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Da: AVV17/12/2008 12:44:37
sarò sulla strada sbagliata ma secondo me il parere non è sulla custodia...
secondo me bisogna valutare il concorso di tizio in omicidio preterintenzionale-aberratio, a meno di scriminare anche quella e quindi nulla...

Da: X TUTTI17/12/2008 12:45:39
A QUEST'ORA HANNO GIA' FINITO LA BRUTTA COPIA

Da: Il moralizzatore17/12/2008 12:46:15
AVE MARIA (RIPETERE CONVINTAMENTE TREMILA VOLTE):

Ave Maria, gratia plena,
Dominus tecum,
benedicta tu in mulieribus,
et benedictus fructus ventris tui, Iesus.
Sancta Maria, mater Dei,
ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae.
Amen.

Da: fabri17/12/2008 12:46:22
scusate in definitiva quali sono le sentenze da dover usare per la prima se la 10735 non si può usare

Da: fabri17/12/2008 12:46:23
scusate in definitiva quali sono le sentenze da dover usare per la prima se la 10735 non si può usare

Da: steff17/12/2008 12:46:41
...

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Da: Serpe per ALESSANDRO17/12/2008 12:46:54
Attenzione per ALESSANDRO bisogna riferirsi all'ART:  331  codice penale!!!!!!!!!

Da: alessandro17/12/2008 12:47:19
anonimo, a parere mio la sentenza che c'è su affaritaliani è superata

Da: incubo bianco17/12/2008 12:47:25
DANIELA CI SEI ANCORA?DANIELA CI SEI ANCORA?DANIELA CI SEI ANCORA?DANIELA CI SEI ANCORA?DANIELA CI SEI ANCORA?DANIELA CI SEI ANCORA?DANIELA CI SEI ANCORA?DANIELA CI SEI ANCORA?

Da: X il Moralizzatore17/12/2008 12:47:30
sei un bambino cretino e frustrato!!!

Da: polpetta17/12/2008 12:47:48
non perdete la fiducia voi negli inferi del diritto nero...

Da: DI RIENTRO DALLUDIENZA17/12/2008 12:47:57
la custodia non c'entra .. vedi mio post precedente.

tizio non risponde ex art. 387 perchè il criminale vien catturato.

va valutato se la condotta colposa di Tizio possa concorrere in omicidio.
(ci sono centinaia di sentenze su concorso colposo nell'aberratio)

Seguendo questa strada non vedo ulteriori problemi.

Da: fabri17/12/2008 12:47:59
ALESSANDRO aiuto si usa la sentenza o no

Da: ANONIMA17/12/2008 12:48:51
PARERE DI SUSI TRACCIA 1

Per la risoluzione del caso prospettato è opportuno soffermarsi sui concetti di diffamazione e diritto di cronaca.

In base allâart. 595 del c.p., si ha diffamazione tutte le volte in cui taluno, âcomunicando con più persone, offende lâaltrui reputazioneâ, e non ricorra in concreto una fattispecie di ingiuria, laddove la reputazione non è altro che la considerazione dei terzi nella quale si riflette la dignità personale.

La diffamazione, pertanto, consiste in una manifestazione del pensiero, che rileva, ai fini della consumazione del reato, nella misura in cui lâespressione offensiva venga a conoscenza di unâaltra persona o comunque sia da altri percepita.

Lâoffesa è rivolta nei confronti della reputazione della persona che può essere lesa o messa in pericolo da chiunque attribuisca al soggetto interessato qualità o fatti in qualche modo disonoranti.

Tale offesa implica in concreto, ma non necessariamente, che la persona si senta colpita nel proprio onore e che ne risenta la sua reputazione in termini di perdita di stima. Ma, dal momento che si verte nel campo dei beni morali, non è facilmente accertabile se questi vengano lesi effettivamente ovvero solo potenzialmente.

Lâoffesa alla reputazione costituisce il nucleo della norma incriminatrice, che punisce chi cerca di scalfire e, in effetti, scalfisce la stima di cui taluno gode tra i consociati, ciò che costituisce il valore sociale della persona.

La ratio della norma è evidente nelle ulteriori previsioni che aggravano la fattispecie di reato in argomento, previsioni che sanzionano con maggiore rigore la diffamazione che avviene mediante la stampa o che consiste nellâattribuzione di un fatto determinato. È agevole notare che in presenza di tali circostanze aumenta lâidoneità offensiva della condotta posta in essere dallâagente e la reputazione dellâoffeso risente di un danno più grave.

Lâoffesa può essere arrecata con qualsiasi mezzo (ad esempio attraverso la stampa, la radio o la televisione) e con qualunque modalità idonea, sia attraverso lâattribuzione di un fatto determinato, sia semplicemente tramite insinuazioni.

Tra le cause di giustificazione comuni che si applicano generalmente alla diffamazione vi sono l'esercizio di un diritto, come appunto può essere il diritto di cronaca.

Sicché, in alcuni casi, è pacifico che i diritti della personalità del singolo possano legittimamente essere violati; ciò avviene soprattutto nellâesercizio del diritto di cronaca e soltanto se ricorrano determinate e specifiche condizioni; in mancanza di queste, ogni lesione di tali diritti deve ritenersi illegittima ed illecita.

Una nota sentenza della Corte di Cassazione n. 5259 del 1984 (c.d. sentenza decalogo), ha proprio statuito circa le necessarie condizioni la cui esistenza consentirebbe di valutare la configurabilità della c.d. esimente del diritto di cronaca.

La Suprema Corte ha statuito, infatti, che âlâesercizio della libertà di diffondere, attraverso la stampa, notizie e commenti è legittimo se concorrono le condizioni della utilità sociale dellâinformazione; della verità dei fatti esposti; e, infine, della forma civile dellâesposizione degli stessiâ.

Passando ora allâanalisi della fattispecie proposta, la stessa riguarda, appunto, il reato di diffamazione  per mezzo di una emittente televisiva locale, con riferimento  ai diritti di un dirigente scolastico il quale propone querela avverso lâautore di un servizio televisivo e del direttore dello stesso telegiornale invocando lâart. 57 c.p. relativo ai reati commessi con il mezzo della stampa.

Nel servizio si affermava, peraltro contrariamente al vero, che il Preside del Liceo della città di alfa aveva assicurato agli alunni, coccupanti i locali scolastici, che non avrebbe chiesto lo sgombero con lâintervento delle forze dell'ordine.

Nel caso di specie, di certo non ricorre lâesimente dellâesercizio del diritto di cronaca la quale richiede, alla luce di un costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, l'inderogabile necessità di un assoluto rispetto del limite interno della verità oggettiva, limite, in questo caso, violato poiché la notizia riportata dal telegiornale è risultata totalmente fasulla.

Tuttavia non sembra prospettabile la condanna per il reato ex art. 57 c.p., in quanto la Corte di Cassazione, di recente ha statuito che âl'inattendibilità dell'informazione non costituisce in sé offesa all'altrui reputazione, occorrendo che essa necessariamente si connoti di un portato lesivo delle qualità morali, intellettuali o professionali di una persona, valutato non già secondo la considerazione della stessa, ma in conformità all'opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storicoâ (Cass. pen. - sez V â" n. 10735 del 10.03.2008).







Ora, l'accusa rivolta al responsabile di un istituto scolastico di volersi attivare per impedire un possibile sgombero coattivo dell'occupazione studentesca in atto da parte della forza pubblica non è in alcun modo lesiva della sua dignità professionale, in quanto attinente a una sfera di autonomia decisionale connessa alla funzione amministrativa del Dirigente Scolastico, assunta nell'interesse pubblico e volta a sopire pericolose provocazioni, evitando il rischio di maggiori guai per le persone e per le cose, nella prospettiva di liberare il più presto l'edificio dallo stato di paralisi e riprendere il corso scolastico.

Né, d'altra parte, al Preside è attribuita un'attività di illecita inerzia, quale una omissione penalmente rilevante, né una illecita solidarietà con i giovani studenti.

Dunque, si conclude per l'assenza dell'elemento oggettivo del reato che determina conseguenzialmente  l'inesistenza dell'illecito contestato; pertanto, non sussiste il reato di diffamazione imputato dal querelante ai due querelati.

Da: anonino17/12/2008 12:48:54
Sentenza di riferimento Traccia I
Cassazione - Sezione Quinta Penale, Sentenza 2 aprile 2004, n.15595: Diffamazione a mezzo stampa e diritto di cronaca giornalistica).

vedi http://www.affaritaliani.it/cronache/avvocatura--tracce-tema-diritto-penale171208.html

Da: steff17/12/2008 12:50:01
mi dite per favore le sentenze della 2a traccia?

Da: incubo bianco17/12/2008 12:50:19
MA TUTTI QUESTI PARERI CHE COPIATE DA ALTRI SITI SONO ESATTI?

Da: seipunti x AVV17/12/2008 12:50:47
AVV
Sono in fase di studio anche io...e nn pretendo di far il saputello.
Ragioniamoci insieme.
Se Tizio non si macchiasse di un qualcosa non potrebbe essergli ascritto alcun reato (lapalissiano)...tantomeno l'omicidio (colposo o preter che dir si voglia)..dato che il colpo è partito da altri e da una pistola no sua.
quindi a che titolo potrebbe rientrare tizio nella vicenda?  secondo me solo per aver colposamente omesso una custodia adeguata del Caio ( attenzione l'art. 387 parla di detenuto o arrestato....caio cos'è??) che ha determinato involontariamente una sparatoria.

Da: ANONIMA17/12/2008 12:50:50
INDICAZIONI SULL'ISTITUTO E SUL REATO TRACCIA 1


Il reato di diffamazione a mezzo stampa e la reputazione
Avv. Stefano Cultrera
La diffamazione, così come lâingiuria, consiste in una manifestazione del pensiero, che rileva, ai fini della consumazione del reato, nella misura in cui lâespressione offensiva venga a conoscenza di unâaltra persona o comunque sia da altri percepita.
Lâoffesa è rivolta nei confronti della reputazione della persona - che al momento possiamo intendere come la âpersonalità socialeâ, il valore sociale di un determinato individuo - che può essere lesa o messa in pericolo da chiunque attribuisca al soggetto interessato qualità o fatti in qualche modo disonoranti.
1. Il reato di diffamazione.

La diffamazione, così come lâingiuria, consiste in una manifestazione del pensiero [1], che rileva, ai fini della consumazione del reato, nella misura in cui lâespressione offensiva venga a conoscenza di unâaltra persona o comunque sia da altri percepita.

Lâoffesa è rivolta nei confronti della reputazione della persona - che al momento possiamo intendere come la âpersonalità socialeâ, il valore sociale di un determinato individuo - che può essere lesa o messa in pericolo da chiunque attribuisca al soggetto interessato qualità o fatti in qualche modo disonoranti. Tale offesa implica in concreto, ma non necessariamente, che la persona si senta colpita nel proprio onore e che ne risenta la sua reputazione in termini di perdita di stima. Ma, dal momento che si verte nel campo dei beni morali, non è facilmente accertabile se questi vengano lesi effettivamente ovvero solo potenzialmente.

A questo punto occorre domandarsi se si tratti di reato di lesione o di pericolo e valutare, dunque, se la ratio della norma incriminatrice si identifica con la lesione ovvero con il pericolo di lesione del bene-reputazione. Ciò rileva al fine di determinare il grado di tutela del bene giuridico in questione (rendendo incerto il momento consumativo del reato).

Si premette che il reato si consuma nel momento in cui lâespressione offensiva è comunicata ad altre persone e si verifica la diffusione della propalazione offensiva. Dal testo della norma sembra desumersi che, in caso di comunicazione fatta separatamente a più persone, la consumazione segue la seconda comunicazione e tutte le altre rilevano ai fini della gravità del reato per il maggior danno che ne deriva.

La Suprema Corte di Cassazione ha affermato sul punto che âla diffamazione è un reato formale ed istantaneo che si consuma con la comunicazione con più persone lesiva dellâaltrui reputazione onde diviene irrilevante, ai fini del perfezionamento della fattispecie, una maggiore espansione quando si sia realizzata la propalazione minima, sempre che si rimanga nello stesso contesto di azioneâ [2].

Secondo parte della dottrina siamo in presenza di un reato di pericolo e non è necessario, per la configurabilità del reato, che âil biasimo abbia trovato credito presso coloro che lo hanno appreso e, quindi, non si esige che la reputazione sia distrutta o diminuitaâ [3]. Secondo altra parte della dottrina si tratta, invece, di un reato di danno e lâoffesa presa in considerazione dalla norma è lâeffettiva lesione del bene-reputazione [4].

La lettera della norma sembra deporre nel primo senso, dal momento che manca in questa un richiamo espresso allâeffettiva perdita di stima. In ogni caso le difficoltà di inquadramento nellâuna o nellâaltra categoria di reati dipendono anche dalla natura del bene tutelato, che non consente una sua precisa e concreta identificazione.

Riguardo alla configurabilità del tentativo, questo potrebbe anche configurarsi in astratto, ma la possibilità che si realizzi in concreto è limitata anche dal fatto che, essendo un reato perseguibile a querela di parte, si presuppone, perché si configuri, che il soggetto passivo sia venuto a conoscenza dellâoffesa rivoltagli.

2. Il bene giuridico tutelato.

Si ha diffamazione tutte le volte in cui taluno, âcomunicando con più persone, offende lâaltrui reputazioneâ e non ricorra in concreto una fattispecie di ingiuria.

Tale ultima precisazione, contenuta nella clausola âfuori dei casi indicati nellâarticolo precedenteâ, sta a significare che un primo requisito negativo del reato in questione è lâassenza dellâoffeso, il quale si trova nellâimpossibilità di giustificarsi ed eventualmente rispondere allâoffesa.

È proprio da ciò che discende, peraltro, la maggiore gravità della diffamazione rispetto allâingiuria âper la maggiore quantità ed estensione del danno e per la viltà e la particolare pericolosità del colpevoleâ [5].

A tale requisito negativo se ne aggiunge un altro, che incide sulla struttura del reato e sulle modalità di aggressione del bene tutelato dalla norma, dato dalla divulgazione dellâoffesa. Lâazione incriminata si verifica, dunque, rendendo edotte altre persone della notizia diffamante nei confronti di qualcuno, che è assente, il quale ne riceve nocumento per la sua reputazione.

Lâoffesa alla reputazione costituisce il nucleo della norma incriminatrice, che punisce chi cerca di scalfire e, in effetti, scalfisce la stima di cui taluno gode tra i consociati, ciò che costituisce il valore sociale della persona. La ratio della norma è evidente nelle ulteriori previsioni che aggravano la fattispecie di reato in argomento, previsioni che sanzionano con maggiore rigore la diffamazione che avviene mediante la stampa o che consiste nellâattribuzione di un fatto determinato. È agevole notare che in presenza di tali circostanze aumenta lâidoneità offensiva della condotta posta in essere dallâagente e la reputazione dellâoffeso risente di un danno più grave.

La norma de qua è collocata nel capo II, âDei delitti contro lâonoreâ, del titolo XII, âDei delitti contro la personaâ, del libro II del codice penale. Tale titolo prevede e punisce i delitti che offendono direttamente beni essenziali dellâindividuo e tra questi è ricompreso, per lâappunto, lâonore. Giova rammentare che i delitti contro lâonore, contenuti del capo in esame, sono due: oltre alla diffamazione è sanzionata anche lâingiuria. Nel codice è, comunque, possibile rinvenire altre offese allâonore sanzionate penalmente, ma si tratta di fattispecie incriminatrici che prendono in considerazione la lesione di interessi di maggior rilievo sociale.

Basti pensare allâabrogazione della norma che prevedeva e puniva il reato di oltraggio a un pubblico ufficiale (art. 341 CP), che è stata considerata dalla giurisprudenza norma assorbente rispetto a quella che prevede il reato di ingiuria. Norma questâultima che contiene solo una parte delle fattispecie che dapprima potevano essere ricondotte nellâambito di applicazione della prima norma, che âtutelava alternativamente il prestigio o lâonore del pubblico ufficialeâ e non âlâonore e il decoro della persona offesaâ [6].

Autorevole dottrina intende per onore âil complesso delle condizioni da cui dipende il valore sociale della persona, lâinsieme delle doti morali, intellettuali, fisiche e delle altre qualità che concorrono a determinare il pregio dellâindividuo nellâambiente in cui viveâ [7]. Vengono, dunque, in rilievo sia lâaspetto soggettivo (le qualità delle persona) che quello oggettivo (il valore sociale) dellâonore.

La dottrina germanica, invero, sottolineando il profilo soggettivo del bene-onore, sosteneva che questâultimo, in quanto racchiude il valore intrinseco dellâuomo, non può in alcun modo essere leso da un altro uomo [8].

Il nostro ordinamento considera lâonore sotto due aspetti lâuno di natura soggettiva, lâaltro di natura oggettiva, che vanno oltre il valore più intimo dellâuomo. Il primo consiste in ciò che la dottrina ha definito come il âsentimento del proprio valore socialeâ ed è rimesso allâapprezzamento dellâindividuo stesso, mentre il secondo - ed è quello che più ci interessa - è rappresentato dal giudizio degli altri sulle sue doti, dalla reputazione e dalla considerazione di cui gode nella comunità. Ciò vale anche quando la lettera dellâart. 594 CP sembra riferirsi allâonore come allâinsieme delle qualità morali, indicando le altre qualità col termine decoro.

La lettera del codice penale è chiara nel ricomprendere nellâambito del reato di ingiuria la lesione dellâonore e in quello del reato di diffamazione lâoffesa della reputazione. Come precisato entrambi i termini afferiscono al concetto principe di onore.

Del resto, mediante le dichiarazioni ingiuriose o diffamatorie non si fa altro che attribuire a un soggetto qualità o fatti disonoranti, in grado di ledere tanto il sentimento del proprio valore sociale, quanto la reputazione dellâindividuo. Malgrado, soprattutto in passato, si sia tentato da parte di alcuni autori [9] di relegare lâoffesa alla reputazione nellâambito della diffamazione e quella al sentimento dellâonore nellâambito dellâingiuria, non si può negare che in concreto il fatto criminoso possa avere ripercussioni su entrambi gli aspetti.

Dâaltronde, la giurisprudenza in tema di diffamazione non parla soltanto di opinione o stima di cui gode lâindividuo, ma anche di âsenso della dignità personale in conformità allâopinione del gruppo socialeâ [10] o ancora di âdecoro professionaleâ [11]. Vieppiù, sembra riconoscersi lâesistenza di un minimum di personalità sociale, che rende doveroso un corrispondente rispetto minimo nei confronti di tutte le persone. Al di là di tale soglia viene, poi, riconosciuta unâulteriore tutela della reputazione, che è collegata alla posizione sociale che riveste il soggetto interessato. Rilevano, quindi, anche le qualità della persona offesa.

Indubbiamente, si tratta di una considerazione âastrattaâ delle particolari doti sociali della persona che procede per categorie: si parla in proposito di relatività della reputazione e nelle ipotesi concrete lâoffesa va commisurata al rispetto medio dovuto alle diverse categorie degli avvocati, dei magistrati, degli sposi et coetera.

Il minimum di valore sociale tutelato è da rapportare al contesto sociale in cui è inserito e, su tali basi, la giurisprudenza ha affermato che non integra il reato di diffamazione la mera âinfrazione alla suscettibilità e alla gelosa riservatezzaâ del soggetto passivo, avuto riguardo non solo alla totalità della popolazione, ma anche ai più limitati contesti di categorie professionali e di specialisti di un determinato settore [12]. Di tal guisa, il sentimento del proprio valore sociale, sul piano squisitamente oggettivo e quindi della reputazione, è âlimitatoâ dallâapprezzamento che la comune opinione fa o può socialmente fare su quella data persona. È ciò che rileva in tema di diffamazione.

Sintetizzando, la relatività del concetto di reputazione si ricollega, anzitutto, al momento storico di riferimento (basti pensare allâepiteto âfascistaâ utilizzato oggi in raffronto al ventennio fascista), in secondo luogo al contesto sociale e, infine, al più limitato eventuale ambito di categoria cui appartiene lâoffeso. Inevitabilmente, si tratta di un concetto elastico âi cui parametri sono destinati a non rimanere fissi nel tempo bensì a seguire â il mutamento della cultura e dei costumi socialiâ [13].

Nondimeno, per verificare tale concetto è necessario âtenere presenti tutti gli indici che siano suscettibili di assumere rilievo al fine di individuare consistenza ed estensione della reputazione di un determinato soggettoâ [14]. Pertanto, dal momento che la reputazione racchiude in sé le peculiarità personali, familiari e lavorative di un dato individuo, non si può non tenere in considerazione anche queste per valutare lâidoneità offensiva della comunicazione che si reputa diffamante. Non si tratta di spostare sul piano soggettivo il concetto di reputazione, che per forza di cose è intrinsecamente oggettivo, ma di rapportarlo alla posizione sociale o professionale dellâoffeso, la cui reputazione proprio in ragione di tale considerazione potrebbe anche non ritenersi lesa o messa in pericolo.

Si pensi, ad esempio, a Sempronio che dichiara a più persone lâignoranza di Tizio in una data disciplina, che nulla ha a che vedere con questi per professione, ambiente sociale in cui opera, etc.. In tale ipotesi lo stato o il grado sociale di Tizio potrebbe far considerare le dichiarazioni di Sempronio offensive della reputazione di Tizio? potrebbe costui, che non ha mai studiato diritto penale, offendersi perché qualcuno ha detto ad altri che non conosce quella particolare categoria di reati che la dottrina germanica denomina âAusserungsdeliktsâ?

Quanto affermato sopra risulta di notevole rilevanza, perché la verifica della natura diffamatoria delle âcomunicazioniâ dellâagente è essenziale per lâaccertamento del reato. Infatti, sembra banale dirlo, perché possa configurarsi la diffamazione, deve sussistere lâoffesa alla reputazione. Se già, in virtù dellâaccertamento di fatto operato dal giudice, non si riscontrerà lâidoneità offensiva della condotta, perché ad esempio lâambiente in cui è stata posta in essere o il suo particolare contesto consentono di esprimersi in termini quasi offensivi, lâindagine sullâelemento oggettivo del reato porterà alla conclusione che il fatto non costituisce reato.

Si pensi alla lotta politica e alle espressioni pungenti e suggestive, sovente, utilizzate dai politici per apostrofare colleghi e personaggi pubblici, al fine di comunicare più efficacemente con i cittadini e carpirne il consenso [15]. Peraltro, anche coloro che ascoltano, da spettatori, tali dibattiti tra politici non colgono il significato offensivo ex se dellâespressione eventualmente utilizzata, se non come strettamente collegato al problema di interesse pubblico, più rilevante, su cui si controverte [16].

Se nel caso appena citato la tutela della reputazione viene contenuta dal particolare contesto in cui si realizza la comunicazione offensiva, la relatività del concetto di reputazione non può però comportare una modifica in peius della tutela apprestata dallâordinamento quando una data persona sia per qualsivoglia motivo disistimata o disonorata. Il che vuol dire che quel minimum di valore sociale, di cui parlavamo prima, va riconosciuto a tutte le persone, che, in quanto tali, hanno una dignità personale e un diritto allâintegrità morale che è indipendente dalla buona o cattiva fama posseduta.

Il rispetto sociale è dovuto a chiunque e il nostro ordinamento non può tollerare aggressioni alla reputazione di soggetti, che, pur essendo già compromessi per altri motivi, non possono avere lesa la propria dignità personale o professionale impunemente. Ciò, del resto, contrasterebbe con i principi della nostra Carta costituzionale e, in particolare, con lâart. 3, che - come detto - assicura pari dignità sociale a tutti i cittadini.

La giurisprudenza in tali ipotesi ha ritenuto, più volte, di tutelare lâonorabilità di tutte le persone, anche in presenza di eventi disonorevoli, âessendo la reputazione tutelata tanto come stima che una persona si è conquistata presso gli altri per i suoi meriti, quanto come rispetto sociale minimo cui ogni persona ha diritto, in quanto tale, indipendentemente dalla buona o cattiva fama che abbiaâ [17].

È vero, dunque, che taluno possa godere di una maggior tutela della propria reputazione per la posizione sociale o professionale che riveste in seno alla comunità, ma non è altrettanto vero che altri possano risentire delle loro malefatte con gratuite e ulteriori aggressioni diffamatorie a discapito della loro dignità personale. La Corte di Cassazione ha mantenuto tale orientamento anche trattando del diritto di cronaca giudiziaria.

È il caso solo di accennare allâorientamento di una parte della dottrina, secondo cui, invero, in tali ipotesi non si potrebbe garantire la tutela dellâonore a chi ha una reputazione negativa, realizzandosi vieppiù unâipotesi di reato impossibile ai sensi dellâart. 49 CP [18].

Occorre, infine, operare la distinzione tra la lesione del bene giuridico della reputazione e quella del bene dellâidentità personale, al fine di delimitare lâambito delle condotte offensive che possono configurare una responsabilità penale per diffamazione.

In genere, quando viene diffusa una determinata notizia o una raffigurazione che incide in qualche misura sul giudizio che altri possano avere sulla persona, oggetto della notizia e della raffigurazione, e sul suo valore sociale, può configurarsi una fattispecie di diffamazione ex art. 595 CP. Perché ciò accada è, però, necessario che si realizzi unâoffesa alla reputazione e non basta che âvi sia distorsione della effettiva identità personale o alterazione, travisamento, offuscamento, contestazione del patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionaleâ [19]. In questi ultimi casi potrebbe, al più, configurarsi un illecito civile per lesione del diritto allâidentità personale.

Così, ad esempio, mentre non costituisce reato il fatto che il giornalista esprima in certi termini la scelta politica di un dato soggetto, potrebbe ravvisarsi una sua responsabilità penale nel momento in cui attribuisce alla stessa persona unâopinione che costituisce âun abuso della libertà di manifestazione per il suo contrasto con valori fondamentali comunemente sentitiâ [20]. In alcuni casi, poi, potrebbero sussistere entrambe le lesioni, come nel caso in cui le propalazioni offensive concernano i compiti istituzionali di un magistrato, offeso in ugual misura nella sua reputazione e nella sua dignità ed identità personale [21].

Da: alessandro17/12/2008 12:51:07
anonimo se abbiamo una sentenza 2008 fotocopia del caso d'esame perchè usare quella del 2004?
anche i siti sbagliano...

Da: dalila17/12/2008 12:51:37
art 387 art 386 c. p tizio risponde dell omicidio a seguito del comportamento colposo dovuto ad una mancata custodia dell arma punibile sia penalmente che dalla dispiscina prevista x una forza dell ordine.. il parere deve argomentarsi partendo dalla mancata custodia dunque e dalle eventuali conseguenze che si ricollegano l omicidio x l appunto..può sembrare insidiosa come traccia ma lo svolgimento ruota intorno a questo concetti cardine...

hi ha da aggiungere aggiunga cosi completiamo il parere!!!!
complimenti ad alessandro e daniela x il parere inerente la prima traccia!!!!

Da: ermenegildomotumeno17/12/2008 12:52:03
la situazione è complicata ma faremo il possibile ... teniamoci informati su eventuali sviluppi...

Da: kapkirk17/12/2008 12:52:14
Questa è la sentenza che avete richiesto:

ABUSO DI UFFICIO - INGIURIA E DIFFAMAZIONE - PUBBLICO UFFICIALE -
REATO IN GENERE - SEGRETI
Cass. pen. Sez. II, (ud. 23-04-2008) 05-09-2008, n. 34717

Fatto - Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
OSSERVA

Con sentenza emessa in data 04.07.02 il Tribunale di Reggio Calabria
dichiarava M.A. colpevole del reato di cui al capo B) del procedimento ex n.
192/98 R.G.T. e del reato di cui al capo A) del procedimento ex n. 159/97
R.G.T., con esclusione dell'espressione "banditesca operazione" coperta da
precedente giudicato, nonchè L.R. e S.C. dei reati loro rispettivamente
ascritti (capo B del proc. 158/97 per il L. e capo B del proc. 159/97 per la
S.). Quindi, concesse a tutti le attenuanti generiche e ritenuta la
continuazione per i reati ascritti al M., li condannava alle pene come in
atti, oltre al risarcimento in solido dei danni e alla rifusione delle spese
processuali in favore della costituita parte civile. Dichiarava non doversi
procedere nei confronti di M.A. in ordine al reato di cui al capo A) ex
proc. 192/98 per precedente giudicato e lo assolveva dal reato di cui al
capo A) del procedimento n. 158/97 R.G.T. perchè il fatto non costituisce
reato.

Su gravame delle parti private, la Corte di Appello di Reggio Calabria, con
sentenza del 29.11.2006, rigettava l'appello della parte civile; dichiarava
non doversi procedere nei confronti di tutti gli imputati appellanti in
ordine ai reati loro rispettivamente ascritti al capo B (proc. pen 158/97
RGT) ed ai capi A e B (proc. pen 159/97 RGT) perchè estinti per
prescrizione, previo giudizio di equivalenza delle già concesse attenuanti
generiche alle aggravanti contestate agli imputati M. e S.; rideterminava la
pena per M.A. in relazione al capo B (proc. pen 192/98 RGT) in anni uno e
mesi sei di reclusione ed Euro 300,00 di multa;

confermava nel resto; dichiarava interamente condonata la pena inflitta a
M.A.; condannava tutti gli imputati appellanti in solido alla rifusione
delle spese del grado sostenute dalla costituita parte civile.

Così sintetizzate le decisioni dei giudici di merito, occorre puntualizzare
su quali reati vertano i ricorsi per Cassazione, atteso che la S. (capo B
del proc. pen. n. 159/97) non è ricorrente, mentre sono caduti nel corso dei
giudizi di merito i reati sub A) del procedimento n. 158/97 (diffamazione a
carico del M.) e sub A) del procedimento n. 192/98 (altra diffamazione,
sempre a carico del M.).

Residuano, dunque, le seguenti contestazioni:

L.R.:

- capo B (proc. n. 158/97) = reato p. e p. dall'art. 57 c.p. e art. 595
c.p., commi 1, 2 e 3, L. n. 47 del 1948, art. 13, L. n. 223 del 1990, art.
30, comma 4, perchè, quale direttore dell'emittente televisiva (OMISSIS),
non impediva la commissione del delitto sub A), in (OMISSIS);

M.A.:

- capo A (proc. 159/97) = reato p. e p. dall'art. 595 c.p., commi 1, 2 e 3,
L. n. 47 del 1948, art. 13, per avere offeso la reputazione di Ma.Vi.,
dichiarando, al fine di far pubblicare il tutto sulla stampa: che Ma. era
l'ispiratore primario delle strategie organizzate dalla mafia in danno di
diversi magistrati, ed in particolare del dott. V.; che Ma. è da considerare
"provocatore, arrogante, irrispettoso delle regole deontologiche";

dichiarazioni riportate da "(OMISSIS)", in data (OMISSIS);

con l'aggravante dell'attribuzione di fatti determinati, in (OMISSIS), in
data compresa tra il (OMISSIS);

- capo B (proc. 192/98) = reato p. e p. dall'art. 648 c.p. per avere
ricevuto da persone non identificate copia della relazione ministeriale
dell'ispettore N., proveniente dal delitto di cui all'art. 326 c.p., e dallo
stesso poi diffusa, mediante consegna alla stampa in un luogo imprecisato,
nel (OMISSIS).

Avverso la sentenza della Corte d'appello hanno proposto ricorso per
Cassazione i difensori del L. e del M., nell'ambito delle imputazioni
delimitato come sopra.

Il difensore del L. si duole che la Corte territoriale abbia dichiarato non
doversi procedere nei confronti del suo assistito perchè il reato ascritto è
estinto per prescrizione, anzichè pervenire all'assoluzione con formula
piena. Sostiene che la sentenza impugnata deve essere annullata per i
seguenti motivi: 1) violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e d)
in relazione agli artt. 51 e 57 c.p., art. 595 c.p., commi 1, 2 e 3, nonchè
alla L. n. 47 del 1948, art. 13, L. n. 223 del 1990, art. 30, comma 4;
mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione
risultando il vizio dal testo della sentenza e da altri atti di causa;
violazione del giudicato interno; 2) violazione dell'art. 606 c.p.p., comma
1 lett. b) e d) in relazione all'art. 57 c.p., art. 595 c.p., commi 1, 2 e
3, nonchè alla L. n. 47 del 1948, artt. 5, 6, 13 21 e 30 e L. n. 223 del
1990, art. 10; mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione risultando il vizio dal testo della sentenza e da altri atti di
causa.

In buona sostanza il ricorrente sostiene di non essere penalmente
responsabile del fatto di non avere impedito la commissione del delitto
rubricato sub lettera A) del proc.pen. n. 158/97, a carico di M.A. mediante
dichiarazioni rese nel corso di un'intervista trasmessa in data 14.2.1995
dall'emittente televisiva (OMISSIS), dal momento che l'autore materiale del
fatto è stato assolto con la formula "perchè il fatto non costituisce reato
ai sensi dell'art. 68 Cost."; rileva, per altro, che l'accertato notevole
interesse della collettività a conoscere i fatti oggetto della dichiarazione
elide la responsabilità penale.

Sotto altro profilo (motivo n. 2) questo ricorrente sostiene che il
direttore di un quotidiano radiotelevisivo è equiparato a quello di un
giornale soltanto ai fini dell'obbligo della registrazione presso la
cancelleria del Tribunale, come previsto dalla L. n. 223 del 1990, art. 10,
sicchè deve escludersi la applicabilità dell'art. 57 c.p. e delle altre
norme in tema di responsabilità del direttore responsabile per gli articoli
diffamatori pubblicati sul cartaceo, per i direttori di radiotelevisioni.

In favore del M. sono stati presentati due ricorsi, i cui motivi possono
riepilogarsi come segue.

1) Violazione o falsa applicazione della legge penale e vizio di
motivazione, in relazione a quanto asserito sulla sussistenza del reato di
cui all'art. 326 c.p., presupposto dell'ipotesi di ricettazione contestata;

Ci si duole che il giudice di secondo grado abbia confermato la valutazione
fatta dal giudice di primo grado, ritenendo che la relazione dell'ispettore
N. era sicuramente coperta dal segreto e che di conseguenza la circolazione
dello scritto, al di fuori dell'ufficio che lo aveva redatto, appare
certamente qualificabile come illecita.

Si sostiene che all'epoca dei fatti non era stata ancora approvata la norma
regolamentare che solo successivamente disciplinò la conoscibilità degli
atti relativi ad un procedimento ispettivo- ministeriale, mentre l'attività
amministrativa è ispirata al principio della trasparenza; che, pertanto,
alla data di commissione del fatto era assente un Decreto Ministeriale
attuativo della L. n. 241 del 1990 e che l'individuazione del preciso
obbligo di segretezza posto in capo all'impiegato pubblico difficilmente può
essere ricostruito in assenza appunto di un decreto attuativo.

2) Col secondo motivo si deduce la violazione dell'art. 648 c.p.,
nell'assunto che, stando alla lettera dell'accusa rivolta al M., lo stesso è
imputato di essere stato destinatario di una notizia asseritamente
secretata: " si contesta di avere ricevuto da persone non identificate copia
della relazione ministeriale dell'ispettore N.". Ciò posto, si sostiene che
tale azione non ha alcuna rilevanza penale, ma serve esclusivamente ad
integrare l'ipotesi delittuosa di cui all'art. 326 c.p., e la violazione del
segreto esaurisce i suoi effetti penali nel momento in cui si è realizzato
l'illecito.

In subordine si fa presente che, con i motivi di appello si era evidenziata
la possibilità di qualificare il fatto sotto l'ipotesi contravvenzionale
prevista dall'art. 712 c.p..

3) Violazione o falsa applicazione della legge penale ai sensi dell'art. 606
c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione a tutte le ipotesi di reato
contestate per non avere la Corte territoriale riconosciuto l'esimente
dell'esercizio di un diritto ai sensi dell'art. 68 Cost. e delle successive
leggi di attuazione.

Si afferma che l'imputato avrebbe dovuto essere assolto e la domanda della
parte civile rigettata, perchè il fatto non costituisce reato in relazione a
tutte le ipotesi di reato contestate, trattandosi di fatti costituenti
esercizio di un diritto. Si sostiene che l'inesistenza di un conflitto
dovuto alla assenza di una deliberazione di insindacabilità della Camera di
appartenenza o anche alla presenza di una deliberazione negativa non esclude
il dovere del giudice di giudicare,secondo legge. Si soggiunge che la
sussistenza della scriminante riguarda anche l'ipotesi di ricettazione,
essendo evidente che l'esercizio del potere ispettivo da parte del
parlamentare contempla inevitabilmente la ricezione di quelle notizie che,
poi, costituiscono il presupposto delle iniziative che lo stesso intenderà
intraprendere.

Questa Corte è chiamata ad esaminare prioritariamente due questioni di mero
diritto, la cui soluzione elide alla radice la responsabilità penale del L.
in ordine al reato a lui ascritto e del M. in ordine al reato di
ricettazione, assorbendo tutte le altre argomentazioni al riguardo.

Resterà, poi, da considerare il reato di diffamazione ascritto al M..

1) Responsabilità penale del direttore di un'emittente televisiva per reati
commessi col mezzo della pubblicazione.

Nel caso di specie L.R., direttore di "(OMISSIS)", è stato chiamato a
rispondere del reato omissivo delineato dall'art. 57 c.p., che consegue
all'inosservanza dell'obbligo di controllo sul contenuto di un'intervista
resa in una trasmissione televisiva da un terzo.

E' stato ritenuto che l'ipotesi di reato configurata dal citato art. 57 c.p.
fosse estensibile al direttore di un giornale radiotelevisivo in forza della
L. 6 agosto 1990, n. 223, art. 30, comma 4.

Il Collegio - pur consapevole di una giurisprudenza sul punto non univoca,
anche se non cospicua - ritiene che la L. n. 223 del 1990, art. 30, comma 4,
debba essere interpretato in senso restrittivo.

Le norme speciali di cui alla citata legge, art. 30, in tema di trattamento
sanzionatorio per il reato di diffamazione con attribuzione di fatto
determinato commesso attraverso trasmissioni televisive - secondo le quali
si applicano le sanzioni previste dallaL. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 13 -
valgono esclusivamente, come discende dal combinato disposto del primo e
quarto comma della predetta disposizione, con riferimento ai soggetti in
essa specificamente indicati, i quali si identificano nel concessionario
privato, nella concessionaria pubblica ovvero nella persona da loro delegata
al controllo della trasmissione (v. Cass. Sez. 1 sent.

1996/01291 rv 205281).

A questa conclusione deve giungersi applicando il principio di stretta
legalità, dal quale discende la delimitazione, anche sotto il profilo
soggettivo, delle fattispecie incriminatrici. L'art. 57 c.p., invero, è
dettato esclusivamente per i reati commessi col mezzo della stampa periodica
e non può intendersi riferito anche alla trasmissioni radiofoniche e
televisive; il legislatore posteriore, nell'emettere la L. 6 agosto 1990, n.
223, si è posto all'evidenza il problema della responsabilità omissiva,
fuori dei casi di concorso nel reato principale, proprio per il reato di
diffamazione con l'attribuzione di un fatto determinato (oltre che per le
trasmissioni con carattere di oscenità e quelle ex comma 2) e lo ha risolto
individuando i responsabili nelle seguenti categorie di persone (art. 30,
comma 1, richiamato anche dal comma 4): "il concessionario privato o la
concessionaria pubblica ovvero la persona da loro delegata al controllo
della trasmissione".

La precisa specificazione delle persone a cui deve attribuirsi la
responsabilità penale non consente interpretazioni analogiche, nè estensive
che si risolverebbero in un indebito ampliamento della norma penale.

Nel caso di specie, il L. è stato incriminato e condannato (il reato si è
poi prescritto) quale direttore di una trasmissione televisiva e non come
concessionario o suo delegato al controllo, di modo che, per quanto si è
detto, la sua figura è estranea alla norma incriminatrice: la sentenza
impugnata deve essere annullata senza rinvio nei suoi confronti perchè il
fatto non è previsto dalla legge come reato.

2) Il delitto di ricettazione di un documento proveniente dal delitto di cui
all'art. 326 c.p..

Conviene ricordare che la ricettazione de qua è stata ritenuta realizzata
nel seguente fatto concreto: l'avere il M. ricevuto da persona non
identificata la copia di un'ispezione ministeriale, proveniente dal delitto
di cui all'art. 326 c.p., e di averla diffusa mediante consegna alla stampa
in un luogo imprecisato.

Al riguardo la Corte di Appello ha puntualizzato che, quanto alla
ricettazione: a) la relazione ispettiva N. era sicuramente coperta dal
segreto, come da dichiarazione proveniente dalla Presidenza del C.S.M.; b)
tutto un complesso di argomentazioni conduce a ritenere l'ovvia segretezza
del documento; c) il documento ricevuto dal M. pertanto proviene dal reato
di cui all'art. 326 c.p.; d) la genericità del racconto circa la ricezione
del documento e la gratuità offensiva della divulgazione dei contenuti sono
dimostrativi della piena consapevolezza del M. (pag. 13) "di avere ottenuto
un prezioso documento, non conosciuto e non conoscibile, e di avere colto
l'occasione per effettuare una divulgazione, non solo offensiva ma non
consentita, alla comunità reggina". Da ciò ha fatto discendere la piena
configurazione del reato di ricettazione (e non la contravvenzione prevista
dall'art. 712 c.p.).

Questa Corte ritiene, però, che si imponga una riflessione sulla natura e
sui connotati essenziali dei delitti in discussione, ossia il delitto
presupposto (art. 326 c.p., rivelazione e diffusione di segreti di ufficio)
ed il delitto di ricettazione (art. 648 c.p.).

A ben vedere la fattispecie criminosa prevista dall'art. 648 c.p. è
comprensiva di una multiforme serie di attività successive ed autonome,
rispetto alla consumazione del delitto presupposto, finalizzate al
conseguimento di un profitto (acquisto, ricezione, occultamento o qualunque
forma di intervento nel fare acquistare il bene). Ne consegue che integra
gli estremi del delitto di ricettazione colui che si intromette nella catena
di possibili condotte traslative di un oggetto, successive ad un delitto già
consumato, essendo consapevole dell'origine illecita del bene e determinato
dal fine di procurare a sè o ad altri un profitto (per altro, il dolo
specifico del reato di ricettazione può avere anche natura non patrimoniale
e richiedere una generica finalità di profitto, una qualsiasi utilità, anche
non patrimoniale, che l'agente si proponga di conseguire.

Caratteristica intrinseca della ricettazione è, quindi, l'illecita
circolazione di un bene di provenienza delittuosa, bene inteso come oggetto
materiale, come cosa la cui semplice ricezione costituisce illecito
("acquista, riceve .. denaro o cose"..).

Il delitto di rivelazione ed utilizzazione di segreti d'ufficio (art. 326
c.p.), per contro, reprime la condotta di colui che, nella specifica
qualità, riveli indebitamente a terzi le conoscenze di cui abbia la
disponibilità in ragione dell'assolvimento di compiti d'istituto, in
relazione ai quali è configurabile la qualifica pubblicistica, necessaria ai
fini della configurabilità del delitto stesso.

A ben vedere, quindi, il contenuto dell'obbligo la cui violazione è
sanzionata dall'art. 326 c.p. consiste nella indebita cessione a terzi di
conoscenze sottratte alla divulgazione.

La combinazione degli elementi strutturali dei due reati in esame, come
finora illustrati, conduce a ritenere che l'oggetto del delitto presupposto
(art. 326 c.p.) sia non già una cosa, ma un'informazione, con la conseguenza
che il corpus materiale attraverso il quale si attua il trasferimento
illecito dell'informazione è irrilevante (può essere una fotocopia, come un
c.d. rom, come un flatus vocis); con l'ulteriore conseguenza che la
ricezione di una cosa reale (ad es. fotocopia) contenente notizie di ufficio
non è altro che la fase terminale della ricezione della notizia e non la
ricezione di "altro da sè", che potrebbe costituire l'oggetto della
ricettazione.

Nel delitto di rivelazione dei segreti di ufficio la condotta incriminata è
legata a chi riceve la notizia e alla previsione della punizione nei
confronti dell'autore della rivelazione; pertanto il mero recettore della
notizia potrà, se del caso, rispondere in base all'ordinaria disciplina del
concorso di persone nel reato, ma non potrà qualificarsi come ricettatore.

Per questa imputazione (reato di ricettazione), quindi, deve annullarsi
senza rinvio la sentenza impugnata, nei confronti di M.A., perchè il fatto
non sussiste.

Resta la contestazione della diffamazione in capo al M..

In questo caso il discorso è molto semplice, dati il chiaro contenuto e le
stesse modalità denigratorie, con attribuzione di fatti specifici, delle
frasi riportate e la congrua motivazione sul punto della Corte di Appello,
la quale ha sottolineato anche che "per il fatto di diffamazione ora
addebitato al M. la Camera dei deputati ha espressamente escluso
l'applicabilità dell'art. 68 Cost.". Non può che confermarsi sul punto la
sentenza di secondo grado, con tutte le conseguenze civilistiche nei
riguardi della parte civile, rigettandosi sul punto il ricorso.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di L. R., perchè il
fatto non è previsto dalla legge come reato, e nei confronti di M.A. in
ordine al reato di ricettazione, perchè il fatto non sussiste.

Rigetta nel resto il ricorso del M., che condanna alla rifusione delle spese
sostenute dalla parte civile Ma.

V., che liquida in complessivi Euro 3.460,00, di cui Euro 3.000,00 per
onorari, oltre I.V.A. e C.P.A..

Così deciso in Roma, il 23 aprile 2008.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2008

Da: dada17/12/2008 12:52:23
Com'è il parere di Susi?

Da: Polpost17/12/2008 12:52:29
Ma volete lasciare stare questi poveri ragazzi !!!
Fate che superino l'esame...tanto...tutti disoccupati e senza un soldo rimarranno !!! Fare l'avvocato equivale a fare la fame !!!
Date loro almeno la soddisfazione di questo titolo del cavolo...poi fa niente che rimarranno tutti a casa a guardare facebook scrivendo: PROFESSIONE: AVVOCATO....

Da: alessandro17/12/2008 12:52:40
ragazzi io non mi butto sul parere della seconda traccia...ho paura di dirvi cose sbagliate...

Da: gianlu per indignato17/12/2008 12:53:31
la seconda è piu complessa...

Da: Daniela17/12/2008 12:53:36
X ALESSANDRO
IL parere è fatto ma vorrei sapere in che modo si deve concludere??Che ne pensi??

Da: gio17/12/2008 12:53:58
DACCI IL TUO PARERE SULLA TRACCIA 1

Da: serena17/12/2008 12:54:53
X DANIELA: CI DAI IL TUO PARERE SULLA 1° TRACCIA? GRZ

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