani, op. cit., 1069 s., anche in riferimento alle azioni costitutive non necessarie, come l'azione ex art. 2932 c.c., nelle quali ancora una volta il requisito in esame non assumerebbe funzione pratica ma solo sistematica, perché l'inadempimento dell'obbligo sarebbe solo un elemento della fattispecie dedotta in giudizio, e la sua insussistenza porterebbe al rigetto della domanda nel merito-, mentre nelle seconde avrebbe il suo vero campo di applicazione, perché il giudice dovrebbe valutare se il ricorso agli organi giurisdizionali sia veramente necessario ovvero se altre forze riescano più idonee a garantire il risultato; a dire del Nasi, op. cit., 40, nelle azioni costitutive l'interesse ad agire non è mai diverso da quello tipizzato nella fattispecie che prevede l'azione costitutiva come diritto ad ottenere un certo effetto giuridico, al punto che l'interesse ad agire non sarebbe pertanto un elemento del concetto di azione; a dire dell'Allorio, Bisogno di tutela giuridica?, in Jus, 1954, 547, e del Garbagnati, Azione e interesse, in Jus, 1955, 316 ss., il concetto di interesse ad agire sarebbe del tutto superfluo nella misura in cui esso sarebbe insito nella definizione di ogni singola tipologia di tutela; a dire del Fazzalari, Note in tema di diritto e processo, Milano, 1957, 127 ss., l'interesse ad agire consisterebbe nella lesione del diritto, e sarebbe presente in tutte le azioni; a dire del Grasso, Note per un rinnovato discorso sull'interesse ad agire, in Jus, 1968, 349 e ss., l'interesse ad agire risiederebbe nella indispensabilità del processo, ovvero nella lesione attuale del sfera giuridica del ricorrente, e parimenti sarebbe presente in tutte le tipologie di azioni.
.
Volendo limitare l'analisi dell'istituto che ci occupa al caso in esame, va detto che esso presuppone una verifica che riguardi il procedimento cautelare e le azioni di condanna (18)

(18) La controversia sulla esistenza dell'obbligo, per la società, di porre a disposizione del socio di minoranza i documenti contabili, non presuppone -perché sia rilevante- un giudizio di accertamento del diritto del socio ad ottenere i documenti, ovvero di quello della società a negare tali documenti. Il giudizio di accertamento, infatti, riguarda l'affermazione della esistenza o non di un rapporto giuridico (Garbagnati, Azione e interesse, in Jus, 1955, 316 ss.; Proto Pisani, Appunti sulla tutela di mero accertamento, in Riv. trim dir. proc. civ., 1979, 641, ove l'affermazione per la quale la tutela di mero accertamento riguarda solo i diritti e non i fatti, ed ove si evidenzia comunque la difficoltà di discernere tra diritto e fatto), e non della esistenza o non di un diritto di accesso ai documenti, che evidentemente sottende - per essere rilevante - una domanda di condanna al soddisfacimento del diritto medesimo. Per contro, la sede cautelare nella quale il giudizio si è svolto impone di guardare anche alla tematica dell'interesse ad agire nello specifico ambito processuale. È di tutto rilievo richiamare uno scritto del Satta (peraltro in senso critico rispetto a Carnelutti, Accertamento giudiziale preventivo, in Riv. dir. proc., 1960, 177 ss.), A proposito dell'accertamento preventivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, specialmente 1401 s., ove si afferma che «l'idea di chiedere al giudice, come al vigile di un crocicchio, la via da seguire, [mi] pare una contraddizione in termini», e quanto alle obbligazioni si afferma poi che l'incertezza tra le parti sulla portata dei rispettivi obblighi deve essere risolta con la richiesta e con il rifiuto di adempimento. Aggiunge l'Autore, che in tali ipotesi non può parlarsi di tutela di accertamento, nel senso che l'accertamento è solo funzionale alla esecuzione, e si verte in «quella che l'esperienza ha qualificato come condanna», concludendo con l'affermazione per la quale «è assolutamente inconcepibile che le parti, in luogo della condanna, chiedano un mero accertamento».
.
Sotto il primo profilo, si è già detto che secondo l'impostazione tradizionale l'interesse ad agire si identificherebbe con il periculum in mora(19)

(19) Attardi, Interesse ad agire, op. cit. Dal canto loro, affermano invece che il periculum in mora deriverebbe solo dalle specifiche disposizioni dettate per le azioni cautelari, Garbagnati, Azione e interesse, op. cit.; Allorio, Bisogno di tutela giuridica?, op. cit.; Andrioli, Diritto processuale civile, op. cit., 312, ove si dà conto che anche nelle azioni cautelari l'interesse ad agire svolgerebbe semplice funzione sistematica, nel senso che il pericolo di un inutile provvedimento è eliminato dal semplice verificarsi delle condizioni di fatto, cui la possibilità di esercitare in giudizio dette azioni è collegata. Anche secondo Nasi, op. cit., 41, nelle azioni cautelari il diritto si identifica puramente e semplicemente nell'azione, dal momento che tali azioni producono determinati effetti giuridici nella sfera di un altro soggetto al verificarsi di ipotesi che prescindono del tutto dalla esistenza e dall'accertamento del diritto a vantaggio del quale è disposta la cautela. Afferma che la cognizione del giudice della cautela abbia per oggetto non un diritto o un rapporto giuridico, ma solo i presupposti di fatto per l'applicazione di una norma strumentale, Liebman, Unità del procedimento cautelare, in Riv. dir. proc., 1954, 17.
.
In senso contrario, e molto sommessamente, deve però ribadirsi come in realtà i due requisiti agiscano su piani diversi, perché prima di passare ad esaminare il pericolo di pregiudizio nel ritardo, deve positivamente riscontrarsi la necessità di un provvedimento giurisdizionale a tutela del diritto del soggetto che agisca in giudizio.
Se si accede a tale impostazione, è del tutto convincente la decisione del Tribunale di Verona, laddove ha escluso nel caso concreto il requisito del periculum in mora.
È infatti evidente che la società non è esposta ad alcun pericolo imminente di vedere pregiudicato il proprio diritto, poiché le è sufficiente opporre, alla richiesta del socio di minoranza, il rifiuto di esibizione dei documenti contabili (20)

(20) Molto opportunamente, il provvedimento che si commenta ha richiamato la tematica relativa al generale principio di cui all'art. 1460 c.c., che permette una forma di autotutela di carattere sostanziale, attivabile direttamente dalla parte.
.
A ben guardare, però, e alla stregua della qualificazione giuridica da attribuire al conflitto tra le parti, è altresì condivisibile il giudizio - che come detto sta a monte - di inesistenza, in capo alla società, dell'interesse ad agire per ottenere una sentenza che dichiari l'inesistenza del diritto del socio ad ottenere i documenti contabili. Si tratterebbe, astrattamente, di una azione di accertamento negativo (21)

(21) Sulle quali cfr. Proto Pisani, Appunti ... op. cit., 655 ss., specie in riferimento alla ripartizione dell'onere probatorio in tale tipo di azione, al fine di evitare la c.d. «azione di giattanza», e di rispettare il diritto di difesa del convenuto, ai sensi dell'art. 24 Cost.
, che però non potrebbe che incontrare i limiti propri imposti dall'art. 100 c.p.c. La società dovrebbe in altre parole dimostrare la necessità di una sentenza della specie, ed i motivi per i quali non le sarebbe sufficiente il mero rifiuto di consentire l'accesso ai documenti contabili.
In questo senso, infatti, non può non ritenersi che l'interesse della società ad ottenere l'affermazione dell'inesistenza di tale diritto, diventi attuale solo nel momento in cui il socio di minoranza attivi una specifica domanda di condanna (22)

(22) Secondo Nasi, op. cit., 41, nelle azioni di condanna non può distinguersi tra fatto costitutivo del diritto di credito e fatto costitutivo dell'interesse ad agire (da identificarsi nell'inadempimento spontaneo), perché l'obbligazione è esigibile fin dal suo sorgere. Da ciò deriva che si possa esercitare l'azione di condanna fin dal sorgere del diritto di credito, al fine di ottenere il titolo esecutivo. Ma in assenza di domanda di condanna, aggiungeremmo, o comunque in assenza di condotte del creditore che possano riflettere effetti negativi sulla posizione giuridica soggettiva del debitore, questi non ha interesse ad ottenere una pronuncia che accerti l'inesistenza del proprio obbligo, proprio perché la sua sfera giuridica non è in alcun modo lesa.
, tesa ad ottenere coattivamente l'affermazione del proprio diritto ad ottenere i documenti contabili (23)

(23) Attardi, Interesse ..., op. cit., nel richiamare la dottrina tradizionale nota come l'art. 100 c.p.c. esprime l'esigenza che oltre all'esistenza (o all'affermazione dell'esistenza), del diritto soggettivo fatto valere, sussista anche uno stato di fatto lesivo, in senso lato, del diritto medesimo, vale a dire una situazione che intacchi e diminuisca il valore di una situazione giuridica soggettiva.
.
Fino a tale momento, e non essendo seriamente messo in discussione il diritto della società ad opporre un rifiuto alla richiesta, ciò che astrattamente potrebbe dipendere anche dalla ritenuta liceità di tale rifiuto da parte del socio, in capo alla società non può ravvisarsi alcun interesse ad agire.
Come è ovvio, la mancanza di tale requisito renderebbe inammissibile anche la domanda ordinaria, e quindi a maggior ragione rende inammissibile la domanda cautelare, come in maniera condivisibile affermato dalla pronuncia in commento.


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Da: francy67 16/12/2010 12:38:53
ALE E PAKOZZO PER PIACERE RISPONDETE A QUELLO CHE HO SCRITTO VI PREGO??? VORREI SAPERE SE VA BENE!!!!

Da: pakozzo 16/12/2010 12:40:06
dicono che questa è fondamentale per penale
7702

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARZANO Francesco - Presidente -
Dott. BRICCHETTI Renato - Consigliere -
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere -
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere -
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
difensore di:
A.M., nato a (OMISSIS);
A.A., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza pronunciata in data 26 maggio 2004 dalla Corte di
Appello di FIRENZE;
udita in pubblica udienza la relazione del Consigliere Dott. Renato
BRICCHETTI;
sentite le conclusioni del pubblico ministero, in persona del S.
Procuratore Generale Dott. BAGLIONE Tindari, che ha chiesto
dichiararsi l'inammissibilità dei ricorsi.

(Torna su ) FATTO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di FIRENZE confermava la condanna di A.M. e A.A. per concorso nel delitto tentato di furto aggravato (circostanze aggravanti ritenute equivalenti alla circostanza attenuante dell'avvenuto risarcimento dei danni), commesso in agro di (OMISSIS) il 7 agosto 1999.
Quel giorno, intorno alle ore 12.15, gli imputati avevano scardinato, avvalendosi di un grosso palo di legno, la grata in ferro di una finestra ubicata al piano terreno dell'abitazione di D.T. G..
Il padrone di casa, che si trovava nella camera da letto situata al primo piano, allertato dai rumori, si era affacciato alla finestra ed aveva sparato tre colpi di pistola in aria, così inducendo gli imputati a darsi alla fuga.
Gli A. si erano difesi affermando che avevano divelto l'inferriata al fine di entrare "per curiosità" nel casolare che credevano disabitato.
La Corte aveva, tuttavia, ritenuto inverosimile l'assunto, osservando che la casa, per le sue caratteristiche e condizioni, non poteva essere scambiata per un casolare abbandonato e che il tentativo di furto era fallito soltanto perchè il D.T. era in casa ed aveva reagito facendo uso di una pistola.
I giudici di appello confermavano la sentenza di primo grado anche nella parte relativa al diniego delle invocate circostanze attenuanti generiche, reputando ostativi al riconoscimento i precedenti penali, per furti e ricettazione, degli imputati.
La Corte condivideva, inoltre, il giudizio di equivalenza tra le circostanze aggravanti contestate (art. 625 c.p., nn. 1 e 7) e la circostanza attenuante del risarcimento del danno (art. 62 c.p., n. 6), osservando che in tal modo la pena irrogata doveva ritenersi proporzionata alle modalità del fatto ed alla personalità delinquenziale degli imputati.
2. Avverso l'anzidetta decisione hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati per mezzo del comune difensore.
2.1. Con il primo motivo di ricorso A.M. chiede che sia dichiarata la nullità del decreto di citazione a giudizio in appello e di ogni atto consequenziale, compresa la sentenza di secondo grado, deducendo l'omessa citazione per non essere il decreto stato notificato nel domicilio dichiarato (nessun tentativo sarebbe stato in proposito effettuato), ma a mani del suo difensore.
2.2. Con il secondo motivo gli imputati lamentano, con riguardo all'affermazione di responsabilità, la mancanza di motivazione e la manifesta contraddittorietà della sentenza impugnata.
Gli atti compiuti non sarebbero stati idonei "a ... produrre l'evento", nè univocamente espressivi dell'intenzione di commettere un furto.
In proposito la Corte non aveva considerato che si erano recati in luogo senza portare con loro arnesi atti allo scasso ed avrebbe "screditato" la spiegazione da loro offerta soltanto perchè avevano precedenti per furti.
2.3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la mancanza di motivazione e la manifesta contraddittorietà della sentenza impugnata sia in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, sia con riguardo al sopra citato giudizio di equivalenza, sia, infine, con riferimento alle pene irrogate (mesi sei di reclusione ed Euro 120,00 di multa).
(Torna su ) DIRITTO
MOTIVI DELLA DECISIONE
3. I ricorsi vanno rigettati.
3.1. Il primo motivo del ricorso è infondato.
Sostiene il ricorrente che "nessun tentativo" di notificargli nel domicilio dichiarato il decreto di citazione a giudizio sarebbe stato effettuato.
Dagli atti risulta, per contro, che è stata attestata, dall'agente addetto alle notificazioni, l'irreperibilità dell'imputato presso il domicilio dichiarato e che, per questa ragione, si è proceduto alla consegna dell'atto al suo difensore di fiducia.
Vi è da aggiungere, poi, che all'udienza dibattimentale il difensore ha prodotto documentazione proveniente dall'imputato intesa a certificare che quel giorno aveva fissato una visita medica.
Può così ragionevolmente affermarsi che l'imputato, a conoscenza dell'avvenuta citazione per il giudizio d'appello, ha inteso manifestare la volontà di recarsi ad una visita medica, ma la Corte ha correttamente escluso trattarsi che ci si trovasse al cospetto di legittimo impedimento a comparire (affermazione, quest'ultima, non contestata dall'imputato).
3.2. Il secondo motivo del ricorso è destituito di fondamento.
Benchè all'inidoneità degli atti sia fatto, in ricorso, soltanto un generico riferimento (e tanto, quindi, basterebbe per considerare inammissibile questo profilo della doglianza), non può seriamente negarsi l'attitudine offensiva dei medesimi nei confronti del bene giuridico tutelato.
Non può, in altre parole, dubitarsi che divellere dal muro la grata di protezione di una finestra al fine di introdursi nell'abitazione costituisca - per usare le parole della Relazione al codice penale - un atto di per sè "capace di produrre l'evento" del delitto di furto in abitazione.
Detto questo, va osservato che il problema sollevato dai ricorrenti sembra piuttosto coinvolgere l'univocità degli atti compiuti.
Per la sussistenza del tentativo, gli atti, oltre che idonei, devono, invero, essere oggettivamente diretti in modo non equivoco a commettere un determinato delitto.
L'univocità si pone, dunque, come requisito di natura sostanziale, che consente di selezionare, tra gli atti "idonei", quelli effettivamente punibili ex art. 56 c.p..
La giurisprudenza di questa Corte afferma in proposito che il requisito dell'univocità degli atti "va accertato sulla base delle caratteristiche oggettive della condotta criminosa" (Cass. 1^ 7 dicembre 1978 Ruocco, RV 141139), nel senso che gli atti posti in essere devono in sè stessi possedere, riguardati nel contesto in cui sono inseriti, l'attitudine a denotare il proposito criminoso perseguito, anche qualora sia stata conseguita aliunde la prova del fine verso cui tende l'agente (Cass. 1^ 28 settembre 1987, Di Matteo).
Occorre, in altre parole, ricostruire, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell'agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile all'individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo (Cass. 1^ 10 luglio 1992, Lamari).
Ora, muovendo dal concetto di univocità su esposto, ne deriva - in riferimento alla fattispecie concreta - che l'atto di introdursi in un'abitazione altrui, dopo avere divelto la grata di protezione di una finestra del piano terra, può ritenersi univocamente diretto a commettere un furto all'interno dell'abitazione medesima.
Gli atti, considerati in sè medesimi, per il contesto nel quale si inseriscono, nonchè per la loro natura ed essenza sono - secondo le norme di esperienza e l'id quod plerumque accidit - giunti ad un livello di sviluppo tale da evidenziare il fine cui erano diretti, anche perchè non risultavano sussistere motivi diversi che potessero aver animato siffatta condotta, nè gli imputati avevano prospettato plausibili giustificazioni del loro operato tenuto conto inoltre del fatto che - come la Corte di merito ha osservato - non si trattava di un casolare abbandonato, ma di una casa abitata, apparsa (forse) momentaneamente disabitata agli imputati.
3.3. Il terzo motivo del ricorso è manifestamente infondato.
I ricorrenti pretendono, invero, che in questa sede si proceda ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le quali il giudice di merito ha esercitato il potere discrezionale a lui concesso dall'ordinamento ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
L'esercizio di detto potere deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del giudice in ordine all'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.
La concessione di dette circostanze presuppone, inoltre, l'esistenza di elementi suscettibili di positivo apprezzamento.
Nella specie, tuttavia, la Corte ha spiegato di non ritenere i ricorrenti meritevoli delle invocate attenuanti per la loro negativa personalità, desunta essenzialmente dalla circostanza che avessero già riportato condanne per furti e ricettazione.
Si tratta di una considerazione ampiamente giustificativa del diniego, che le censure del ricorrente non valgono a scalfire.
In altre parole, del tutto legittimamente la Corte di appello ha ritenuto ostativi al riconoscimento delle attenuanti generiche i numerosi e gravi precedenti penali degli imputati, trattandosi di parametro considerato dall'art. 133 c.p., applicabile anche ai fini dell'art. 62 bis c.p..
Quanto alle statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, esse sono censurabili in cassazione soltanto nell'ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico, essendo sufficiente a giustificare la soluzione della equivalenza aver ritenuto, come nel caso in esame, detta soluzione la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (cfr. ex plurimis Cass. 1^, 13 aprile 2001, Pelini, RV 219263).
In relazione, infine, alla lamentata eccessività della pena, va detto che la conclusione di immeritevolezza di un più mite trattamento sanzionatorio, cui il giudice di merito è pervenuto con adeguata e non illogica motivazione, non è sindacabile in sede di legittimità allorchè il ricorrente si limiti a sollecitare genericamente il riesame sul punto della sentenza impugnata.
4. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.
(Torna su ) P.Q.M.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2007.
Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2007

Da: coccola2716/12/2010 12:40:10
marcolino c'è uno schema d'appello che può seguire è stato postato qualche pag fa...sto cercando di capirci qualcosa ma sn troppo frammentarie le cose che so avrei bisogno che qualcuno mi aiutasse

Da: max16/12/2010 12:40:19
news sul penale?

Da: ATTO PENALE16/12/2010 12:40:34
7702 DEL 2007 L'HANNO CHIESTA DA DENTRO!!!

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARZANO Francesco - Presidente -
Dott. BRICCHETTI Renato - Consigliere -
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere -
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere -
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
difensore di:
A.M., nato a (OMISSIS);
A.A., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza pronunciata in data 26 maggio 2004 dalla Corte di
Appello di FIRENZE;
udita in pubblica udienza la relazione del Consigliere Dott. Renato
BRICCHETTI;
sentite le conclusioni del pubblico ministero, in persona del S.
Procuratore Generale Dott. BAGLIONE Tindari, che ha chiesto
dichiararsi l'inammissibilità dei ricorsi.

(Torna su ) FATTO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di FIRENZE confermava la condanna di A.M. e A.A. per concorso nel delitto tentato di furto aggravato (circostanze aggravanti ritenute equivalenti alla circostanza attenuante dell'avvenuto risarcimento dei danni), commesso in agro di (OMISSIS) il 7 agosto 1999.
Quel giorno, intorno alle ore 12.15, gli imputati avevano scardinato, avvalendosi di un grosso palo di legno, la grata in ferro di una finestra ubicata al piano terreno dell'abitazione di D.T. G..
Il padrone di casa, che si trovava nella camera da letto situata al primo piano, allertato dai rumori, si era affacciato alla finestra ed aveva sparato tre colpi di pistola in aria, così inducendo gli imputati a darsi alla fuga.
Gli A. si erano difesi affermando che avevano divelto l'inferriata al fine di entrare "per curiosità" nel casolare che credevano disabitato.
La Corte aveva, tuttavia, ritenuto inverosimile l'assunto, osservando che la casa, per le sue caratteristiche e condizioni, non poteva essere scambiata per un casolare abbandonato e che il tentativo di furto era fallito soltanto perchè il D.T. era in casa ed aveva reagito facendo uso di una pistola.
I giudici di appello confermavano la sentenza di primo grado anche nella parte relativa al diniego delle invocate circostanze attenuanti generiche, reputando ostativi al riconoscimento i precedenti penali, per furti e ricettazione, degli imputati.
La Corte condivideva, inoltre, il giudizio di equivalenza tra le circostanze aggravanti contestate (art. 625 c.p., nn. 1 e 7) e la circostanza attenuante del risarcimento del danno (art. 62 c.p., n. 6), osservando che in tal modo la pena irrogata doveva ritenersi proporzionata alle modalità del fatto ed alla personalità delinquenziale degli imputati.
2. Avverso l'anzidetta decisione hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati per mezzo del comune difensore.
2.1. Con il primo motivo di ricorso A.M. chiede che sia dichiarata la nullità del decreto di citazione a giudizio in appello e di ogni atto consequenziale, compresa la sentenza di secondo grado, deducendo l'omessa citazione per non essere il decreto stato notificato nel domicilio dichiarato (nessun tentativo sarebbe stato in proposito effettuato), ma a mani del suo difensore.
2.2. Con il secondo motivo gli imputati lamentano, con riguardo all'affermazione di responsabilità, la mancanza di motivazione e la manifesta contraddittorietà della sentenza impugnata.
Gli atti compiuti non sarebbero stati idonei "a ... produrre l'evento", nè univocamente espressivi dell'intenzione di commettere un furto.
In proposito la Corte non aveva considerato che si erano recati in luogo senza portare con loro arnesi atti allo scasso ed avrebbe "screditato" la spiegazione da loro offerta soltanto perchè avevano precedenti per furti.
2.3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la mancanza di motivazione e la manifesta contraddittorietà della sentenza impugnata sia in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, sia con riguardo al sopra citato giudizio di equivalenza, sia, infine, con riferimento alle pene irrogate (mesi sei di reclusione ed Euro 120,00 di multa).
(Torna su ) DIRITTO
MOTIVI DELLA DECISIONE
3. I ricorsi vanno rigettati.
3.1. Il primo motivo del ricorso è infondato.
Sostiene il ricorrente che "nessun tentativo" di notificargli nel domicilio dichiarato il decreto di citazione a giudizio sarebbe stato effettuato.
Dagli atti risulta, per contro, che è stata attestata, dall'agente addetto alle notificazioni, l'irreperibilità dell'imputato presso il domicilio dichiarato e che, per questa ragione, si è proceduto alla consegna dell'atto al suo difensore di fiducia.
Vi è da aggiungere, poi, che all'udienza dibattimentale il difensore ha prodotto documentazione proveniente dall'imputato intesa a certificare che quel giorno aveva fissato una visita medica.
Può così ragionevolmente affermarsi che l'imputato, a conoscenza dell'avvenuta citazione per il giudizio d'appello, ha inteso manifestare la volontà di recarsi ad una visita medica, ma la Corte ha correttamente escluso trattarsi che ci si trovasse al cospetto di legittimo impedimento a comparire (affermazione, quest'ultima, non contestata dall'imputato).
3.2. Il secondo motivo del ricorso è destituito di fondamento.
Benchè all'inidoneità degli atti sia fatto, in ricorso, soltanto un generico riferimento (e tanto, quindi, basterebbe per considerare inammissibile questo profilo della doglianza), non può seriamente negarsi l'attitudine offensiva dei medesimi nei confronti del bene giuridico tutelato.
Non può, in altre parole, dubitarsi che divellere dal muro la grata di protezione di una finestra al fine di introdursi nell'abitazione costituisca - per usare le parole della Relazione al codice penale - un atto di per sè "capace di produrre l'evento" del delitto di furto in abitazione.
Detto questo, va osservato che il problema sollevato dai ricorrenti sembra piuttosto coinvolgere l'univocità degli atti compiuti.
Per la sussistenza del tentativo, gli atti, oltre che idonei, devono, invero, essere oggettivamente diretti in modo non equivoco a commettere un determinato delitto.
L'univocità si pone, dunque, come requisito di natura sostanziale, che consente di selezionare, tra gli atti "idonei", quelli effettivamente punibili ex art. 56 c.p..
La giurisprudenza di questa Corte afferma in proposito che il requisito dell'univocità degli atti "va accertato sulla base delle caratteristiche oggettive della condotta criminosa" (Cass. 1^ 7 dicembre 1978 Ruocco, RV 141139), nel senso che gli atti posti in essere devono in sè stessi possedere, riguardati nel contesto in cui sono inseriti, l'attitudine a denotare il proposito criminoso perseguito, anche qualora sia stata conseguita aliunde la prova del fine verso cui tende l'agente (Cass. 1^ 28 settembre 1987, Di Matteo).
Occorre, in altre parole, ricostruire, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell'agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile all'individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo (Cass. 1^ 10 luglio 1992, Lamari).
Ora, muovendo dal concetto di univocità su esposto, ne deriva - in riferimento alla fattispecie concreta - che l'atto di introdursi in un'abitazione altrui, dopo avere divelto la grata di protezione di una finestra del piano terra, può ritenersi univocamente diretto a commettere un furto all'interno dell'abitazione medesima.
Gli atti, considerati in sè medesimi, per il contesto nel quale si inseriscono, nonchè per la loro natura ed essenza sono - secondo le norme di esperienza e l'id quod plerumque accidit - giunti ad un livello di sviluppo tale da evidenziare il fine cui erano diretti, anche perchè non risultavano sussistere motivi diversi che potessero aver animato siffatta condotta, nè gli imputati avevano prospettato plausibili giustificazioni del loro operato tenuto conto inoltre del fatto che - come la Corte di merito ha osservato - non si trattava di un casolare abbandonato, ma di una casa abitata, apparsa (forse) momentaneamente disabitata agli imputati.
3.3. Il terzo motivo del ricorso è manifestamente infondato.
I ricorrenti pretendono, invero, che in questa sede si proceda ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le quali il giudice di merito ha esercitato il potere discrezionale a lui concesso dall'ordinamento ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
L'esercizio di detto potere deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del giudice in ordine all'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.
La concessione di dette circostanze presuppone, inoltre, l'esistenza di elementi suscettibili di positivo apprezzamento.
Nella specie, tuttavia, la Corte ha spiegato di non ritenere i ricorrenti meritevoli delle invocate attenuanti per la loro negativa personalità, desunta essenzialmente dalla circostanza che avessero già riportato condanne per furti e ricettazione.
Si tratta di una considerazione ampiamente giustificativa del diniego, che le censure del ricorrente non valgono a scalfire.
In altre parole, del tutto legittimamente la Corte di appello ha ritenuto ostativi al riconoscimento delle attenuanti generiche i numerosi e gravi precedenti penali degli imputati, trattandosi di parametro considerato dall'art. 133 c.p., applicabile anche ai fini dell'art. 62 bis c.p..
Quanto alle statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, esse sono censurabili in cassazione soltanto nell'ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico, essendo sufficiente a giustificare la soluzione della equivalenza aver ritenuto, come nel caso in esame, detta soluzione la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (cfr. ex plurimis Cass. 1^, 13 aprile 2001, Pelini, RV 219263).
In relazione, infine, alla lamentata eccessività della pena, va detto che la conclusione di immeritevolezza di un più mite trattamento sanzionatorio, cui il giudice di merito è pervenuto con adeguata e non illogica motivazione, non è sindacabile in sede di legittimità allorchè il ricorrente si limiti a sollecitare genericamente il riesame sul punto della sentenza impugnata.
4. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.
(Torna su ) P.Q.M.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2007.
Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2007

Da: -M- x kammerl16/12/2010 12:41:52
Occhio, in quello che posti ci sono i dati dello studio legale dal quale ti colleghi.

Da: kammerl16/12/2010 12:41:54
Tribunale  Verona  sez. IV
Data:  18 marzo 2009
Numero:
Parti:
Fonti:  Giur. merito 2010, 1, 132 (s.m.) (nota di: NARDELLI)
Classificazione
PROCEDIMENTO CAUTELARE IN MATERIA CIVILE In genere

Testo
Tutela cautelare - Assenza di periculum in mora - Ammissibilità - Non sussiste.
La persistenza della qualifica di socio, in capo a chi non abbia poteri gestionali, non espone la società a pericoli tali da legittimare l'esclusione dello stesso in via cautelare.

Da: mARCOLIN8016/12/2010 12:42:14
GRAZIE coccola27 MICA LO POTRESTI RIPOSTARE NN SO PROPRIO DOVE VEDERE

Da: ale7916/12/2010 12:44:39
..soluzioni per l atto di civile??????

Da: cristal16/12/2010 12:44:55
LA SOLUZIONE PER L'ATTO DI PENALE E LA SENTENZA DI RIFERIMENTO PER FAVORE

Da: alby700 16/12/2010 12:45:35
ma l'atto civile niente ankora ?? grz

Da: DrDevious16/12/2010 12:45:44
soluzione per l'atto  di civile please

Da: amministrativo16/12/2010 12:46:19
POTREBBE ESSERVI UTILE QUESTA SENTENZA? NON NE CAPISCO NA MAZZA MA VORREI AIUTARE ANCH'IO

Cassazione 19/10/2010 n. 21448: Per vincere la presunzione di comunione per i beni elencati nell'art. 1117 c.c. non sono determinanti le risultanze del regolamento di condominio, nè l'inclusione del bene nelle tabelle millesimali     
Scritto da Edoardo Riccio - Glauco Bisso    
Cassazione Civile, Sezione II, 19 ottobre 2010 n. 21448
Presidente Dott. Triola Roberto Michele, Relatore Dott. Mazzacane Vincenzo

In tema di condominio, per vincere la presunzione di comunione per i beni elencati nell'art. 1117 c.c. è necessario un titolo d'acquisto dal quale si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione del bene, mentre non sono determinanti le risultanze del regolamento di condominio, nè l'inclusione del bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un singolo condomino.

(Nel caso in esame, la Corte territoriale aveva osservato che la riserva esclusiva di proprietà del piano cantinato a favore del venditore non poteva estendersi a quelle parti del fabbricato destinate a servizi comuni, come ad esempio il vano autoclave ed il vano ascensore, che fanno parte del compendio condominiale; anche l'impianto idrico - fognante e quello citofonico hanno una funzionale attitudine al servizio o al godimento collettivo, requisito sufficiente per presumerne la natura condominiale)


Da: coccola2716/12/2010 12:46:33
l'aveva postato prima raffaella.è uno schema da seguire.io sn lauretata in legge e faccio la pratica penale se qualche avv m aiuta potremmo provare a farlo x intero l'appello io nn l'ho mai fatto ancora un appello.sos!!!!!!



CORTE D'APPELLO DI ��.
PER IL TRAMITE DELLA CANCELLERIA DEL TRIBUNALE DI
ATTO D'APPELLO
L'Avv. ��.., del foro di ��, con studio in ��, via �.., difensore di fiducia, giusta nomina e procura speciale in calce al presente atto, del sig. Tizio, nato a �., il �., residente in �.., via �..,  domiciliato, ai fini del presente procedimento, a ���, in via �..,
DICHIARA DI PROPORRE APPELLO
Avverso la sentenza n. â��â��â�� del Tribunale diâ��.., pronunciata in data â��â��. e depositata in data â��â��â��, con la quale il sig. Tizio veniva dichiarato responsabile del reato il reato di tentata rapina ai danni della banca alfa, con le circostanze aggravanti dall'uso di armi e della riunione di più più persone.di cui all'art. â��..c.p. e per l'effetto condannato alla pena di anni â��â��. e mesi â��.. di reclusione
PER I SEGUENTI MOTIVI
1)
2)
3)

Da: tuorlo16/12/2010 12:46:33
ricordate che dovete mettere il CF di entrambi gli avv.ti ! e la P.iVA DELLA SOCIETà

Da: robb16/12/2010 12:46:47
ma questo è per civile?

Da: Avv. Vale16/12/2010 12:47:08
ma per amministrativo che atto e che sentenza...?

Da: raffiore 16/12/2010 12:47:18
Ragazzi vi prego per la traccia di civile...

Grazie

Pagina: 1, 2, 3, 4, 5, 6, ..., 134, 135, 136, 137, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 144, ..., 216, 217, 218, 219, 220, 221 - Successiva >>


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