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ESAME SCRITTO 2010
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Da: che palle che siete!!"15/12/2010 14:03:02
ma che ce ne frega di chi correggeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee

Da: sil15/12/2010 14:03:07
E' vera la notizia su Napoli p è una bufalata???

Da: rompipalle26 15/12/2010 14:03:12
dai ale

Da: Il legale15/12/2010 14:03:45
le prove non si sospendono neanche se erutta il Vesuvio

Da: may15/12/2010 14:03:50
ma nessuno fa la seconda traccia di penale?

Da: barbyby15/12/2010 14:03:52
NOTIZIE DA CZ?

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Da: diana7815/12/2010 14:03:56
nessuna novità da napoli...speriamo bene

Da: ale15/12/2010 14:04:00
la notizia su napoli è falsa
copiate quel parere e state sereni!

Da: Firenze15/12/2010 14:05:31
scusa per la domanda, cmq trattandosi di un forum pubblico dedicato all'esame scritto non mi pare di aver fatto una richiesta peregrina

Da: Il legale15/12/2010 14:05:52
SENT 2010 14914 IN SENSO FAVOREVOLE

SENT 2010 28210 IN SENSO CONTRARIO


Pretesa di denaro dai genitori con maltrattamenti e lesioni, è tentata estorsione
Cassazione penale, sez. VI, sentenza 19.04.2010 n. 14914
Si configura la fattispecie della tentata estorsione in danno dei genitori qualora il figlio chieda loro del Denaro con il ricorso a maltrattamenti e a lesioni, ovvero "in assenza di condizioni legittimanti la pretesa consegna" della suddetta somma.
È quanto ha recentemente statuito la Corte di Cassazione con la sentenza 19 aprile 2010, n. 14914 con la quale i Giudici di legittimità hanno negato la sussistenza del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni di cui all'art. 393 c.p., ritenendo, di converso, ravvisabile quello ex art. 630 c.p..
Nel caso de quo, il soggetto ricorre in Cassazione avverso la sentenza della Corte d'Appello con la quale era stato condannato per i reati di tentata estorsione, maltrattamenti in famiglia e lesioni in danno della madre, ritenendo legittima la sua condotta considerato che, all'epoca dei fatti, privo di lavoro, aveva diritto, per il grado di parentela, ad ottenere un contributo da parte dei genitori.
Tuttavia, il Supremo Collegio, nel dichiarare l'inammissibilità del ricorso, ritiene corretta la qualificazione giuridica del reato ex art. 629 c.p.. I giudici di legittimità, pur ammettendo che i genitori debbano sottostare alle disposizioni di cui agli artt. 147 e 148 c.c., per quanto concerne il mantenimento dei figli, sino a quando questi ultimi non abbiano raggiunto una sostanziale indipendenza economica - indipendentemente o meno dalla maggiore età - ritengono che nel caso di specie la richiesta di denaro sia avvenuta con "modalità violente" accertate; inoltre, "non risulta affatto la prova che le somme fossero destinate al mantenimento dell'imputato". Quindi non vi è prova circa la corrispondenza causale tra la richiesta di denaro e l'esercizio di un diritto dell'imputato quale il mantenimento per mezzo dell'ausilio dei genitori.
Secondo la Corte di Cassazione, quindi, il "difetto di tale essenziale connotazione causale dell'agire del ricorrente" non può che far propendere per "l'azione esecutiva e la soggettività del delitto di estorsione".
Delitto di estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni: brevi spunti di riflessione
Un aspetto particolarmente interessante del delitto di cui all'art. 629 c.p. consiste nel suo rapporto con l'altro delitto preso in considerazione dalla sentenza in commento, ovvero l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone. Da sempre la giurisprudenza si è preoccupata di individuare gli elementi differenziali di queste due fattispecie, opinando, in maniera oramai consolidata, per un criterio di carattere soggettivo.
Invero, merita accoglimento l'impostazione ermeneutica che distingue i due reati sotto il profilo dell'elemento soggettivo, che per l'estorsione si configura nel fine di conseguire un profitto, nella consapevolezza di non averne alcun diritto o titolo; nel secondo si ha la ragionevole opinione - pur errata - della sussistenza di esso.
Orbene, si configurerà correttamente l'ipotesi punitiva di cui all'art. 393 c.p. ove il soggetto agisca nella "convinzione ragionevole della legittimità delle propria pretesa", nonché "che quanto egli vuole gli compete" (V., ex multis, Cass., Sez. II, 15.06.04, n. 26887). Pertanto, ciò che rileva ai fini discretivi, non è tanto la condotta materiale posta in essere - che può essere addirittura identica nei due casi - quanto l'elemento intenzionale che solo nella estorsione è caratterizzato dalla consapevolezza che quanto il reo pretenda non gli è in alcun modo dovuto. Tuttavia, accanto a questo filone interpretativo, si può rinvenire un costante orientamento giurisprudenziale - cui sembra conformarsi la sentenza in esame - secondo il quale la finalità estorsiva della condotta posta in essere potrebbe di per sé rinvenirsi nella stessa modalità costrittiva. Aderendo a tale impostazione, quindi, si sostiene che se la minaccia o la violenza si manifestano in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio preteso diritto, allora la coartazione non può che integrare i caratteri dell'ingiustizia e l'ipotesi concreta quelli dell'art. 629 c.p. (V., tra le altre, Cass., Sez. II, 10.12.04, n. 47972).
Ciò trova conferma nella circostanza che, secondo costanti interventi della Suprema Corte, nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta violenta o minacciosa deve essere proporzionale e strettamente connessa con la pretesa di un diritto; agendo diversamente si avrebbe, infatti, un utilizzo gratuito ed, appunto, sproporzionato della forza, tale da imporre un annullamento o una limitazione della capacità di autodeterminazione della volontà del soggetto passivo (Cass., Sez. II, 26.09.07, n. 35610).

Da: Firenze15/12/2010 14:06:10
FIRENZE corretta da TORINO.

Da: Firenze15/12/2010 14:07:21
@ Firenze
è sicuro che si tratti di Torino? alcuni esaminandi ieri parlavano di Venezia

Da: @barbyby15/12/2010 14:07:38
cz dovrebbe consegnare per le 18!!

Da: rompipalle26 15/12/2010 14:08:37
qualcuno mi puo dare notizie di lecce grazie

Da: gionni15/12/2010 14:08:37
io sapevo che un commissario basso e tarchiato con la "sh" in bocca  di Torre ha avuto un attacco di enterocolite folgorante.......

Da: Il legale15/12/2010 14:08:49
SENTENZA 14914 DEL 19/04/2010 è STATA IN PARTE RIVISTA DALLA PIù RECENTE 28210 SEZIONE 2 DEL 20/07/2010
ALLEGO NOTE ALLA SENTENZA
Configurabilità della scriminante speciale ex art. 649 Cp, e sua possibile estensione ai delitti tentati, tra contraddizioni ed insufficienze


Diritto e Giustizia 2010, 0, 403

Vincenzo Rispoli
Avvocato - Professore a contratto "Procedura penale minorile" Università degli Studi di Cassino



Quotidiano del: 07/08/2010
Con la sentenza n. 28210/2010 (qui leggibile come documento correlato), la Seconda Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione si è espressa su una questione di difficile approccio, certo non nuova nel panorama dottrinario e giurisprudenziale, ma che, a distanza di decenni, ancora non sembra del tutto risolta, essendo all'evidenza ancora acceso il dibattito tra opposte scuole di pensiero.
Il tema sottoposto all'attenzione della Suprema Corte infatti verte sulla configurabilità della scriminante speciale di cui all'art. 649 c.p., con cui il Codificatore aveva inteso porre un filtro alla punibilità dei delitti contro il patrimonio, commessi tra familiari conviventi, con eccezione dei reati più gravi.
I fatti oggetto di causa si riferiscono ad un soggetto indagato per il delitto di tentata estorsione, per avere richiesto, a mezzo di minaccia, una prestazione al proprio padre adottivo.
Nel corso del procedimento penale, il GIP procedente emetteva nei confronti dell'indagato ordinanza di emissione della misura della custodia cautelare in carcere, rilevando in concreto la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari, ed in definitiva ritenendo punibile la condotta incriminata.
In effetti, il GIP con l'ordinanza applicativa affermava che il delitto di tentata estorsione non era ricompreso entro i limiti della scriminante di cui all'art. 649 c.p.
Di qui, dalla punibilità della condotta tentata, discendeva la possibilità concreta di procedere a tutti gli effetti ai sensi di legge, ivi inclusa dunque la possibilità di emissione di misure cautelari.
Una prospettazione confermata dal Tribunale in sede di Riesame, ma contrastata dall'indagato con il ricorso in commento. Per la difesa in effetti la tesi applicata dai giudici territoriali appare minoritaria rispetto all'indirizzo di Cassazione prevalente, secondo il quale, invece, il delitto tentato rientrerebbe entro i limiti della scriminante di cui all'art. 649 c.p.
Un indirizzo certo prevalente, ma non definitivamente acquisito. Tant'è vero che i Giudici di legittimità hanno sciolto la questione posta alla loro attenzione attraverso un iter argomentativo e logico alquanto complesso, e che troverà più ampia ed esaustiva soluzione nel prosieguo del presente lavoro.
La scriminante speciale ex art. 649 co. 1 c.p.
Il Titolo XIII del Libro II del Codice penale disciplina i delitti contro il patrimonio.
In conclusione del Titolo, il Codificatore ha previsto il Capo III, denominato "disposizioni comuni ai capi precedenti".
Tale Capo è formato da un unico articolo, per l'appunto l'art. 649, rubricato "non punibilità e querela della persona offesa, per fatti commessi a danno di congiunti".
Costituendo una disposizione comune ai capi precedenti, è evidente che l'art. 649 può essere applicato necessariamente a tutte le disposizioni previste dal Titolo XIII, e pertanto a tutti i delitti contro il patrimonio, così come previsti dal codice penale.
Sotto tale profilo, il primo comma della norma in esame dispone che "non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti da questo titolo in danno: del coniuge non legalmente separato; di un ascendente o discendente o di un affine in linea retta, ovvero dell'adottante o dell'adottato; di un fratello o di una sorella che con lui convivano".
La disposizione costituisce una vera e propria causa speciale di giustificazione, prevista dal Codificatore limitatamente ai delitti disciplinati da "questo titolo".
E dunque, la norma non può essere considerata applicabile ad altri delitti contro il patrimonio, previsti da norme estranee al Titolo XIII, così come da norme di carattere speciale.
In particolare, la disposizione stabilisce un vincolo di non punibilità, per carenza dell'elemento dell'illiceità, nei casi in cui un delitto contro il patrimonio sia commesso in danno dei soggetti sopra evidenziati.
Si tratta in particolare di persone legate al reo da stretti vincoli di parentela naturale od adottiva o di affinità. Nel caso in cui il fatto sia commesso avverso fratelli o sorelle, la scriminante opera solo nel caso in cui il reo conviva con la vittima.
A tale riguardo, è stato più volte affermato che la disposizione in esame, anche per il suo carattere di eccezionalità, non può essere applicata al convivente more uxorio. Infatti, l'esimente speciale "è radicata nello speciale status familiare riservato al coniuge non separato". Da qui, deriva "l'insussistenza di qualsiasi disparità di trattamento tra il coniuge non separato ed il convivente more uxorio" (Cfr., Cass., Sez. II, n. 11745/1980).
Infatti, in materia di configurabilità di esimenti speciali, "non è irragionevole od arbitrario che [...] il Legislatore adotti soluzioni diversificate per la famiglia fondata sul matrimonio, contemplata nell'art. 29 della Costituzione, e per la convivenza more uxorio: venendo in rilievo, [...] non soltanto esigenze di tutela delle relazioni affettive individuali, ma anche quella della protezione dell'"istituzione familiare", basata sulla stabilità dei rapporti, di fronte alla quale soltanto si giustifica l'affievolimento della tutela del singolo componente" (Cfr., Corte Cost., n. 352/2000 ed altre).
Sotto altro profilo, è stato affermato che lo status di separazione legale deriva esclusivamente dal provvedimento definitivo di separazione, non costituendo causa di punibilità "il provvedimento di temporanea separazione personale dei coniugi emesso dal presidente del Tribunale ai sensi dell'art. 708 c.p.c.". (Cass., Sez. II, n. 2940/1970).
Per altro aspetto, rileva il concetto di convivenza, da cui deriva la non punibilità di fatti commessi in danno di "fratelli o sorelle". A tale riguardo, nel corso degli anni è stato correttamente valorizzato un concetto di convivenza ispirato al principio solidaristico-esistenziale, cui anche chi scrive sente di aderire.
Infatti, è stato affermato che "per convivenza deve intendersi non già la semplice coabitazione temporanea od occasionale, ma un rapporto di una certa durata, caratterizzato dalla unicità del domicilio o dalla costituzione di un nucleo familiare" (Cass., Sez. II, n. 13730/1980). Ed infatti, perché si configuri l'elemento della convivenza, è necessario "il minimum di quel complesso di comuni sentimenti, interessi, abitudini di vita, desumibili da varie manifestazioni e situazioni, tra cui principalmente sintomatica, ma non indispensabile, la coabitazione [...]" (Cass., Sez. II, n. 784/1979 ed altre).
In tale contesto dunque, la convivenza non postula necessariamente la coabitazione, ed al tempo stesso, la coabitazione occasionale non integra convivenza. Al contrario, si avrà convivenza, e dunque opererà l'esimente speciale di cui all'art. 649 c.p., nei casi in cui il fratello o la sorella del reo siano legate allo stesso da un particolare vincolo esistenziale, da un complesso di comuni sentimenti, interessi, abitudini di vita, desumibili da varie manifestazioni e situazioni, da cui deriva l'esistenza di una famiglia.
Individuati dunque i caratteri salienti della norma, va affermato che in tutti i casi previsti, il reo non potrà essere sottoposto a procedimento penale, per operatività della scriminante speciale esposta, riconoscendo il Codificatore, in tali casi, l'insussistenza dell'elemento dell'illiceità.
Segue. L'esclusione della punibilità per carenza di condizione di procedibilità.
Il comma 2 dell'art. 649 dispone che "i fatti preveduti da questo titolo sono punibili a querela della persona offesa , se commessi a danno del coniuge legalmente separato, ovvero del fratello o della sorella che non convivano coll'autore del fatto, ovvero dello zio o del nipote o dell'affine in secondo grado con lui conviventi".
Tale norma si pone come corollario della scriminante su vista. Essa ovviamente non costituisce una causa di giustificazione, ma dispone esclusivamente che i reati contro il patrimonio previsti dal Titolo XIII del codice penale possono essere puniti solo ed esclusivamente dopo la presentazione di querela da parte della persona offesa, nei casi in cui il delitto sia consumato in danno "del coniuge legalmente separato, ovvero del fratello o della sorella che non convivano coll'autore del fatto, ovvero dello zio o del nipote o dell'affine in secondo grado con lui conviventi".
In tali casi dunque non si potrà procedere d'ufficio, ma solo dopo la presentazione di querela.
La norma ha il chiaro significato di graduare la risposta processual-penalistica sulla base dei diversi vincoli di parentela, affinità o convivenza.
Come visto, nel primo comma è prevista una vera e propria scriminante speciale, per i delitti commessi in danno di persone legate da vincoli stretti di parentela, affinità e convivenza.
Al contrario, il secondo comma non integra una causa di giustificazione, ma si limita a richiedere la condizione di procedibilità della querela per i fatti commessi in danno di soggetti legati al reo da vincoli più blandi di parentela, affinità o convivenza, come appunto il coniuge legalmente separato, il vincolo di fratellanza non avvinto dal carattere della convivenza, la parentela di terzo grado caratterizzata dalla convivenza.
È chiaro che l'effettiva graduazione della risposta processual-penalistica sarà efficace avendo bene individuato i presupposti di operatività della norma di cui al comma 1, come sopra esposto. Di qui, il secondo comma verrà in rilievo di fronte all'individuazione in negativo dei requisiti di operatività del primo comma.
In tale contesto, l'integrazione del requisiti previsti dal primo comma escluderà l'operatività del secondo, e viceversa. Una circostanza da cui deriva la necessità per cui i concetti di separazione e convivenza - necessari per far operare il primo comma piuttosto che il secondo - saranno i medesimi sopra esposti.
Pertanto, si avrà separazione legale quando sia stato emesso il provvedimento definitivo di separazione. Si avrà invece convivenza, nei casi in cui il fratello o la sorella, lo zio od il nipote del reo - a prescindere da una mera coabitazione - siano legati allo stesso da un particolare vincolo esistenziale, da un complesso di comuni sentimenti, interessi, abitudini di vita, desumibili da varie manifestazioni e situazioni, da cui deriva l'esistenza di una famiglia.
Segue. La ratio delle disposizioni.
A prima lettura, le norme su esposte potrebbero apparire irragionevoli quanto arbitrarie.
Infatti, richiedere la querela di parte, od addirittura prevedere l'operatività di una causa di giustificazione, nei casi in cui il fatto sia commesso in danno di un soggetto legato al reo da vincoli di parentela, affinità o convivenza più o meno forti, potrebbe apparire, e per certi versi appare, come una carente tutela dei soggetti colpiti dal fatto di reato.
Da un lato, infatti, alcuni soggetti potrebbero essere effettivamente vittime di soprusi extra-familiari, ma essere terrorizzati dalla prospettiva di esporsi con la presentazione di querele, e non avere la forza psico-fisica necessaria per tutelarsi dal pericolo o dal danno subiti.
Dall'altro lato, altri soggetti potrebbero essere effettivamente vittime di soprusi intra-familiari e, benché privi della forza psico-fisica necessaria per tutelarsi dal pericolo o dal danno subiti, non potrebbero comunque richiedere alcuna tutela da parte del sistema processual-penalistico, neppure presentando querela, operando la scriminante di cui al primo comma.
Un sistema congegnato dal Codificatore del '30, in un assetto politico-ideologico fondato sul concetto di famiglia patriarcale, in cui difficilmente discendenti od affini consumavano fatti di reato avverso gli ascendenti, per cui le norme esposte si ponevano di fatto quale tutela processuale per il pater familias abusante dei propri poteri familiari.
Un assetto socio-pedagogico del tutto mutato, non già per la carenza di fatti di reato commessi in danno di discendenti ed affini, ma al contrario perché, nell'odierna società sedicente civile, sono purtroppo sempre più diffusi gli episodi di violenza e sopraffazione intra-familiare, anche nei confronti degli ascendenti, senza limiti di età, condizioni economiche e sociali.
Una realtà purtroppo evidente ma che, nell'oggi, pone le norme suesposte come tutela processuale per un ventaglio molto più ampio di membri della famiglia.
Al di là di tali considerazioni, è evidente che le norme congegnate nell'alveo dell'assetto politico-ideologico del '30 devono essere interpretate alla luce di una lettura costituzionalmente orientata, adeguata ad applicare anche tali disposizioni alla luce dei valori propri dello Stato democratico e sociale di diritto.
Di qui, è stato affermato che le norme di cui all'art. 649 c.p. sono compatibili con il sistema processual-penalistico costituzionale.
In particolare, tali norme si fondano "sulla presunzione di esistenza di una comunanza di interessi che assorbe il fatto delittuoso" (Corte Cost., n. 423/1988), tanto da limitare "l'esclusione della pena ai casi in cui la dimensione lesiva del fatto si esaurisca nell'offesa al patrimonio individuale del congiunto" (Corte Cost., n. 302/2000).
In altri termini, l'esclusione della punibilità del reo è consentita nei casi in cui il fatto di reato integri la consumazione di fatti lesivi esclusivamente del patrimonio individuale del congiunto. In tale contesto, la lesione patrimoniale non assurge a fatto di reato punibile, in quanto il vincolo familiare prevale sul danno patrimoniale e la punibilità del fatto.
La ratio della normativa in questione integra dunque un ""bilanciamento" tra contrapposti interessi, la repressione degli illeciti penali, da un lato, ed il valore dell'unità della famiglia, che potrebbe essere pregiudicato dalla repressione penale del fatto, dall'altro lato" (Corte Cost., n. 352/2000).
Un bilanciamento reso dunque necessario dal Legislatore, al fine di preservare l'unità familiare. Un bene tanto elevato nell'assetto dei principi costituzionali, "da determinare la soccombenza dell'interesse repressivo" dello Stato dei fatti di reato, a condizione che "all'offesa all'interesse patrimoniale non si accompagni l'offesa ad interessi diversi che rendano comunque indispensabile l'intervento sanzionatorio". (Corte Cost. 352 cit.; Cass., Sez. VI, n. 19299/2008).
In tale contesto, per il Legislatore "la dinamica dei rapporti familiari può condurre ad una sorta di autoregolamentazione degli interessi patrimoniali lesi, tanto da far passare in secondo ordine la pretesa punitiva dello Stato". Tale autoregolamentazione tuttavia è consentita dal Legislatore "solo per le ipotesi minori di conflitto".
Al contrario, le cause di non punibilità di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 649 non opereranno "laddove l'agente, per conseguire un proprio interesse patrimoniale, perpetri, ai danni del familiare, reati particolarmente gravi o comunque commessi con violenza".
In tali casi, il Legislatore ha opportunamente previsto che il bilanciamento degli opposti interessi debba prevalere a favore dell'interesse dello Stato a colpire i fatti di reato particolarmente gravi. Un interesse che, mirando a colpire i fatti più gravi di conflitto, a nostro avviso è di fatto rivolto al tempo stesso all'effettiva tutela del bene Famiglia.
Le cause di punibilità - il comma 3 dell'art. 649 c.p.
Il comma 3 dell'articolo 649 c.p. presenta un'eccezione all'operatività delle disposizioni suesposte, previste dai commi 1 e 2.
In particolare la norma, derogando alle regole in esame, indica che "le disposizioni di questo articolo non si applicano ai delitti preveduti dagli artt. 628, 629 e 630 e ad ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone".
In tale contesto, come accennato, viene in rilievo il giusto limite posto alle indicate cause di non punibilità, da cui discende, per tali casi, la punibilità dei fatti commessi avverso i membri della famiglia.
La norma configura dunque il perfezionamento del bilanciamento tra gli opposti interessi in giuoco, per cui l'offesa all'interesse patrimoniale del singolo - essendo perpetrata con modalità particolarmente gravi o perché accompagnata dall'offesa ad interessi superiori - rendono indispensabile l'intervento sanzionatorio, in modo da determinare la prevalenza dell'interesse repressivo dello Stato.
La gravità della condotta realizzata dal reo rende evidente l'impossibilità di autoregolamentazione degli interessi e dei rapporti familiari, essendo evidente la patologica impossibilità di salvaguardare la positiva dinamica di tali rapporti.
La disposizione in questione costituisce dunque il limite normativo alla mancata punibilità.
Tale limite è individuato dal Legislatore nei casi in cui si proceda per i "delitti preveduti dagli artt. 628, 629 e 630" ed "ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone".
La prima parte della disposizione stabilisce che, nei casi di rapina, estorsione, e sequestro di persona a scopo di estorsione, le norme di cui ai commi 1 e 2 non si applicano.
Con la seconda parte della disposizione, inoltre, il Legislatore ha previsto una norma di chiusura, omnicomprensiva di ogni altra circostanza, da cui deriva in ogni caso la punibilità del reo, nel caso in cui la condotta di reato sia realizzata con violenza alle persone.
Per tali ipotesi, la violenza alla persona costituisce carattere di gravità tale da non giustificare per nessun motivo la non punibilità del reo, con piena procedibilità per "ogni altro delitto contro il patrimonio".
In effetti, la violenza alla persona colpisce gravemente l'integrità psico-fisica della Persona, violando un interesse di gran lunga superiore al bene del patrimonio, da cui non possono non derivare effetti conseguenti.
Di qui, nei differenti casi considerati, non opererà la scriminante di cui al comma 1 ovvero la necessità della querela di parte prevista dal comma 2.
Affermazioni di agevole approccio, ma che evidentemente presentano rilievi più problematici, qualora si vogliano individuare in concreto i limiti di configurabilità delle disposizioni citate.
Nel caso posto all'attenzione della sentenza in commento, il ricorrente era stato sottoposto alla custodia cautelare in carcere, essendo indagato del delitto di tentata estorsione, realizzato con minaccia, avverso il padre adottivo.
Il particolare vincolo familiare intercorrente nel caso concreto tra reo e vittima, come chiarito, potrebbe far operare la scriminante di cui al comma 1.
Tuttavia, il G.I.P. ed il Tribunale territoriale avevano ritenuto non applicabile la causa di giustificazione, optando per l'applicazione e la conferma della misura custodiale.
I giudici territoriali infatti ritennero di applicare il comma 3 dell'art. 649 - con esclusione della scriminante di cui al comma 1 - ritenendo che il tentativo di estorsione, realizzato con minaccia alla persona, sia ricompreso entro il limite non giustificabile previsto dalla norma.
Tuttavia, come visto, il ricorrente lamentava che la prospettazione dei giudici di merito traeva spunto da un indirizzo minoritario, in contrasto con l'indirizzo di legittimità prevalente.
E dunque, il tentativo di estorsione, commesso con minaccia alla persona, deve essere ricompreso entro il limite alla non punibilità dei delitti realizzati contro familiari? Od al contrario, la particolare natura del delitto tentato, o le modalità del fatto, comportano l'esclusione della condotta indicata dall'operatività della norma ex comma 3?
Domanda di non agevole approccio, che troverà più ampia soluzione nel prosieguo del presente lavoro.
Il contrasto giurisprudenziale.
Secondo un primo orientamento, la prima parte del comma 3 comporta che i commi 1 e 2 dell'art. 649 c.p. non operano, e dunque è ammissibile la punibilità del reo, esclusivamente nei casi dei delitti consumati "di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione".
In tale contesto, il tentativo di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione non è punibile.
Ed infatti, "nella categoria dei delitti nominativamente indicati dall'art. 649 c.p., comma 3, non possono rientrare anche le forme tentate", per diversi motivi.
Da un lato, in ragione di criteri sistematici, "il reato tentato costituisce una figura criminosa a sé stante e dà luogo ad un autonomo titolo di reato".
Per altro aspetto, in applicazione dei principi di tassatività e del favor rei, la dizione letterale del comma 3, "non menzionando espressamente anche il tentativo, non può essere interpretata estensivamente, vertendosi in una materia in cui non può praticarsi un esercizio ermeneutico in malam partem".
Per altro aspetto, "il delitto tentato costituisce comunque un'ipotesi più lieve rispetto al delitto consumato", da cui deriva la ragionevole esclusione del tentativo dal ventaglio di delitti previsti.
Diversa è invece la prospettiva avendo a riguardo la seconda parte del comma 3, che colpisce con la punibilità "ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone".
In tale contesto, per tale indirizzo giurisprudenziale, la gravità della condotta "è connotata dalla violenza alle persone, che ricomprende anche l'ipotesi del tentativo".
E dunque, nel caso di condotta realizzata con "violenza alla persona", sarebbe punibile anche il tentativo di delitti contro il patrimonio.
Tuttavia, per tale indirizzo giurisprudenziale, il concetto di violenza alle persone deve essere individuato esclusivamente con riferimento alla violenza fisica, con esclusione dunque dei "delitti commessi con minaccia". Siano essi consumati o tentati.
Riepilogando, in tale contesto ermeneutico i delitti di cui agli artt. 628, 629 e 630 sono punibili solo se consumati.
Al contrario, tutti gli altri delitti - anche il semplice tentativo di ogni delitto contro il patrimonio, ivi incluso il tentativo dei delitti di cui agli artt. 628, 629, 630 - sono punibili se commessi con violenza fisica alle persona, con esclusione della condotta consumata o tentata con minaccia.
Per il secondo indirizzo giurisprudenziale, invece, la prima parte della disposizione colpisce i delitti ex artt. 628, 629, 630 c.p., siano essi consumati o tentati.
Per altro aspetto, la nozione di "violenza alle persone" di cui alla seconda parte dell'art. 649 co. 3 c.p. ricomprende sia la violenza fisica che "la violenza morale".
In tale prospettiva, "tutte le fattispecie criminose a cui si riferisce la causa di non punibilità si connotano per l'equiparazione della violenza alla minaccia" (Cass., n. 299/2007 ed altre).
Per tale ultimo aspetto, è stato infatti affermato che "il disvalore assegnato dal legislatore alle condotte indicate nell'art. 649 c.p., comma 1" - sarebbe a dire i delitti contro il patrimonio - "vale a connotare un sistema in cui le fattispecie di reato sono tutte caratterizzate dalla equiparazione della violenza alla minaccia" (tra le altre, Cass., n. 35528/2008).
Di qui, per tale indirizzo giurisprudenziale, tutti i delitti contro il patrimonio sono considerati dal Legislatore con il medesimo disvalore, siano consumati con violenza o con minaccia, essendo anzi la minaccia espressamente parificata alla violenza.
Si consideri, al riguardo, la rubrica del Capo I del Titolo XIII, "che include nella nozione di violenza alle persone, non soltanto la violenza fisica, ma anche la minaccia, ed è quindi comprensiva di ogni atto di coercizione diretta verso la persona".
Un dato semantico da cui emergerebbe, in chiave sistemica, "la conclusione che il Legislatore", con la disposizione di cui all'art. 649 co. 1 c.p., ha inteso individuare un chiaro "precetto normativo", "nel senso che tutti i reati indicati nominatim" - i delitti contro il patrimonio - "possono essere indifferentemente commessi con la violenza o con la minaccia".
Di qui, anche la seconda parte del comma 3, nel riferirsi ad ogni altro delitto contro il patrimonio, dovrebbe essere inteso nel senso di colpire tutti i delitti consumati o tentati con violenza fisica o minaccia.
Riepilogando, in questo secondo contesto ermeneutico, i delitti di cui agli artt. 628, 629 e 630 sono punibili in ogni caso, siano essi consumati o tentati.
Allo stesso modo, ogni altro delitto contro il patrimonio - anche il semplice tentativo - è punibile sia se commesso con violenza fisica che con minaccia, essendo la condotta di minaccia parificata a tutti gli effetti alla condotta connotata da violenza fisica.
E dunque, nel caso in cui l'autore del fatto abbia agito contro il coniuge non legalmente separato, l'ascendente, il discendente o l'affine in linea retta, ovvero nei confronti dell'adottante o dell'adottato, o del fratello o della sorella che con lui convivano, è ammissibile l'operatività della scriminante di cui al comma 1, nei casi di delitti tentati contro il patrimonio, qualora non sia stata utilizzata violenza fisica, ma semplice minaccia morale?
Il dictum di legittimità.
Al fine di risolvere il contrasto giurisprudenziale citato, la Corte innanzitutto chiarisce quale sia l'ambito di applicazione della norma nel caso concreto, quello del delitto tentato.
Per la Corte, "l'imprescindibile dato giuridico dal quale partire è che il tentativo è una fattispecie autonoma rispetto al corrispondente reato consumato".
Da ciò deriva che, "quando l'art. 649 co. 3 c.p. adopera la locuzione "delitti preveduti dagli artt. 628, 629 e 630" (e, quindi ben determinati reati), non può che riferirsi al delitto consumato".
In tale contesto, per la Corte non è condivisibile l'interpretazione offerta sul punto dalla seconda tesi giurisprudenziale indicata, non potendosi in alcun modo estendere la locuzione "delitti preveduti dagli artt. 628, 629 e 630", al delitto tentato.
Ciò, per chiari rilievi di natura semantica - essendo evidente che la norma non si riferisce al delitto tentato - ma altresì per considerazioni di carattere sistemico.
In ogni caso, una conclusione differente "incorrerebbe nel divieto dell'applicazione analogica in malam partem".
Al contrario, con la "più ampia locuzione "ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone"", nella norma "deve farsi rientrare l'autonoma ipotesi delittuosa del tentativo".
E dunque, viene riconosciuto espressamente che la seconda parte della norma, riferendosi ad "ogni altro delitto", colpisce con la punibilità ogni delitto commesso con violenza alla persona, sia esso consumato o tentato.
In tale contesto, deve essere affrontata "l'ultima questione, ossia se la minaccia e la violenza possano o meno essere assimilate al fine di ricevere lo stesso trattamento sanzionatorio".
Confutando le prospettazioni della seconda tesi giurisprudenziale, gli ermellini affermano che "l'argomento di natura letterale è poco significativo, non peraltro perché, secondo i notori canoni ermeneutici, la rubrica di una legge non ha una particolare valenza ai fini esegetici di una norma".
Ed infatti, a nostro avviso, se è vero che i delitti contro il patrimonio possono essere indifferentemente commessi con violenza o con minaccia, è al tempo stesso evidente che l'indicazione "con violenza alle persone", di cui alla seconda parte del comma 3, vale proprio quale criterio dirimente, volto ad escludere indirettamente dalla norma le condotte realizzate con minaccia.
In ogni caso, il comma 3, nel rinviare alle disposizioni del comma 1, non si riferisce ai delitti contro il patrimonio, ma alla scriminante speciale in esso prevista.
In tale contesto, devono essere valorizzati la natura degli elementi normativi citati dalla disposizione nonché rilievi di carattere sistemico ed ordinamentale.
Innanzitutto, il concetto di "violenza, da un punto di vista naturalistico", può essere inteso sotto due differenti profili.
Da un lato, esso si presenta come "violenza propria, ossia come "dispiegamento di un'energia fisica sopraffattrice verso una persona o una cosa, tale da cagionare una coazione personale, assoluta o relativa, ovvero la modificazione di una cosa, sempre attraverso l'uso, appunto, di una forza fisica diretta".
Dall'altro, la violenza assume i caratteri di "violenza impropria", determinata dall'uso "di mezzi anomali (ad es. mediante narcosi - ipnosi - inebriamento) diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui impedendone la libera determinazione".
La violenza dunque, sia essa propria od impropria, consiste in un male in atto.
Al contrario, "la minaccia (o violenza morale)" "consiste nell'annuncio (che può essere fatto anche con gesti) di un male ingiusto futuro [...] con scopo intimidatorio" diretto a restringere la libertà psichica o a turbare la tranquillità della persona.
E dunque, da un punto di vista naturalistico la minaccia - o violenza morale -, consistendo nell'annuncio di un male futuro, deve essere tenuta distinta dalla violenza fisica, che è un male attuale.
Una considerazione da cui derivano effetti conseguenti anche sotto il profilo normativo.
Secondo la Corte, infatti, al di là dei gravi delitti previsti dalla prima parte del comma 3, nella seconda parte della norma "il Legislatore ha voluto colpire [...] solo i reati commessi con violenza, e non anche quelli commessi con minaccia, avendo ritenuto la suddetta condotta, proprio sotto il profilo naturalistico, meno grave e, quindi, non punibile".
Ed infatti, come visto, la ratio dell'art. 649 c.p. consiste nell'integrare un "bilanciamento" tra contrapposti interessi, consentendo la non punibilità dei fatti di reato, nei casi in cui la dinamica dei rapporti familiari può condurre ad una sorta di autoregolamentazione degli interessi patrimoniali lesi, tanto da far passare in secondo ordine la pretesa punitiva dello Stato.
Un vero e proprio limite alla punibilità dei fatti di reato, che tuttavia potrà operare solo nei casi in cui l'autoregolamentazione dei rapporti familiari sia ritenuta dal Legislatore ancora possibile, e dunque confinato entro le ipotesi meno gravi di conflitto familiare.
Di qui, per la Corte l'art. 649 c.p. individua un "discrimine fra punibilità e non punibilità", che in ogni caso "si gioca su due livelli".
Da un lato, "la consumazione di delitti estremamente gravi", come quelli previsti dagli artt. 628, 629 e 630 c.p., siano essi commessi con violenza o minaccia.
Dall'altro, "la commissione del delitto con modalità violente".
In tale ultimo contesto, per la Corte "la minaccia, proprio perchè è un male futuro, ed è, quindi, un qualcosa di meno grave della violenza" comporta la "non punibilità" dei fatti tentati o consumati.
I delitti consumati o tentati con minaccia devono essere infatti inquadrati entro "quelle azioni criminose per le quali il Legislatore non ha ritenuto intervenire - lasciando che si risolvano spontaneamente nell'ambito delle dinamiche familiari".
"Stesso discorso, mutatis mutandis, può essere fatto per il tentativo dei reati di cui agli artt. 628 - 629 - 630 c.p. sempre che non siano commessi con violenza".
Anche in tali casi, sarebbe a dire quando il tentativo sia commesso solo con minaccia, "essendo il tentativo un qualcosa di meno grave del reato consumato, si può presumere che il conflitto patrimoniale fra agente e soggetto passivo possa essere ricomposto bonariamente all'interno della famiglia".
In altri termini, ciò che rileva ai fini della gravità del fatto, è l'avere l'agente agito con violenza fisica avverso la persona. In tutti i casi previsti, il tentativo sarà colpito solo se realizzato con violenza fisica alla persona.
Tale conclusione appare l'unica possibile da un punto di vista semantico, logico e sistemico, anche perché, "se davvero il Legislatore avesse voluto" ricomprendere entro i limiti della norma sia la violenza fisica che la minaccia, "non avrebbe tenuto differenziate le due ipotesi in quanto nella seconda ("ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza") sarebbero certamente rientrate anche le ipotesi criminose di cui agli artt. 628 - 629 - 630 c.p.".
Di qui, discende il principio di diritto, per cui "l'art. 649/3 c.p. esclude la punibilità del tentativo dei reati di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p. ove sia commesso con minaccia". Infatti, "la suddetta fattispecie criminosa rientra nella locuzione "ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza alle persone" che, dovendo essere interpretata restrittivamente, comprende la sola violenza fisica e non anche la minaccia o violenza psichica".
In conclusione. La tutela dei rapporti familiari in ambito processual-penalistico, in una prospettiva de jure condendo.
La legge n. 184/1983, in applicazione dei principi di cui agli artt. 2 e 29 Cost., indica tra le fondamentali prerogative di dignità della Persona il diritto di vivere con la "propria famiglia".
La famiglia infatti è per natura luogo di socializzazione rivolto alla convivenza, un elemento importantissimo per infondere valori positivi ai consociati.
Si consideri infatti che la famiglia, così come intesa dal Costituente, è rivolta all'armonico sviluppo della persona, alla tutela della dignità umana oltre che alla garanzia dei diritti di libertà dei suoi componenti. In essa trova spazio e vigore il "principio solidaristico-esistenziale", per cui la famiglia non è più comunità produttiva di utilità sociali, ma luogo di crescita e progresso delle relazioni e delle personalità tanto da un punto di vista morale che materiale.
In particolare, il rapporto tra i coniugi è informato alla realizzazione ed al rispetto della dignità di ogni singolo individuo, in un quadro di comunione materiale e spirituale. Essi si educano ai valori della fedeltà come dedizione fisica e spirituale comportante un dovere di rispetto della persona e della sua privacy, così come della collaborazione nell'interesse della famiglia.
A tale riguardo, i coniugi sono tenuti all'assistenza morale e materiale, da cui scaturiscono non solo doveri sotto il profilo economico, ma anche e soprattutto sotto il profilo esistenziale, attraverso il rispetto e la cura morale, di vita e di pensiero del coniuge. Nello stesso senso, essi sono tenuti al dovere di contribuzione ai bisogni familiari che, in chiave solidaristica di pari dignità, comporta per entrambi non solo l'obbligo di assicurare il minimo indispensabile ma, in senso più ampio, il quid pluris realizzabile in relazione alle loro capacità di lavoro ed alle loro sostanze così come modificabili nel corso del tempo.
Inoltre essi, da un lato adottano di comune accordo le determinazioni, le decisioni e gli indirizzi utili al governo della famiglia e, dall'altro, hanno ognuno la responsabilità di dare attuazione all'indirizzo concordato. Una prospettiva doppiamente educativa, non solo perché l'esigenza dell'accordo richiede il rispetto del pensiero altrui e la ricerca di soluzioni capaci di riconoscere le esigenze di tutti, ma anche perché l'esecutore materiale dovrà attenersi al rispetto dell'indirizzo concordato, astenendosi da condotte illecite non rispettose del quadro di principi e valori sanciti dall'accordo.
Per altro verso, la famiglia è luogo di educazione anche rispetto i doveri tra genitori e figli. In un primo senso, la potestà dei genitori si esercita secondo i principi generali dell'Ordinamento, in condizioni di parità e di accordo tra i genitori, ed è rivolta alla realizzazione dell'interesse del figlio. In particolare, la potestà genitoriale dovrà assicurare il rispetto, la tutela e lo sviluppo armonico della personalità e della dignità del figlio, atteggiandosi, con il passare degli anni, da momento di direttiva a momento di controllo, in cui il dovere di custodia ed il potere di richiamo saranno variamente esercitati nell'interesse e secondo la volontà consapevole del figlio.
Anche in tal senso quindi l'esercizio di una potestà costituzionalmente orientata educa i soggetti al rispetto delle posizioni altrui. Il genitore infatti non è chiamato ad imporre sempre e solo la propria prospettiva, ma a riconoscere il pensiero e le esigenze altrui, dovendo altresì accordare al figlio dotato di un certo grado di discernimento la libertà di autodeterminarsi al compimento degli atti che il raggiunto livello di maturità consente di adottare.
Nel secondo senso, i figli sono tenuti ad un dovere di rispetto e di collaborazione verso i genitori e nell'interesse della famiglia.
Da quanto detto, è chiaro come la famiglia, e la vita concreta e reale al suo interno, costituisca un importante richiamo ad un diverso e più virtuoso comportamento.
Essa è a tutti gli effetti luogo di educazione e socializzazione, presupposti imprescindibili per la promozione di valori costituzionalmente rilevanti, e fattore determinante l'acquisizione di valori positivi utili alla realizzazione della civile convivenza così come intesa dallo Stato sociale e democratico di diritto.
Tuttavia, la stessa famiglia, in concreto, potrà divenire causa di devianza sociale o di lesione di altrettante prerogative di dignità dell'essere umano.
Si pensi, da un lato, a famiglie fortemente disagiate, non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale, culturale o delle caratteristiche psicologiche dei suoi componenti. Dall'altro invece, si considerino le ipotesi in cui la famiglia, sia pure "normale" secondo i criteri del senso comune, generi di fatto in uno dei suoi membri reazioni di rifiuto dello stile di vita proposto od ancora sindromi da soffocamento della personalità, determinando il soggetto a condotte trasgressive e criminogene.
Per altro aspetto, che qui interessa maggiormente, si pensi ai numerosi casi di violenza e sopraffazione intra-familiare che, anche nell'odierna società sedicente civile, sempre più spesso si verificano nei confronti di parenti, affini o conviventi, senza limiti di età, condizioni economiche e sociali.
Come comportarsi, in tali casi? A nostro avviso, la Repubblica è chiamata innanzitutto a "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto" la possibilità di vivere secondo i principi ed i valori della civile convivenza, negano a genitori e figli il diritto alla "propria famiglia".
In questo senso, la stessa legge 184/1983 indica tale diritto come principio generale, da tutelare attraverso opportuni "interventi di sostegno e di aiuto" in favore delle famiglie in "condizioni di indigenza".
In campo processual-penalistico, il Legislatore repubblicano opportunamente non ha eliminato dalla normativa in materia l'esimente speciale e la condizione di procedibilità di cui all'art. 649 co. 1 e 2 c.p.
Norme che potevano apparire strumentali ad un armamentario politico-ideologico superato, ma che in effetti possono trovare ampia giustificazione, se piegate alle esigenze derivanti dai principi costituzionali.
Ed infatti, nei casi di reati di minore gravità commessi nell'ambito della famiglia, la risposta punitiva penalistica, magari determinata dalle prime "reazioni a caldo", potrebbe apparire eccessiva, e dunque suscettibile di deteriorare definitivamente i vincoli di affetto e solidarietà familiare, con lesione definitiva di diritti di assoluto rilievo, quali, per appunto, il diritto alla "propria famiglia" ed allo sviluppo armonico della personalità dei suoi membri.
Istituti che dunque operano un necessario bilanciamento tra contrapposti interessi, consentendo la non punibilità dei fatti di reato, nei casi in cui la dinamica dei rapporti familiari possa condurre ad una sorta di autoregolamentazione degli interessi patrimoniali lesi, tanto da far passare in secondo ordine la pretesa punitiva dello Stato.
Un vero e proprio limite alla punibilità dei fatti di reato, che tuttavia potrà operare solo nei casi in cui l'autoregolamentazione dei rapporti familiari sia ritenuta dal Legislatore ancora possibile, e dunque confinato entro le ipotesi meno gravi di conflitto familiare.
Entro tali limiti, in effetti il tentativo di delitto commesso con semplice minaccia pare ricompreso entro i confini delle fattispecie meno gravi, per le quali possono operare le cause di non punibilità, lasciando alle parti il compito di ricomporre il conflitto di minore gravità entro l'autoregolamentazione dei rapporti familiari.
Un limite che tuttavia non è riconosciuto per tutti i delitti, consumati o tentati, commessi con violenza fisica alla persona, in cui la gravità del fatto violento, ledendo direttamente le prerogative di dignità e libertà della persona, assume un significato tanto ampio, da meritare la risposta punitiva dello Stato.
Tuttavia, come visto con la sentenza in commento, tali limiti non paiono sufficientemente determinati sotto il profilo della tassatività normativa, ed anzi troppo esposti al mutare delle sensibilità ermeneutiche e del pendolo della giustizia criminale.
Per altro verso, la norma dovrà trovare maggiore forza espansiva, nei casi in cui la condotta, anche se non connotata da una vera e propria violenza fisica, sia comunque realizzata in danno di persona in condizioni di inferiorità psico-fisica o di infermità mentale che, se possibile, integra una condotta ancora più grave ed odiosa della violenza consumata in danno di una persona, ad esempio, di pari forza del reo.
In tal senso, appare necessaria una riscrittura del comma 3, al fine di eliminare dal sistema gli ostacoli residui che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Una necessità imprescindibile, per coadiuvare il ripristino dello sviluppo di rapporti familiari positivi rivolti all'armonico sviluppo della persona, alla tutela della dignità umana ed alla garanzia dei diritti di libertà dei suoi componenti.
Presupposti imprescindibili per la promozione di valori costituzionalmente rilevanti, e fattore determinante l'acquisizione di valori positivi utili alla realizzazione della civile convivenza. In una parola, affermare i principi ed i valori propri dello Stato democratico e sociale di diritto.
Modifiche normative proposte:
L'art. 649 co. 3 c.p. è sostituito dal seguente:
"3. Le disposizioni di questo articolo non si applicano ai delitti consumati preveduti dagli articoli 628, 629 e 630 e ad ogni altro delitto contro il patrimonio, consumato o tentato, che sia commesso con violenza fisica alle persone ovvero abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto".

Da: marcos7515/12/2010 14:08:59
ragazzi domando perchè tentativo se ha preso i soldi??
non è piu giusto parlare di estorsione per la madre, rapina impropria per il padre, e maltrattamenti per entrami???? legati dal vincolo della continuazione??? direi che ne pensate Penalisti??

Da: jolly 15/12/2010 14:09:24
ma quali sono sono le conclusioni allora per la prima traccia?
aiutoooo

Da: Il legale15/12/2010 14:10:13
calma per le conclusioni, bisogna pazientare

Da: Il legale15/12/2010 14:11:25
non è estorsione per la madre e rapina impropria per il padre???

Da: luciddream15/12/2010 14:11:55
napoli deve consegnare alle 17.45, la sospensione è una bufala

Da: NOTIZIE TORINO15/12/2010 14:14:42
SCUSATE MA QUALCUNO RIESCE A METTERSI IN CONTATTO CON TORINO? PER ME IMPOSSIBILE!! PER FAVORE FATEMI SAPERE DI TORINO. GRAZIEEE

Da: Il legale15/12/2010 14:15:46
POTREBBE ANDARE BENE QUESTO PER TRACCIA 1, FORZA RAGAZZI
La soluzione del quesito proposto richiede l'analisi del delitto di il delitto di atti persecutori (c.d. "stalking"), di cui all'art. 612-bis c.p..
Si tratta di un reato comune, non essendo richiesta in capo all'agente la sussistenza di una determinata qualifica, introdotto per dal legislatore per incriminare tutti quei comportamenti che determinano nella vittima uno stato di disequilibrio psicologico e, quindi, per tutelare l'incolumità individuale
La condotta tipica, infatti, consiste nella reiterazione di comportamenti minacciosi art. 612, o molesti art. 660cp., tali da determinare nella vittima "un grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di una persona legata alla medesima da relazione sentimentale affettiva ovvero da costringere la stessa ad alterare le proprie abitudini di vita.
Quanto all'elemento soggettivo, viene richiesto il dolo generico e, quindi, è sufficiente che l'agente si rappresenti e voglia anche l'evento, quale conseguenza della sua azione.
Il reato si consuma nel momento in cui si verifica , quale effetto delle reiterate condotte minacciose o moleste, uno o più degli eventi tipici previsti dalla norma.
L'illecito evoca pertanto la figura del reato abituale, pur discostandosi da tale modello per la previsione di un evento tipico.
Tale norma è entrata in vigore proprio il 25 febbraio 2009, essendo stata introdotta nel nostro ordinamento con il d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 45 del 24 febbraio ed entrato in vigore il giorno successivo alla pubblicazione.
E' quindi, necessario valutare, se gli atti persecutori hanno, iniziati nel novembre 2008, siano terminati prima dell'entrata in vigore della fattispecie delineata, o Tizio abbia continuato a perseguire Caia anche dopo l'entrata dell'art.612-bis.
Nel primo caso, si potrà rassicurare Tizio sulla impossibilità giuridica della nascita di procedimenti penali nei suoi confronti in virtù del principio costituzionale della irretroattività della nuova fattispecie.
Qualora, invece, tizio abbia continuato a molestare Caia, anche dopo l'entrata della normativa occorre vedere se la molestia gli atti successivi siano soltanto uno ovvero abbia commesso più comportamenti.
Nel secondo caso sussisterebbe sicuramente il reato.
Ed, infatti, il termine "reiterare" utilizzato dal legislatore, denota la "ripetizione di una condotta una seconda volta ovvero più volte con insistenza", e quindi è sufficiente, per la sussistenza del delitto de quo, il compimento di due soli atti di persecuzione.
Qualora, invece, gli atti di persecuzione, siano stai commessi in un unica occasione, sebbene dopo l'entrata della normativa, non sussisterà la reiterazione, quale elemento costitutivo della fattispecie, con la conseguenza che i singoli atti non integreranno il delitto di atti persecutori bensì altre fattispecie già conosciute dall'ordinamento (es.: minaccia, molestie, violenza privata), eventualmente unite dal vincolo della continuazione (art. 81 c.p.).
La struttura del reato di atti persecutori è quindi disegnata sul modello del reato necessariamente abituale, caratterizzato dalla sussistenza di una serie di fatti commissivi. Il reato si perfeziona allorché si realizzi un minimo di tali condotte collegate da un nesso di abitualità e può formare oggetto anche di continuazione, ex art. 81 cpv. c.p., come nell'ipotesi in cui la reiterazione sia interrotta da un notevole intervallo di tempo tra una serie di episodi e l'altra[2]. Pertanto, se nel periodo considerato si verifica una parentesi di normalità nella condotta del soggetto attivo, un intervallo di tempo fra una serie e l'altra di episodi lesivi del bene giuridico tutelato dalla norma, non viene meno l'esistenza del reato, ma ciò può dar luogo alla continuazione.
Tuttavia, trattandosi di reato abituale, occorre valutare se le condotte antecedenti l'entrata in vigore del d.l. 11/2009 possano essere prese in considerazione ed utilizzate per ritenere sussistente il reato all'atto della realizzazione dell'ultima condotta.
Sul punto, con riguardo a reati abituali, non si registrano specifiche posizioni della giurisprudenza di legittimità.
Si può tuttavia osservare che, con riferimento a reati a consumazione prolungata (come, ad esempio, la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, ex art. 640-bis c.p.), la Suprema Corte ha valorizzato condotte antecedenti l'entrata in vigore della norma incriminatrice.
Tutto ciò in quanto, secondo la Giurisprudenza di legittimità il reato abituale si consuma nel momento in cui cessa la condotta abituale con la conseguenza che la nuova normativa è applicabile anche se solo una parte della condotta è stata posta in essere dopo l'entrata in vigore della legge più sfavorevole, in quanto l'art. 2 c. 4 c.p. fa riferimento al tempo in cui è stato commesso il reato e cioè a quello in cui si è consumato.
Alla luce di quanto espresso, la difesa dovrà, in primo luogo vedere se gli atti persecutori commessi prima o dopo l'entrata in vigore dell'art. 612 bis c.p.
Nella prima ipotesi tizio non potrà essere ritenuto responsabile del delitto di atti persecutori stante il principio della irretroattività
Qualora, invece, Tizio abbia commesso atti di molestia anche dopo il 25 febbraio 2009, la linea difensiva dipenderà dal fatto se questi siano stati posti in essere in un'unica occasione o in più occasioni.
Nel secondo caso la difesa avrà pochi margini di azione e, quindi è consigliabile avanzare richiesta di applicazione della pena su richiesta delle parti, il cosiddetto patteggiamento sulla pena ex art .444 c.p.p.
Viceversa, la difesa dovrà sostenere che gli atti posti in essere non possono essere collegati agli atti successivi. Tuttavia, considerato che la Suprema Corte, così come detto sopra, ha affermato il principio opposto è consigliabile avanzare richiesta di giudizio abbreviato per usufruire del beneficio della riduzione di un terzo della pena ex art. 442 c.p.p.

integrando questo con la giurisprudenza credo sia risolto il problema, a mio avviso è fatto bene

Da: Vincy15/12/2010 14:18:55
Scusate da chi è corretta Bologna?

Da: rossana15/12/2010 14:20:41
e per la seconda traccia?

Da: Firenze15/12/2010 14:21:21
FIRENZE è corretta da TORINO.
Studiando le percentuali Torino è anche peggio di Venezia.
Dopo Catanzaro nel 2009 quest'anno è andata proprio male.

Da: xxx15/12/2010 14:21:28
Ciao ragazzi, riguardo la prima traccia concluderei nel senso che:
Alla stregua delle argomentazioni suesposte, si ritiene confacente ad idonei canoni interpretativi ritenere che anche se si configurasse altro reato, es. 612(minaccia) richiederebbe pur sempre la proposizione della querela che in tal caso ex art.624 cp è di 3 mesi.. pertanto il reato sarebbe improcedibile e ancora nel caso del 660 cp (molestia..) si potrebbe chiedere l'oblazione, visto che si tratta di una contravvenzione, che consiste nel pagamento di una somma di denaro(che ha effetto di degradare il reato ad illecito amministrativo e , quidi, di estinguerlo), prima dell'apertura del dibattimento o del decreto di condanna.. confrontatevi con altri.. io la penso così.. Scusa Ale ma non condivido

Da: maariala15/12/2010 14:21:48
si infatti...per la seconda traccia?

Da: 2 disperate15/12/2010 14:23:12
da Salerno non rispondono....siete vivi???

Da: ale15/12/2010 14:23:37
xx cosa non condividi? la soluzione? no problem, non credo ci sia nulla da scusarsi ma solo da confrontarsi!!!

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