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ESAME AVVOCATO - SESSIONE 2012
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Da: goffredotobias11/12/2012 14:31:24
E andiamo ragazzi siamo da ore e non abbiamo una soluzione???

Da: Contesque 11/12/2012 14:32:05
dove?

Da: mari198211/12/2012 14:32:26
ma sulla seconda traccia non c'è niente?

Da: maizzone 11/12/2012 14:32:44
a lecce???

Da: Bik32211/12/2012 14:34:56
Qualcuno Sa l'orario di consegna a Roma?

Da: aaa11/12/2012 14:35:07
ma come fate a non sapere tutto sull'anatocismo lì a Lecce....visto che è partito tt dallo studio Tanza

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Da: BOH11/12/2012 14:38:02
SECONDA TRACCIA CHE VE NE PARE ??

Legato in sostituzione di legittima - Rinunzia al legato sostituivo - L'azione di riduzione
in rapporto alla rinunzia al legato.
3. Istituti
Art. 554 c.c. (riduzione delle disposizioni testamentarie)
Art. 557 c.c. (soggetti che possono chiedere la riduzione)
Art. 551 c.c. (legato in sostituzione di legittima)
Art. 649 c.c. (acquisto del legato)
Art. 650 c.c. (fissazione di un termine per la rinunzia)
Art. 1350 c.c. (atti che devono farsi per iscritto)
4. Giurisprudenza
Cass. civ., sez. un., 29 marzo 2011, n. 7098. In tema di legato in sostituzione di legittima,
il legittimario in favore del quale il testatore abbia disposto ai sensi dell'art. 551
c.c. un legato avente ad oggetto un bene immobile, qualora intenda conseguire la legittima,
deve rinunciare al legato stesso in forma scritta ex art. 1350, comma 1, n. 5, c.c., risolvendosi
la rinuncia in un atto dismissivo della proprietà di beni già acquisiti al suo
patrimonio; infatti, l'automaticità dell'acquisto non è esclusa dalla facoltà alternativa attribuita
al legittimario di rinunciare al legato e chiedere la quota di legittima, tale possibilità
dimostrando soltanto che l'acquisto del legato a tacitazione della legittima è sottoposto
alla condizione risolutiva costituita dalla rinuncia del beneficiario, che, qualora riguardi
immobili, è soggetta alla forma scritta, richiesta dalla esigenza fondamentale della
certezza dei trasferimenti immobiliari.
Cass. civ. sez. II, 22 giugno 2010, n. 15124. Nel caso di rinuncia ad un legato in sostituzione
di legittima avente ad oggetto beni immobili è necessaria la forma scritta ad
substantiam perché serve una chiara manifestazione dell'intento abdicativo. Il fatto che
il soggetto onorato del lascito eserciti l'azione di riduzione, di per sé, non vale a far presumere
che egli intenda rinunciare alla successione a titolo particolare.
Va confermata la sentenza di merito che, con motivazione immune da vizi, pur ammettendo
in via teorica la configurabilità di una rinuncia al legato in sostituzione di legittima
avente ad oggetto beni immobili anche attraverso un atto processuale redatto dal
difensore del legatario, ha escluso tale possibilità a fronte di atti processuali che non
esternavano in modo in equivoco la volontà di rinunciare al legato. Cass. civ., sez. II, 11 novembre 2008, n. 26955. In materia di diritti riservati ai legittimari,
poiché il legato si acquista senza bisogno di accettazione, la semplice acquisizione
da parte del legittimario dell'oggetto del legato in sostituzione della legittima non
implica automatica manifestazione della sua preferenza per il legato, con conseguente
perdita della facoltà di conseguire la legittima; allo stesso modo, la proposizione dell'azione
di riduzione non costituisce manifestazione chiara ed inequivoca della volontà
di rinunciare al legato, essendo ipotizzabile un residuo duplice intento di conservare il
legato e di conseguire la legittima.
Cass. civ., sez. II, 16maggio 2007, n. 11288. In tema di diritti riservati ai legittimari,
il comportamento dal quale sia dato desumere la volontà, espressa o tacita, del beneficiario
di conservare il legato in sostituzione di legittima, se, per un verso, assume valenza
confermativa, seppure superflua, della già realizzata acquisizione patrimoniale,
per altro verso, comporta, ope legis, la contemporanea caducazione del diritto di chiedere
la legittima. A tale effetto non può porsi rimedio neppure con eventuali atti successivi
di resipiscenza, giacché, in considerazione della definitività e della irretrattabilità degli
effetti acquisitivi del lascito testamentario correlati a dettamanifestazione di volontà,
non è possibile la reviviscenza del diritto di scelta tra il legato sostitutivo e la richiesta
della legittima, rimasto caducato almomento stesso in cui sia statamanifestata la volontà
di conservare il legato. (Sulla base di tale principio, è stato escluso che potesse attribuirsi
valore all'atto di rinuncia al legato in sostituzione di legittima compiuto dal beneficiario
in epoca successiva all'immissione nel possesso dei beni oggetto del lascito).
Svolgimento
Le questioni interpretative legate al quesito posto da Caia sono più di una e assai
spinose.
Dalla disciplina dettata dall'art. 551 c.c. si desume che il legato in sostituzioni di legittima
consiste in un'attribuzione a titolo particolare,mediante la quale il testatore offre al
legittimario, in luogo della sua quota riservata, un lascito a titolo particolare, tacitando il
suo diritto alla legittima nel caso in cui il valore del lascito risulti inferiore alla sua quota
di riserva.
L'effetto peculiare del legato sostitutivo consiste in questo: il legittimario onorato,
qualora il valore del legato sia inferiore alla sua parte di legittima, non può trattenere il
legato (imputandolo alla sua porzione) e, al contempo, esperire l'azione di riduzione, per
recuperare la differenza, secondo la norma generale, fissata dall'art. 564, comma 2, c.c.
Egli dovrà operare una scelta: o trattenere il legato, perdendo la possibilità di chiedere
un eventuale supplemento e di diventare erede; oppure, per agire in riduzione, dovrà rinunciare
al legato.
La legge non stabilisce un termine entro il quale esercitare il diritto di rinunciare al legato.
Deve, quindi, ritenersi applicabile il termine generale di prescrizione di dieci anni,
che può essere abbreviato, poiché qualsiasi interessato può chiedere che l'autorità giudiziaria
fissi un termine entro il quale il legatario dichiari se intende esercitare la facoltà
di rinunziare (art. 650 c.c.).
Tuttavia, alla preclusione derivante dal termine di prescrizione o da quello eventualmente
fissato dal giudice a seguito dell'esercizio dell'azione interrogatoria, si aggiunge
quella non espressamente disciplinata dalla legge, ma ricostruibile alla luce del sistema
e applicata dalla giurisprudenza, secondo cui non è più possibile rinunziare se il legatario
abbia manifestato inequivocabilmente, attraverso una serie di atti e comportamenti,
la volontà di trattenere il legato.
L'aspetto centrale dell'attribuzione tacitativa di legittima è costituito senz'altro dall'accettazione
della disposizione e, di riflesso, dalla sua rinunzia.
Ci si è al riguardo interrogati sulla possibilità di applicare al legato in sostituzione di
legittima la regola generale valevole per i legati in generale e contenuta nell'art. 649 c.c.,
secondo cui non sarebbe necessario un atto di accettazione per conseguire le disposizioni
testamentarie a titolo particolare.
L'interrogativo in parola sorge in base al rilievo che il legato in sostituzione di legittima
si caratterizzerebbe, diversamente rispetto a quanto avviene per i legati in generale,
dal produrre i propri effetti nei confronti della successione necessaria e, di conseguenza,
sull'acquisto della qualità di erede.
Il dato letterale dell'at. 551 c.c. non fornisce indicazioni in grado di dirimere i dubbi visto
che, mentre nel comma 1 ci si riferisce alla mera rinunzia del legato, nel comma 2 si
allude alla preferenza a conseguire il legato stesso, ossia ad un atto ben diverso, per non
dire antitetico, rispetto alla regola generale dell'acquisto ipso iure valevole per i legati in
generale.
Al riguardo in dottrina si sono manifestate opinioni contrastanti.
Da parte di alcuni autori si è sostenuta la necessità di un atto di accettazione (secondo
alcuni espresso, secondo altri anche tacito) o, secondo altri, di preferenza, da parte del
legittimario beneficiario; al contrario, secondo l'orientamento maggioritario, seguito
dalla giurisprudenza, non vi sarebbero motivi per affermare una regola differente rispetto
a quella dettata in relazione al legato in generale.
Pertanto, pur non risultando necessaria un'accettazione, espressa o tacita, quest'ultima
varrà tuttavia ad eliminare lo stato d'incertezza, operando sia con valore confermativo
dell'acquisto che come preclusione definitiva a conseguire la quota di riserva (Cass.
civ., sez. II, 16maggio 2007, n. 11288; Cass. civ., sez. II, 22 luglio 2004, n. 13785; Cass. civ.,
sez. II, 27 maggio 1996, n. 4883).
Si è così affermato che "il legato in sostituzione di legittima, al pari di ogni altro legato,
ai sensi dell'art. 649, comma 1, c.c., si acquista ipso iure senza bisogno di accettazione.
Peraltro, il comportamento del beneficiario di tale legato suscettibile di evidenziare la
volontà, espressa o tacita, di conservare il lascito testamentario, assume, per un verso,
valore confermativo della già realizzata acquisizione patrimoniale, e comporta, per l'altro,
l'immediata perdita ope legis del diritto di chiedere la legittima a norma dell'art. 551
c.c." (Cass. civ., 27 maggio 1996, n. 4883), ed ancora che "in tema di diritti riservati ai legittimari,
il comportamento dal quale sia dato desumere la volontà, espressa o tacita, del
beneficiario di conservare il legato in sostituzione di legittima, se, per un verso, assume
valenza confermativa, seppure superflua, della già realizzata acquisizione patrimoniale,
per altro verso, comporta, ope legis, la contemporanea caducazione del diritto di chiedere
la legittima" (Cass. civ., sez. II, 16 maggio 2007, n. 11288).
In altri termini, l'accettazione, espressa o tacita, del legato in sostituzione di legittima,
non necessaria ma volontariamente resa, impedisce la possibilità di agire in riduzione.
In definitiva, si nega efficacia alla rinunzia, pur dichiarata prima dello scadere del termine
di prescrizione, se nel frattempo il legatario - legittimario abbia compiuto atti, anche
concludenti, che presuppongono la volontà di conservare il lascito testamentario.
All'inefficacia della rinunzia consegue l'inammissibilità dell'azione di riduzione.
Applicando tali pacifici principi al caso di specie, va senz'altro dichiarata l'ammissibilità
dell'azione, non avendo Caia, anche in considerazione del brevissimo lasso di tempo
intercorso dalla data della pubblicazione del testamento, manifestato né espressamente
né tacitamente, attraverso una serie di atti e comportamenti concludenti, la volontà
di trattenere il legato.
Differente portata deve riconoscersi alla rinunzia al legato in sostituzione di legittima,
atto che precede la formale richiesta della legittima per via dell'azione di riduzione.
La rinuncia al legato tacitativo costituisce un onere per il legittimario che intende agire
in riduzione; infatti l'effetto devolutivo del legato si produce già al momento di apertura
della successione, tanto che il beneficiario deve dismettere il legato per poter agire
in riduzione (Cass. civ., sez. II, 22 giugno 2005, n. 13380; Cass. civ., sez. II, 22 luglio 2004,
n. 13785).
La giurisprudenza è intervenuta di recente sulla qualificazione giuridica da attribuire
alla rinunzia al legato sostitutivo, ritenendola un "negozio unilaterale dismissivo di un diritto
reale o personale", ed affermando ulteriormente che l'acquisto dei legati in parola è
destinato a verificarsi di diritto, ossia senza una necessaria accettazione (Cass. civ., sez.
II, 15 marzo 2006, n. 5779).
La rinunzia del legittimario al legato tacitativo è quindi un atto autonomo e necessario,
che, in mancanza, non consente di proporre l'azione di riduzione; deve essere, di
conseguenza, esclusa la possibilità che il legittimario proponga l'azione di riduzione
senza rinunziare al legato, intendendo trattenere il lascito in acconto.
È peraltro possibile chiedersi se la proposizione dell'azione di riduzione sia di per sé
un atto sufficiente ed idoneo ad integrare la rinunzia o, diversamente, sia necessario un
differente atto.
Al riguardo, la giurisprudenza ha affermato che "la proposizione dell'azione di riduzione
non costituisce manifestazione chiara ed inequivoca della volontà di rinunciare a
legato, essendo ipotizzabile un residuo duplice intento di conservare il legato e di conseguire
la legittima" (Cass. civ., sez. II, 11 novembre 2008, n. 26955; Cass. civ., sez. II, 15
marzo 2006, n. 5779), dovendosi valutare concretamente il comportamento complessivo
del beneficiario.
In altri termini, pur ammettendosi in via teorica la configurabilità di una rinuncia al
legato in sostituzione di legittima anche attraverso un atto processuale redatto dal difensore
del legatario, lo stesso esercizio dell'azione di riduzione di per sé, non vale a far
presumere la volontà di rinunziare al legato, essendo necessario considerare il comportamento
del legatario, anteriore e successivo alla proposizione del giudizio, al fine di
trarne sicuri elementi, idonei all'identificazione di una volontà intesa, fin dall'inizio, a rinunziare
al legato (Cass. civ., sez. II, 22 giugno 2010, n. 15124; Cass. civ., sez. II, 11 novembre
2008, n. 26955).
Dal punto di vista processuale, la mancanza della rinunzia al legato in sostituzione di
legittima da parte del legittimario che agisce in riduzione è rilevabile d'ufficio e, quindi,
anche in assenza di una specifica eccezione di parte (Cass. civ., sez. un. 29 marzo 2011,
n. 7098).
La rinuncia al legato, ove lo stesso abbia ad oggetto beni immobili (come nel caso di
specie), risolvendosi in un atto di dismissione della proprietà su beni già acquisiti al patrimonio
del rinunziante, deve essere, in forza â€" dell'art. 1350, comma 1, n. 5, c.c.,
espressamente redatta per iscritto a pena di nullità (Cass. civ., sez. un., 29marzo 2011, n.
7098; Cass. civ., sez. II, 22 giugno 2010, n. 15124).
6. Conclusioni
Alla luce di quanto sopra, Caia potrà agire nei confronti di Mevio e di Sempronio per
ottenere la tutela della legittima, tramite l'azione di riduzione, che è un'azione di accertamento
costitutivo, la cui funzione è quella di: stabilire l'eventuale lesione della quota
di riserva; far conseguire automaticamente a tale accertamento la reintegra nella legittima;
occorrerà, però, che, nello stesso atto introduttivo del giudizio di riduzione o in un
atto separato (e, quindi, in forma scritta) dichiari di rinunciare al legato in sostituzione di
legittima per conseguire la sua quota di riserva.

Da: ????????11/12/2012 14:38:30
Grazie per l'impegno aoxomoxoa,
ma lo svolgimento è troppo complesso...
andrebbe sfoltito e semplificato!
Ricordatevi che avete solo il codice a disposizione!!!!
Dove avete preso tutti quei riferimenti!?

Da: einutile11/12/2012 14:38:53
quella 7098/2011 affronta un'altra questione!

la traccia chiede della validità del legato, e dei suoi rapporti con l'azione di riduzione. probabilmente il problema è la prededuzione

Da: saintvenant11/12/2012 14:39:28

- Messaggio eliminato -

Da: help sister11/12/2012 14:40:13
ragazzi state facendo solo un sacco di confusione!!! dobbiamo aiutare non incasinare!!!
chi riesce a dirmi le sentenze per le 2 tracce???
per la prima basta la n. 24418 del 2/12/2010 o bisogna anche citare la n. 78 del 2 aprile 2012?
per la seconda è giusta la n. 7098 del 29/03/2011???

Da: antony749 11/12/2012 14:40:41
RAGAZZI MI STANNO CHIEDENDO IL PARERE DALL'INIZIO ALLA FINE, CHI MI PUO AIUTARE, VI PREGO...

Da: saintvenant11/12/2012 14:40:46

- Messaggio eliminato -

Da: BOH  PER einutile11/12/2012 14:40:49
BOH  PER einutile


SE LEGGI BENE PARLA PROPRIO DELLA VALIDITà DEL LEGATO E DELL'AZIONE DI RIDUZIONE

Da: asterix01 11/12/2012 14:41:48
TRASCRIZIONE DEGLI ACQUISTI MORTIS CAUSA: IL POSSIBILE CONFLITTO TRA IL LEGATARIO E GLI AVENTI CAUSA INTER VIVOS DALL'EREDE
Qualora il de cuius lasci uno stesso bene ad un erede e ad un legatario, potrà configurarsi un'ipotesi di revoca del legato, oppure quest'ultimo dovrà essere inteso come legato obbligatorio, giacché il bene sarà dell'erede che però dovrà considerarsi tenuto a trasferirlo - con atto inter vivos - in favore del legatario. Ne consegue che, in tale ultima ipotesi, l'avente causa dall'erede prevarrà se ed in quanto abbia trascritto, ai sensi dell'art. 2644 cod. civ., il proprio acquisto, in epoca anteriore alla trascrizione, ai sensi dell'art. 2652, comma primo, n. 2), cod. civ., della domanda giudiziale con la quale il legatario richieda, a carico dell'erede, l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di quest'ultimo di "contrarre" per realizzare il suddetto trasferimento inter vivos .
    In caso di legato di usufrutto o di altro diritto reale avente ad oggetto un bene immobile attribuito all'erede in nuda proprietà, il legatario acquisterà mortis causa il diritto dal defunto e non già inter vivos dall'erede. Quindi, l'eventuale conflitto tra il legatario e l'avente causa inter vivos dall'erede (che abbia trasferito la piena proprietà) non potrà essere risolto in base al criterio della priorità della trascrizione, perché l'erede non risulta essere il comune autore e finirà, dunque, con il prevalere sempre il legatario in quanto l'avente causa inter vivos dall'erede è da considerarsi acquirente a non domino. Tale regola patisce, tuttavia, un'importantissima eccezione prevista dall'art. 534, commi secondo e terzo, cod. civ. Infatti, tale disposizione normativa fa salvi gli acquisti immobiliari inter vivos dall'erede apparente, purché ricorrano le seguenti condizioni: 1) che l'acquirente sia in buona fede; 2) che l'acquisto inter vivos dall'erede apparente avvenga a titolo oneroso; 3) che la trascrizione dell'acquisto mortis causa dell'erede apparente e quella dell'acquisto inter vivos da quest'ultimo vengano (ambedue) eseguite prima della trascrizione relativa all'acquisto mortis causa dell'erede "vero", ovvero prima della trascrizione della domanda giudiziale di haereditatis petitio proposta contro l'erede apparente.
In particolare, con espresso riguardo al requisito sub 1), giova sottolineare come la giurisprudenza di legittimità abbia più volte avuto modo di chiarire che "In tema di petizione ereditaria, ai fini della salvezza dei diritti acquistati dal terzo per effetto di convenzione a titolo oneroso contratta con l'erede apparente, è necessario che lo stesso terzo, ai sensi dell'art. 534, comma 2, c.c., assolva all'onere di provare la sua buona fede all'atto dell'acquisto, consistente nella dimostrazione dell'idoneità del comportamento dell'alienante ad ingenerare la ragionevole convinzione di trattare con il vero erede, nonché dell'esistenza di circostanze indicative dell'ignoranza incolpevole di esso acquirente circa la realtà della situazione ereditaria al momento dell'acquisto" (cfr., in tal senso ed ex permultis, Cass., 4 febbraio 2010, n. 2653). Per quanto concerne, invece, il requisito sub 3) è importante porre in rilievo come risulti necessario che sia l'acquisto mortis causa dell'erede apparente, sia l'acquisto inter vivos da quest'ultimo vengano entrambi trascritti in epoca anteriore rispetto alla trascrizione dell'acquisto mortis causa da parte dell'erede (o legatario) "vero" o della domanda giudiziale di petizione di eredità. Ciò significa che, al fine di prevalere rispetto agli acquirenti inter vivos dall'erede apparente, sarà sufficiente, all'erede (o legatario) "vero", trascrivere il proprio acquisto mortis causa prima della trascrizione dell'acquisto mortis causa dell'erede apparente, oppure prima della trascrizione dell'acquisto del terzo avente causa da quest'ultimo.
La trascrizione dell'acquisto mortis causa dell'erede apparente svolge la funzione di avvisare gli altri possibili successori circa l'esistenza di una pretesa con essi confliggente, così consentendo ai medesimi di azionare la tutela giudiziale, mentre la trascrizione dell'acquisto inter vivos dall'erede apparente risulta preposta al soddisfacimento di esigenze di pubblicità e di osservanza dell'onere di cui all'art. 2643 cod. civ.
Nella specie, non è possibile, in realtà, individuare l'esistenza di un conflitto tra due aventi causa da un comune autore, ma piuttosto esclusivamente un conflitto tra erede (o legatario) "vero" (che, cioè, hanno acquistato mortis causa) e colui che abbia acquistato dall'erede apparente. La trascrizione dell'acquisto mortis causa da parte dell'erede (o legatario) "vero"  svolge una funzione che può essere definita come "conservativa". Essa, cioè, blocca tutti i possibili e successivi acquisti dall'erede apparente e, pertanto, deve essere eseguita tempestivamente. L'effetto conservativo, come già chiarito sopra, si produce anche se tale trascrizione (cioè quella dell'acquisto mortis causa dell'erede o legatario "vero") venga eseguita successivamente alla trascrizione dell'accettazione dell'eredità da parte dell'erede apparente, purché prima della trascrizione dell'acquisto inter vivos del terzo suo avente causa.
Tuttavia, tale tempestività non è sempre possibile in concreto, perché ben può darsi l'ipotesi di un testamento perfettamente valido che istituisca erede un soggetto il quale, in completa buona fede, procede all'alienazione di beni ereditari, provvedendo altresì ad eseguire sia la trascrizione del proprio acquisto mortis causa (ai sensi dell'art. 2648 cod. civ.), sia quella degli atti di disposizione compiuti inter vivos ( ai sensi dell'art. 2643 cod. civ.), vedendo poi contestata la propria qualità di erede sulla base di un testamento posteriore, scoperto a distanza di molti anni, che revoca quello contenente la propria istituzione. È evidente, nondimeno, come, in tal caso, l'erede "vero", cioè quello istituito mediante il secondo testamento, nulla potrà fare contro l'avente causa  dall'erede apparente, atteso che egli non potrà provvedere alla trascrizione del proprio acquisto mortis causa se non a seguito della scoperta del secondo testamento e, quindi, certamente molti anni dopo che le due precedenti trascrizioni (dell'erede apparente e dell'avente causa da quest'ultimo) erano state già eseguite.

Da: traccia11/12/2012 14:43:02
QUAESTIO IURIS
In tema di anatocismo, la disciplina codicistica prevede una norma ritenuta imperativa, l'art. 1283 c.c., che, per le finalità di ordine pubblico ed economico perseguite, vieta il fenomeno della cd. produzione degli interessi sugli interessi che, rischiando di produrre una moltiplicazione incontrollabile dell'esposizione debitoria, potrebbe creare fenomeni sostanzialmente usurari.
Nonostante la previsione di un siffatto divieto generale, il legislatore disciplina tre ipotesi derogatorie che, in via eccezionale, autorizzano l'operatività del meccanismo anatocistico.
Invero, l'art. 1283 c.c. ammette:
l'anatocismo convenzionale, cioè quando vi sia una pattuizione espressa successiva alla scadenza degli interessi;
l'anatocismo legale, nel presupposto di una domanda giudiziale esplicita  e chiara finalizzata all'accertamento e alla condanna al pagamento degli interessi fruttificati;
l'anatocismo usurario o usuale, per cui se sussistono usi contrari, che devono essere normativi, esso è ammissibile anche oltre i limiti posti per quello convenzionale e legale.
Con riferimento all'anatocismo usuale, si è posto il problema se si potesse considerare un uso normativo e come tale legittimo, quello recepito dalle norme bancarie uniformi (art. 7 ABI)  che prevedono un doppio binario di capitalizzazione degli interessi sul conto corrente bancario: per i saldi attivi una periodicità annuale, per i saldi passivi una periodicità trimestrale.
A riguardo, la giurisprudenza (tra le tante, Cass. n. 2374/1999; Cass. n. 11466/2008) ha chiarito che questo uso, pur recepito dalle norme bancarie uniformi, ha carattere negoziale e non normativo, e non rientra nelle deroghe di cui all'art. 1283 c.c..
Nonostante il suesposto indirizzo giurisprudenziale, la rilevanza economica della fattispecie, ha imposto un intervento normativo, attuato con il d.lgs.342/1999 che, modificando l'art. 120 TU in materia bancaria e creditizia, ha previsto un quarto tipo di anatocismo, quello bancario. In virtù di questa disposizione si ritengono ammissibili, in conformità alle indicazioni impartite dal CICR, anatocismi in deroga al 1283 c.c., dunque anche trimestrali, purché i periodi di capitalizzazione siano identici nei rapporti attivi e passivi.
All'indomani della riforma del 1999, si è posto il problema della validità delle clausole anteriori al d.lgs 342, in attuazione delle quali le banche hanno riscosso interessi in base a convenzioni nulle, perché contrarie al 1283 c.c. che, come visto, vieta l'anatocismo quale principio di carattere generale, ammettendo unicamente tre eccezioni.
Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione che con la pronuncia n. 21095 del 2004 hanno precisato che  la prassi bancaria consistente nella previsione di clausole, accessorie ai contratti di conto corrente, di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito, doveva considerarsi uso negoziale (o pattizio) e non normativo, quindi non idoneo a derogare al meccanismo impositivo di cui all'art. 1283 c.c. e che ogni qualvolta al correntista  era imposta una siffatta clausola, essa doveva ritenersi nulla e tutte le somme precedentemente riscosse dall'istituto di credito dovevano, per la regola della ripetizione dell'indebito, essere restituite.
Alla luce di queste argomentazioni, si sono poste una serie di questioni che sono state risolte di recente dalla Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 24418 del 2 dicembre 2010.
In primo luogo, la Suprema Corte ha affrontato la problematica relativa all'individuazione del momento di decorrenza della prescrizione dell'azione di ripetizione del'indebito.
Giova considerare che alle azioni restitutorie non si applica la regola dell'imprescrittibilità dell'azione di nullità, anche se la clausola è nulla, ma il termine di prescrizione decennale, in base al combinato disposto degli artt. 2948 e 2033 c.c..
Relativamente al dies a quo, in precedenza, la giurisprudenza aveva affermato che il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute indebitamente dalla banca a titolo di interessi su di un'apertura di credito in conto corrente, decorra dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi.
A siffatto orientamento sono state avanzate delle critiche, mosse dal rilievo secondo cui l'unitarietà del rapporto giuridico derivante dal contratto di conto corrente bancario non è  l'unico elemento utile ad individuare nella chiusura del conto il momento da cui debba decorrere il suddetto termine di prescrizione.
Invero, ogni volta che un rapporto di durata richieda prestazioni in denaro ripetute, l'unitarietà del rapporto contrattuale ed il fatto che sia destinato a protrarsi nel futuro, non impedisce di qualificare indebito ciascun pagamento non dovuto, se ciò dipenda dalla nullità del titolo giustificativo dell'esborso, sin dal momento in cui il pagamento stesso si è verificato: ed è sempre da quel momento che sorge il diritto del solvens alla ripetizione, e che la relativa prescrizione inizia a decorrere.
Ebbene, in linea generale, perché possa sorgere il diritto alla ripetizione di un pagamento indebitamente eseguito, tale pagamento deve esistere, deve essere ben individuabile, deve determinare uno spostamento patrimoniale e non deve avere una idonea causa giustificativa.
Dunque, la Cassazione, sez. un., 2 dicembre 2010, afferma che può sostenersi decorso il termine di prescrizione del diritto alla ripetizione solamente da quando sia intervenuto un pagamento che l'attore del processo sostenga essere indebitamente eseguito.
Lo stesso dovrà dirsi nel caso in cui il pagamento sia dichiarato indebito in conseguenza dell'accertata nullità del negozio giuridico in esecuzione del quale sia stato effettuato.
Ma il correntista non potrà agire per la ripetizione di un pagamento che da parte sua non ha ancora avuto luogo.
Invero, come si evince dagli artt. 1842 e 1843 c.c., con l'apertura di credito la banca pone a disposizione del cliente una somma  di denaro che questi potrà utilizzare anche in più riprese, con la facoltà di ripristinarne in tutto o in parte la disponibilità eseguendo versamenti che gli consentiranno poi eventuali prelevamenti, entro il limite del credito accordatogli.
Pertanto, se durante l'apertura di credito, il correntista non abbia effettuato versamenti, è indiscutibile che non vi possa essere alcun pagamento da parte del correntista, prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli abbia provveduto a restituire alla banca il denaro messo a sua disposizione e concretamente utilizzato.
Per questo motivo, qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a causa del computo degli interessi in misura non consentita, l'azione di ripetizione dell'indebito potrà essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto, e solo da quel momento comincerà a decorrere il relativo termine di prescrizione.
Qualora, invece, durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione, se hanno avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. E questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto scoperto. Non è così, invece, se i versamenti in conto rappresentino unicamente atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può continuare a godere.
A ben vedere, potrà quindi ritenersi pagamento ripetibile solo quello avvenuto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia diritto di chiedere la restituzione al cliente del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e perciò da restituire se corrisposti dal cliente all'atto della chiusura del conto.
Pertanto, il termine decennale di prescrizione dell'azione di restituzione decorre dalla chiusura del conto, piuttosto che dalle singole poste di debito.
La Corte di Cassazione, sez. un., 2 dicembre 2010,n. 24418, ha poi affrontato e risolto la diversa questione di come debbano essere calcolati gli interessi passivi successivamente alla declaratoria di nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale, e cioè se debbano essere conteggiati con capitalizzazione annuale o senza alcuna capitalizzazione.
Ebbene, in qualche contenzioso, gli istituti bancari si erano orientati nel senso non di restituire al cliente le somme illegittimamente incamerate relative agli interessi passivi anatocistici calcolati trimestralmente, ma di restituirle solo in parte, in virtù di un ricalcolo autonomamente applicato che avrebbe consentito loro di trattenere quella parte di interessi che avrebbero percepito se avessero fin dall'inizio del rapporto praticato una capitalizzazione annuale, in sostanza convertendo la clausola di capitalizzazione da trimestrale ad annuale.
Questa impostazione è da considerarsi inaccettabile, principalmente per la ragione secondo la quale il nostro ordinamento vieta l'anatocismo anche annuale se non c'è una convenzione posteriore alla scadenza, una domanda giudiziale o un uso normativo.
Poi, sarebbe arbitrario che, nel negare l'esistenza di usi normativi di capitalizzazione trimestrale, si riconoscesse la presenza di usi normativi di capitalizzazione annuale.
Pertanto, è più convincente quell'interpretazione che impone una restituzione integrale delle somme indebitamente percepite dagli istituti bancari, che hanno applicato l'anatocismo trimestrale passivo, senza dar adito a ricalcoli arbitrari basati su meccanismi di conversione.

Da: asterix01 11/12/2012 14:43:10
SPERO CHE POSSA SERVIRVI A QUALCOSA

Da: BOH11/12/2012 14:43:18
SECONDA TRACCIA CHE VE NE PARE ??

Legato in sostituzione di legittima - Rinunzia al legato sostituivo - L'azione di riduzione
in rapporto alla rinunzia al legato.
3. Istituti
Art. 554 c.c. (riduzione delle disposizioni testamentarie)
Art. 557 c.c. (soggetti che possono chiedere la riduzione)
Art. 551 c.c. (legato in sostituzione di legittima)
Art. 649 c.c. (acquisto del legato)
Art. 650 c.c. (fissazione di un termine per la rinunzia)
Art. 1350 c.c. (atti che devono farsi per iscritto)
4. Giurisprudenza
Cass. civ., sez. un., 29 marzo 2011, n. 7098. In tema di legato in sostituzione di legittima,
il legittimario in favore del quale il testatore abbia disposto ai sensi dell'art. 551
c.c. un legato avente ad oggetto un bene immobile, qualora intenda conseguire la legittima,
deve rinunciare al legato stesso in forma scritta ex art. 1350, comma 1, n. 5, c.c., risolvendosi
la rinuncia in un atto dismissivo della proprietà di beni già acquisiti al suo
patrimonio; infatti, l'automaticità dell'acquisto non è esclusa dalla facoltà alternativa attribuita
al legittimario di rinunciare al legato e chiedere la quota di legittima, tale possibilità
dimostrando soltanto che l'acquisto del legato a tacitazione della legittima è sottoposto
alla condizione risolutiva costituita dalla rinuncia del beneficiario, che, qualora riguardi
immobili, è soggetta alla forma scritta, richiesta dalla esigenza fondamentale della
certezza dei trasferimenti immobiliari.
Cass. civ. sez. II, 22 giugno 2010, n. 15124. Nel caso di rinuncia ad un legato in sostituzione
di legittima avente ad oggetto beni immobili è necessaria la forma scritta ad
substantiam perché serve una chiara manifestazione dell'intento abdicativo. Il fatto che
il soggetto onorato del lascito eserciti l'azione di riduzione, di per sé, non vale a far presumere
che egli intenda rinunciare alla successione a titolo particolare.
Va confermata la sentenza di merito che, con motivazione immune da vizi, pur ammettendo
in via teorica la configurabilità di una rinuncia al legato in sostituzione di legittima
avente ad oggetto beni immobili anche attraverso un atto processuale redatto dal
difensore del legatario, ha escluso tale possibilità a fronte di atti processuali che non
esternavano in modo in equivoco la volontà di rinunciare al legato. Cass. civ., sez. II, 11 novembre 2008, n. 26955. In materia di diritti riservati ai legittimari,
poiché il legato si acquista senza bisogno di accettazione, la semplice acquisizione
da parte del legittimario dell'oggetto del legato in sostituzione della legittima non
implica automatica manifestazione della sua preferenza per il legato, con conseguente
perdita della facoltà di conseguire la legittima; allo stesso modo, la proposizione dell'azione
di riduzione non costituisce manifestazione chiara ed inequivoca della volontà
di rinunciare al legato, essendo ipotizzabile un residuo duplice intento di conservare il
legato e di conseguire la legittima.
Cass. civ., sez. II, 16maggio 2007, n. 11288. In tema di diritti riservati ai legittimari,
il comportamento dal quale sia dato desumere la volontà, espressa o tacita, del beneficiario
di conservare il legato in sostituzione di legittima, se, per un verso, assume valenza
confermativa, seppure superflua, della già realizzata acquisizione patrimoniale,
per altro verso, comporta, ope legis, la contemporanea caducazione del diritto di chiedere
la legittima. A tale effetto non può porsi rimedio neppure con eventuali atti successivi
di resipiscenza, giacché, in considerazione della definitività e della irretrattabilità degli
effetti acquisitivi del lascito testamentario correlati a dettamanifestazione di volontà,
non è possibile la reviviscenza del diritto di scelta tra il legato sostitutivo e la richiesta
della legittima, rimasto caducato almomento stesso in cui sia statamanifestata la volontà
di conservare il legato. (Sulla base di tale principio, è stato escluso che potesse attribuirsi
valore all'atto di rinuncia al legato in sostituzione di legittima compiuto dal beneficiario
in epoca successiva all'immissione nel possesso dei beni oggetto del lascito).
Svolgimento
Le questioni interpretative legate al quesito posto da Caia sono più di una e assai
spinose.
Dalla disciplina dettata dall'art. 551 c.c. si desume che il legato in sostituzioni di legittima
consiste in un'attribuzione a titolo particolare,mediante la quale il testatore offre al
legittimario, in luogo della sua quota riservata, un lascito a titolo particolare, tacitando il
suo diritto alla legittima nel caso in cui il valore del lascito risulti inferiore alla sua quota
di riserva.
L'effetto peculiare del legato sostitutivo consiste in questo: il legittimario onorato,
qualora il valore del legato sia inferiore alla sua parte di legittima, non può trattenere il
legato (imputandolo alla sua porzione) e, al contempo, esperire l'azione di riduzione, per
recuperare la differenza, secondo la norma generale, fissata dall'art. 564, comma 2, c.c.
Egli dovrà operare una scelta: o trattenere il legato, perdendo la possibilità di chiedere
un eventuale supplemento e di diventare erede; oppure, per agire in riduzione, dovrà rinunciare
al legato.
La legge non stabilisce un termine entro il quale esercitare il diritto di rinunciare al legato.
Deve, quindi, ritenersi applicabile il termine generale di prescrizione di dieci anni,
che può essere abbreviato, poiché qualsiasi interessato può chiedere che l'autorità giudiziaria
fissi un termine entro il quale il legatario dichiari se intende esercitare la facoltà
di rinunziare (art. 650 c.c.).
Tuttavia, alla preclusione derivante dal termine di prescrizione o da quello eventualmente
fissato dal giudice a seguito dell'esercizio dell'azione interrogatoria, si aggiunge
quella non espressamente disciplinata dalla legge, ma ricostruibile alla luce del sistema
e applicata dalla giurisprudenza, secondo cui non è più possibile rinunziare se il legatario
abbia manifestato inequivocabilmente, attraverso una serie di atti e comportamenti,
la volontà di trattenere il legato.
L'aspetto centrale dell'attribuzione tacitativa di legittima è costituito senz'altro dall'accettazione
della disposizione e, di riflesso, dalla sua rinunzia.
Ci si è al riguardo interrogati sulla possibilità di applicare al legato in sostituzione di
legittima la regola generale valevole per i legati in generale e contenuta nell'art. 649 c.c.,
secondo cui non sarebbe necessario un atto di accettazione per conseguire le disposizioni
testamentarie a titolo particolare.
L'interrogativo in parola sorge in base al rilievo che il legato in sostituzione di legittima
si caratterizzerebbe, diversamente rispetto a quanto avviene per i legati in generale,
dal produrre i propri effetti nei confronti della successione necessaria e, di conseguenza,
sull'acquisto della qualità di erede.
Il dato letterale dell'at. 551 c.c. non fornisce indicazioni in grado di dirimere i dubbi visto
che, mentre nel comma 1 ci si riferisce alla mera rinunzia del legato, nel comma 2 si
allude alla preferenza a conseguire il legato stesso, ossia ad un atto ben diverso, per non
dire antitetico, rispetto alla regola generale dell'acquisto ipso iure valevole per i legati in
generale.
Al riguardo in dottrina si sono manifestate opinioni contrastanti.
Da parte di alcuni autori si è sostenuta la necessità di un atto di accettazione (secondo
alcuni espresso, secondo altri anche tacito) o, secondo altri, di preferenza, da parte del
legittimario beneficiario; al contrario, secondo l'orientamento maggioritario, seguito
dalla giurisprudenza, non vi sarebbero motivi per affermare una regola differente rispetto
a quella dettata in relazione al legato in generale.
Pertanto, pur non risultando necessaria un'accettazione, espressa o tacita, quest'ultima
varrà tuttavia ad eliminare lo stato d'incertezza, operando sia con valore confermativo
dell'acquisto che come preclusione definitiva a conseguire la quota di riserva (Cass.
civ., sez. II, 16maggio 2007, n. 11288; Cass. civ., sez. II, 22 luglio 2004, n. 13785; Cass. civ.,
sez. II, 27 maggio 1996, n. 4883).
Si è così affermato che "il legato in sostituzione di legittima, al pari di ogni altro legato,
ai sensi dell'art. 649, comma 1, c.c., si acquista ipso iure senza bisogno di accettazione.
Peraltro, il comportamento del beneficiario di tale legato suscettibile di evidenziare la
volontà, espressa o tacita, di conservare il lascito testamentario, assume, per un verso,
valore confermativo della già realizzata acquisizione patrimoniale, e comporta, per l'altro,
l'immediata perdita ope legis del diritto di chiedere la legittima a norma dell'art. 551
c.c." (Cass. civ., 27 maggio 1996, n. 4883), ed ancora che "in tema di diritti riservati ai legittimari,
il comportamento dal quale sia dato desumere la volontà, espressa o tacita, del
beneficiario di conservare il legato in sostituzione di legittima, se, per un verso, assume
valenza confermativa, seppure superflua, della già realizzata acquisizione patrimoniale,
per altro verso, comporta, ope legis, la contemporanea caducazione del diritto di chiedere
la legittima" (Cass. civ., sez. II, 16 maggio 2007, n. 11288).
In altri termini, l'accettazione, espressa o tacita, del legato in sostituzione di legittima,
non necessaria ma volontariamente resa, impedisce la possibilità di agire in riduzione.
In definitiva, si nega efficacia alla rinunzia, pur dichiarata prima dello scadere del termine
di prescrizione, se nel frattempo il legatario - legittimario abbia compiuto atti, anche
concludenti, che presuppongono la volontà di conservare il lascito testamentario.
All'inefficacia della rinunzia consegue l'inammissibilità dell'azione di riduzione.
Applicando tali pacifici principi al caso di specie, va senz'altro dichiarata l'ammissibilità
dell'azione, non avendo Caia, anche in considerazione del brevissimo lasso di tempo
intercorso dalla data della pubblicazione del testamento, manifestato né espressamente
né tacitamente, attraverso una serie di atti e comportamenti concludenti, la volontà
di trattenere il legato.
Differente portata deve riconoscersi alla rinunzia al legato in sostituzione di legittima,
atto che precede la formale richiesta della legittima per via dell'azione di riduzione.
La rinuncia al legato tacitativo costituisce un onere per il legittimario che intende agire
in riduzione; infatti l'effetto devolutivo del legato si produce già al momento di apertura
della successione, tanto che il beneficiario deve dismettere il legato per poter agire
in riduzione (Cass. civ., sez. II, 22 giugno 2005, n. 13380; Cass. civ., sez. II, 22 luglio 2004,
n. 13785).
La giurisprudenza è intervenuta di recente sulla qualificazione giuridica da attribuire
alla rinunzia al legato sostitutivo, ritenendola un "negozio unilaterale dismissivo di un diritto
reale o personale", ed affermando ulteriormente che l'acquisto dei legati in parola è
destinato a verificarsi di diritto, ossia senza una necessaria accettazione (Cass. civ., sez.
II, 15 marzo 2006, n. 5779).
La rinunzia del legittimario al legato tacitativo è quindi un atto autonomo e necessario,
che, in mancanza, non consente di proporre l'azione di riduzione; deve essere, di
conseguenza, esclusa la possibilità che il legittimario proponga l'azione di riduzione
senza rinunziare al legato, intendendo trattenere il lascito in acconto.
È peraltro possibile chiedersi se la proposizione dell'azione di riduzione sia di per sé
un atto sufficiente ed idoneo ad integrare la rinunzia o, diversamente, sia necessario un
differente atto.
Al riguardo, la giurisprudenza ha affermato che "la proposizione dell'azione di riduzione
non costituisce manifestazione chiara ed inequivoca della volontà di rinunciare a
legato, essendo ipotizzabile un residuo duplice intento di conservare il legato e di conseguire
la legittima" (Cass. civ., sez. II, 11 novembre 2008, n. 26955; Cass. civ., sez. II, 15
marzo 2006, n. 5779), dovendosi valutare concretamente il comportamento complessivo
del beneficiario.
In altri termini, pur ammettendosi in via teorica la configurabilità di una rinuncia al
legato in sostituzione di legittima anche attraverso un atto processuale redatto dal difensore
del legatario, lo stesso esercizio dell'azione di riduzione di per sé, non vale a far
presumere la volontà di rinunziare al legato, essendo necessario considerare il comportamento
del legatario, anteriore e successivo alla proposizione del giudizio, al fine di
trarne sicuri elementi, idonei all'identificazione di una volontà intesa, fin dall'inizio, a rinunziare
al legato (Cass. civ., sez. II, 22 giugno 2010, n. 15124; Cass. civ., sez. II, 11 novembre
2008, n. 26955).
Dal punto di vista processuale, la mancanza della rinunzia al legato in sostituzione di
legittima da parte del legittimario che agisce in riduzione è rilevabile d'ufficio e, quindi,
anche in assenza di una specifica eccezione di parte (Cass. civ., sez. un. 29 marzo 2011,
n. 7098).
La rinuncia al legato, ove lo stesso abbia ad oggetto beni immobili (come nel caso di
specie), risolvendosi in un atto di dismissione della proprietà su beni già acquisiti al patrimonio
del rinunziante, deve essere, in forza â�" dell'art. 1350, comma 1, n. 5, c.c.,
espressamente redatta per iscritto a pena di nullità (Cass. civ., sez. un., 29marzo 2011, n.
7098; Cass. civ., sez. II, 22 giugno 2010, n. 15124).
6. Conclusioni
Alla luce di quanto sopra, Caia potrà agire nei confronti di Mevio e di Sempronio per
ottenere la tutela della legittima, tramite l'azione di riduzione, che è un'azione di accertamento
costitutivo, la cui funzione è quella di: stabilire l'eventuale lesione della quota
di riserva; far conseguire automaticamente a tale accertamento la reintegra nella legittima;
occorrerà, però, che, nello stesso atto introduttivo del giudizio di riduzione o in un
atto separato (e, quindi, in forma scritta) dichiari di rinunciare al legato in sostituzione di
legittima per conseguire la sua quota di riserva.

Da: giògiò11/12/2012 14:43:52
seconda traccia: La Corte di Cassazione a Sezioni Unite si è pronunciata, su caso analogo, con sentenza numero 7098 del 29 marzo 2012

Da: einutile11/12/2012 14:44:08
si ma io ho visto la massima e parla del legato in sostituzione di legittima. ricordati che i ragazzi nel codice hanno LE MASSIME non le intere sentenze!



E POI, UNA PERSONA CHE CHIEDE UN INTERO PARERE SVOLTO, NON MERITA AIUTO!

Da: cirosavastano11/12/2012 14:44:40
mi raccomando la sentenza Monti contro Banca d'Italia del 21.11.2012

Da: alescarm11/12/2012 14:44:40
LECCE CONSEGNA ALLE 17:30... DATE INFORMAZIONI CORRETTE PLEASEEEEEEEEEEEEEEEEE

Da: marily85 11/12/2012 14:45:39
non vi confondete. la sostituzione di legititma non c'entra nulla

Da: alescarm11/12/2012 14:45:48
è INUTILE STARE A POLEMIZZARE... AIUTIAMO QUESTI RAGAZZIII PER FAVORE!!!

Da: marily85 11/12/2012 14:46:52
dovete parlare della indeterminatezza del bene immobile e per tale ragione è  nullo

Da: einutile11/12/2012 14:47:40
LA TRACCIA chiede della VALIDITA' DEL PRELEGATO e mette fra virgolette "" SE PREFERISCE.

leggere bene la traccia prima di raccontare chiacchiere, please..

Da: forza....11/12/2012 14:48:04
Con la traccia oggetto di parere mi si chiede di assumere le vesti di difensore di Caio al fine di tutelarlo in ordine alle possibilità, anche eventualmente recuperatorie,  benché problematiche, relativamente ad una serie di operazioni di conto corrente intercorse tra il 1994 ed il 2008 con la Banca X, gravate da interessi pattizi extralegali, capitalizzati sia trimestralmente che annualmente.  
Al fine di rendere il parere richiesto appare necessario muovere dagli istituti dell'anatocismo, della prescrizione dell'eventuale ripetizione di indebito e dalla natura convenzionale degli interessi passivi, con necessario coinvolgimento delle molteplici problematiche connesse al caso di specie.
Con il termine anatocismo (dal greco anà - di nuovo, e tokòs - interesse) si intende la capitalizzazione degli interessi su un capitale, affinché essi siano a loro volta produttivi di altri interessi (in pratica è il calcolo degli interessi sugli interessi). Nella prassi bancaria, tali interessi vengono definiti "composti". Un esempio di anatocismo è quello di capitalizzare (ossia sommare al capitale di debito residuo) gli interessi ad ogni scadenza di pagamento, anche se sono regolarmente pagati.
Il calcolo degli interessi in regime di capitalizzazione composta anziché in regime di capitalizzazione semplice determina una crescita esponenziale del debito, di conseguenza per periodi inferiori all'anno l'importo calcolato con la capitalizzazione composta sarà inferiore a quello che si determina nella capitalizzazione semplice.
Giuridicamente, in un'obbligazione pecuniaria l'applicazione dell'anatocismo comporterebbe, per il debitore, l'obbligo di pagamento, non solo del capitale e degli interessi pattuiti, ma anche degli ulteriori interessi calcolati sugli interessi già scaduti.
La legge autorizza il pagamento degli interessi legali sulle quote di debito (capitale e interessi), che non sono state regolarmente pagate a scadenza.
Malgrado l'anatocismo sia un istituto conosciuto dagli albori del prestito ad interesse, la normativa italiana non ha raggiunto un sufficiente grado di completezza, tant'è che la disciplina si basa ancora sul codice civile del 1942, ed in particolare sull'art. 1283 c.c.. Secondo questa norma, gli interessi scaduti, in assenza di usi contrari, possono produrre a loro volta interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi. In linea di principio, il codice civile vieta un regime di capitalizzazione composta degli interessi, ovvero il pagamento degli interessi su interessi di periodi precedenti.
Nonostante la tutela approntata dal citato articolo, che subordina l'anatocismo alla compresenza di alcuni presupposti ben determinati, per circa mezzo secolo nella prassi bancaria italiana hanno trovato applicazione pressoché generalizzata, nei contratti di apertura di conto corrente, le clausole di capitalizzazione trimestrale degli impieghi. Ciò grazie (anche) all'avallo della giurisprudenza, tanto di legittimità quanto di merito, che ha affermato la validità delle clausole di capitalizzazione trimestrale, escludendo l'esistenza di un contrasto con la previsione di cui all'art. 1283 codice civile, sulla base dell'affermazione dell'esistenza di un uso idoneo a derogare al divieto di anatocismo stabilito da tale norma.
Nel 1999 la Corte di Cassazione, invertendo il proprio orientamento giurisprudenziale, ha più volte affermato la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale, sostanzialmente argomentando nel senso della inesistenza di un uso normativo idoneo a derogare all'art. 1283 c.c..
Per evitare scompensi tra il lavoro dei giudici e la prassi, il legislatore ha ritenuto opportuno, con il decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342, modificare l'art. 120 del decreto legislativo 1ï¿��º settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia): tale intervento ha introdotto in materia il principio della eguale cadenza di capitalizzazione dei saldi attivi e passivi, nel contempo stabilendo - con norma transitoria - una sanatoria per il pregresso, facendo salve le clausole di capitalizzazione trimestrale contenute nei contratti conclusi prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina.
La norma transitoria è stata però dichiarata illegittima, per eccesso di delega e conseguente violazione dell'articolo 77 Costituzione, dalla Corte Costituzionale (sentenza 17 ottobre 2000, n. 425).
Il cosiddetto "decreto salva banche" fu presentato il 23 luglio 1999, e convertito in legge n. 342 del 4 agosto 1999. La Consulta, con la citata sentenza, ha abrogato l'art. 25, comma 3, dichiarato incostituzionale per: l'irretroattività della legge, la disparità di trattamento fra soggetti del testo Unico Bancario e creditori sottoposti all'anatocismo, il non rispetto dell'autonomia e indipendenza della magistratura.
Dopo la sentenza della Consulta, del 17 ottobre 2000, un secondo decreto fu approvato il 29 dicembre 2000, n. 394, convertito in legge 28 febbraio 2001, n. 24 il quale fornisce l'interpretazione autentica della legge antiusura n. 108 del 1996.
Venuta meno la norma transitoria, finalizzata ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova disciplina, paritetica, della materia, la Corte di Cassazione ha continuato, con una ulteriore serie di sentenze (tra le altre, si veda la sentenza 13 dicembre 2002, n. 17813), a ribadire il suo approccio più recente, peraltro estendendo i principi enunciati inizialmente con riferimento al conto corrente bancario anche ai contratti di mutuo. Infine, con sentenza Cass. Civ., SS.UU., 4 novembre 2004, n. 21095, la suprema Corte ha confermato in modo netto il revirement del 1999, così consolidando il nuovo trend giurisprudenziale.
Il tema dei diritti dei correntisti alla ripetizione di somme illegittimamente addebitate sul conto, soprattutto per interessi anatocistici e commissioni di massimo scoperto, presenta diversi e noti profili autorevolmente dibattuti.
Tra questi, un aspetto saliente è costituito dall'individuazione del giorno in cui inizia a decorrere il termine di prescrizione decennale per far valere tali diritti, ai sensi dell'art. 2935 cod. civ. ("la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere").
La giurisprudenza di merito, negli ultimi anni  - in particolare, dopo che la Cassazione ha affermato l'illegittimità della capitalizzazione trimestrale praticata dalle banche, è stata chiamata numerose volte a pronunciarsi sull'argomento e si è divisa, essenzialmente, tra due orientamenti.
Un orientamento ritiene che il termine di prescrizione decorra dalla chiusura del conto corrente, considerata la natura unitaria del contratto di conto corrente bancario, il quale darebbe luogo ad un unico rapporto giuridico, sicché la serie di accreditamenti ed addebiti costituirebbe un dato contabile, mentre è solo con la chiusura del conto che si stabilisce l'entità del credito e del debito delle parti.
Un diverso indirizzo afferma che la prescrizione decorra da ciascun addebito in conto corrente, poiché la relativa annotazione produrrebbe l'effetto di modificare il saldo e consentirebbe di esercitare il diritto di ripetizione.
In questo quadro sono intervenute le Sezioni Unite (Cass., S.U., 2 dicembre 2010, n. 24418), le quali hanno stabilito che, al fine di individuare il dies a quo della prescrizione, occorre distinguere tra il caso in cui il cliente gode di una apertura di credito (e perciò il versamento sul conto serve a ripristinare la provvista) ed il caso in cui il conto è scoperto o il versamento sia comunque extra fido (qui il versamento è un vero pagamento, con natura solutoria).
Nella prima ipotesi, ha giudicato la Corte di legittimità, il termine di prescrizione decorre dalla chiusura del conto, poiché i precedenti addebiti, appunto, non sono qualificabili tecnicamente come pagamenti; nella seconda ipotesi, invece, ogni versamento corrisponde ad un vero pagamento e come tale (ove fosse eseguito per effetto di una clausola nulla) produce immediatamente il diritto del cliente di chiederne la ripetizione, ed il termine di prescrizione di tale diritto, di conseguenza, inizia a decorrere subito.
Tale soluzione, seppure con le suddette distinzioni, dava un quadro finalmente solido in termini di certezza del diritto.
Ma, come la dottrina ha prontamente segnalato , il legislatore è intervenuto con una "particolarmente tempestiva previsione", mutando in modo radicale i termini della questione.
La norma cui si allude è l'art. 2, co. 61, del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, conv. con modif. dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10.
Il suo tenore è il seguente: "in ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'art. 2935 cod. civ. si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto".
Il senso della disposizione, così come colto da molte decisioni che l'hanno applicata (senza ravvisarne profili di illegittimità costituzionale), è che la prescrizione del diritto alla ripetizione inizia a decorrere, per ciascun addebito, dal momento in cui è avvenuta l'inerente annotazione in conto.
Il che si traduce nell'estinzione della gran parte delle pretese, specialmente in materia di anatocismo, atteso che in tale ambito, com'è noto, le controversie riguardano prevalentemente operazioni poste in essere negli anni '80 e '90 del secolo scorso, in relazione alla disciplina all'epoca vigente.
Taluni Giudici di merito, tuttavia, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale, in particolare censurando l'effetto retroattivo della norma, da cui sono scaturite nove ordinanze di rimessione alla Consulta.
Da qui l'ultimo capitolo della vicenda: la Corte Costituzionale, con sentenza del 5 aprile 2012, n. 78, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma sopra citata.
La Corte Costituzionale ha affermato che il principio di irretroattività della legge civile (art. 11 prel.) costituisce un valore fondamentale di civiltà giuridica e, pertanto, il legislatore può introdurre norme di interpretazione autentica, tali da incidere anche su situazioni preesistenti, solo se vi sia una situazione di obiettiva incertezza del dato normativo, oppure un contrasto giurisprudenziale irrisolto, o la necessità di recuperare il significato aderente all'originaria volontà del legislatore; e, comunque, sul presupposto che l'interpretazione autentica fornisca un significato già contenuto nella norma di legge interpretata, riconoscibile come una delle possibili letture del testo.
Sulla scorta di tale premessa la Consulta ha censurato la norma in questione, in quanto la stessa, derogherebbe con riferimento all'art2935 senza alcuna ragionevole giustificazione.
Da questa decisione si possono ora trarre due considerazioni di sintesi.
La prima è che per individuare il termine da cui decorre la prescrizione si ripristinano i criteri già emersi nella giurisprudenza precedente e sopra richiamati; dunque non si può fare riferimento alla norma dichiarata illegittima, con effetto (questo) certamente retroattivo, ossia valido anche per i giudizi pendenti, salvo il solo limite del giudicato (cfr. Cass., 6 maggio 2010, n. 10958).
La seconda considerazione è che, non solo vi è un "ripristino" degli orientamenti precedenti, ma vi è anzi un deciso rafforzamento dell'indirizzo maggioritario, per il quale la prescrizione decorre dalla chiusura del conto. Il contrario orientamento (prescrizione decorrente dai singoli addebiti), secondo la Corte Costituzionale, non può neppure ricondursi ad uno dei possibili significati dell'art. 2935 cod. civ.
Per ciò che attiene alla pattuizione di interessi passivi, l'Art.1284 commi 2ï¿��° e 3ï¿��° c.c. recita: "Allo stesso saggio (legale) si computano gli interessi convenzionali, se le parti non ne hanno determinato la misura. Gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto, altrimenti sono dovuti nella misura legale".
La L.154/1992, prima (artt. 2- 3- 4- 5- 6), ed il T.U. bancario n. 385 del 1993, poi, hanno introdotto obblighi generali di pubblicità e di pattuizione scritta delle condizioni contrattuali in materia bancaria e finanziaria, sancendo la nullità delle clausole di mero rinvio agli usi, per la determinazione dei tassi di interesse e di ogni altro prezzo e condizioni praticati, nonché delle clausole che prevedono tassi, prezzi, condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati, con un meccanismo di integrazione ex lege della clausola nulla, e stabilendo anche la necessità di comunicazioni specifiche al cliente - nei contratti di durata in cui sia stato convenuto, in una apposita clausola contrattuale, specificamente sottoscritta dal cliente, l'esercizio, da parte della banca, dello ius variandi dei tassi, dei prezzi e delle altre condizioni - delle variazioni a lui sfavorevoli, con diritto di recesso del medesimo cliente (art.118).
Lo ius variandi è stato comunque introdotto legislativamente solo con l'art.4 L.154/1992 (prima vi era solo di disposto di cui all'art.1283 c.c.). Viene quindi, con detta normativa, definitivamente sancita la nullità delle clausole per relationem determinative degli interessi ultralegali.
La Corte di Cassazione è intervenuta in diverse pronunce sulla problematica relativa alle clausole di mero rinvio agli usi di piazza, contenute nei contratti stipulati antecedentemente alla L.154/1992 ed al T.U. 385/1993 ed ancora in essere. All'art.7 delle norme generali regolanti il rapporto, riportate nel contratto, era infatti previsto che "gli interessi dovuti dal correntista, salvo patto diverso, si intendono determinati alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza e producono a loro volta interessi nella stessa misura".
Secondo l'orientamento oggi prevalente, la convenzione relativa agli interessi (nel regime anteriore alla L.154/192) deve ritenersi correttamente stipulata, ex art.1284 c.c., solo quando il relativo tasso risulti determinabile e controllabile in base a criteri, anche estrinseci rispetto al documento negoziale, univoci ed oggettivamente indicati, essendo nulla la clausola, delle condizioni generali di contratto, contenente un generico riferimento "alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito sulla piazza", ove non coordinata all'esistenza di vincolanti discipline fissate su larga scala nazionale con accordi interbancari che garantiscano, sin dall'atto della costituzione del rapporto, la totale assenza di discrezionalità nell'apprensione ed utilizzo del dato, vale a dire la misura del saggio.
In ogni caso tali clausole, stipulate anteriormente all'entrata in vigore della L.154/1992, sono divenute improduttive di ulteriori effetti, a partire dal 9/7/1992, data di entrata in vigore della nuova normativa, implicante espressamente la nullità delle clausole di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi di interesse, in quanto tale disciplina innovativa, se non incide sulla validità delle clausole contrattuali inserite in contratti già conclusi, per i principi regolanti le successioni delle leggi nel tempo, impedisce che esse possano continuare a produrre ulteriori effetti per l'avvenire nei rapporti ancora in corso.
Da notare che, di recente, la Suprema Corte (C.C. 4490/2002) ha ritenuto irrilevante la presenza di accordi di cartello interbancari, diretti a fissare i tassi di interesse attivi e passivi in modo vincolante in ambito comunitario, dovendo ritenersi detti accordi nulli in applicazione dell'art.2 della legge 287/199 che vieta le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente la concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante.
Risultano quindi nulle, anche relativamente ai contratti stipulati prima dell'entrata in vigore (giugno 1992) della L.154/1992, sia le clausole che non prevedono una specifica pattuizione scritta del tasso degli interessi, ma un generico rinvio agli usi di piazza, sia le clausole legittimanti l'esercizio da parte della banca di uno ius variandi in peius , rispetto al correntista, senza criteri di sufficiente, oggettiva e certa determinabilità del tasso applicato poi al rapporto. Alla declaratoria di nullità della clausola, consegue quindi l'applicazione dell'interesse legale ex art.1284 c.c.
Alla luce di quanto premesso, appare quanto mai opportuno prendere le mosse dalla citata sentenza delle S.U. del 2004 (n. 21095) , con la quale era stato statuito che la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi contenuta nei contratti predisposti dagli istituti di credito è nulla, perché non corrisponde ad un uso normativo. La materia, giova ribadire, è regolata dall'art. 1283 c.c., il quale dispone che "In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi".
Già nel 1999 erano comunque intervenute numerose pronunzie della Corte di Cassazione (Cass. n. 2374/99; n 3096/99; n. 3845/99), le quali, in sede di esegesi della richiamata disposizione, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con sentenze del ventennio precedente, hanno affermato il principio - reiteratamente confermato in altre ancora più recenti - secondo il quale "gli usi contrari", idonei ex art. 1283 a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo quelli "normativi" in senso tecnico, desumendone per l'effetto la nullità delle clausole bancarie anatocistiche, rispondendo la stipulazione delle medesime ad un uso meramente negoziale. Il nuovo corso giurisprudenziale era ormai stabile, ma fu comunque opportuno che anche le Sezioni Unite si pronunciassero: ogni dubbio era così da considerarsi, di conseguenza, eliminato e l'anatocismo da ritenersi illecito, produttivo dell'invalidità della relativa pattuizione e fonte dell'obbligo di rimborsare ai sensi dell'art. 2033 c.c. quanto trattenuto dall'istituto a tale titolo.
Una volta riconosciuto il diritto alla ripetizione delle somme trattenute dagli istituti per anatocismo, è sorta la questione relativa al termine di prescrizione del diritto alla rifusione del "maltolto".
In seguito alla virata giurisprudenziale del 1999 di cui si è detto, il legislatore è intervenuto con l'art. 25 d.lvo 4 agosto 1999 n. 342. Tale norma ha sostituito l'art 120 del d.lvo 1 settembre 1993 n. 385 (t.u.), disponendo, tra l'altro, che Il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CICR) dovesse stabilire modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria. Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturate, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera CICR del 9 febbraio 2000, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilirà le modalità e i tempi dell'adeguamento. In difetto di adeguamento le clausole divengono inefficaci e l'inefficacia può essere fatta valere solo dal cliente.
È quindi, come già cennato, intervenuta la Corte Costituzionale con sentenza 17 ottobre 2000 n. 425 che ha dichiarato l'illegittimità di tale ultimo comma. Il che, peraltro, non ha fatto venir meno quello precedente che demanda al CICR la formulazione della disciplina dell'anatocismo bancario. Tant'è che detto organo ha emanato la delibera 9 febbraio 2000, che consente, ma non retroattivamente, la capitalizzazione periodica degli interessi a determinate condizioni, le cui principali sono: che la periodicità della capitalizzazione sia la medesima per gli interessi attivi e per quelli passivi (diversamente da quanto avveniva in precedenza, perché una, la seconda, era trimestrale, mentre l'altra annuale); che la clausola sia espressamente approvata per iscritto.
Con sentenza 05 aprile 2012 n. 78, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 61, del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225 (c.d. Milleproroghe), convertito, con modificazioni, dalla l. 26 febbraio 2011, n. 10, il quale prevedeva che "In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'articolo 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione d'importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto".
Secondo la Corte, la norma censurata violava, con la sua efficacia retroattiva, il canone generale della ragionevolezza delle leggi (art. 3 Cost.). La stessa era, infatti, intervenuta sull'art. 2935 c.c. in assenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo, perché, in materia di decorrenza del termine di prescrizione relativo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, a parte un indirizzo del tutto minoritario della giurisprudenza di merito, si era ormai formato un orientamento maggioritario, che aveva trovato riscontro in sede di legittimità ed aveva condotto ad individuare nella chiusura del rapporto contrattuale o nel pagamento solutorio il dies a quo per il decorso di quel termine. La disposizione censurata, lungi dall'esprimere una soluzione ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili al citato art. 2935., derogava nettamente ad esso , innovando rispetto al testo previgente, senza peraltro alcuna ragionevole giustificazione. Per la Consulta l'efficacia retroattiva della deroga rendeva, per l'effetto, asimmetrico il rapporto contrattuale di conto corrente perché, retrodatando il decorso del termine di prescrizione, finiva per ridurre irragionevolmente l'arco temporale disponibile per l'esercizio dei diritti nascenti dal rapporto stesso. Con ciò veniva pregiudicata la posizione giuridica dei correntisti che, nel contesto giuridico anteriore all'entrata in vigore della norma denunziata, avevano avviato azioni dirette a ripetere somme illegittimamente addebitate loro.
Di qui la violazione dell'art. 3 Cost., perché la norma censurata, facendo retroagire la disciplina in esso prevista, non rispettava i principi generali di eguaglianza e ragionevolezza.
E così l'abusivo comportamento della banche di capitalizzare trimestralmente gli interessi passivi maturati a carico del cliente, e di computare anche su questi quelli del trimestre successivo ha trovato un'ulteriore censura.
Da quanto esposto discende che, essendo la materia stata regolata dal citato provvedimento espressamente previsto dalla legge, la questione si pone ormai per il periodo antecedente l'entrata in vigore dello stesso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 22 febbraio 2000 n. 43. Per quello successivo vi è, infatti, soltanto da verificare se l'istituto si sia adeguato alla normativa. Per quello precedente non vi sono dubbi in merito alla decorrenza del termine di prescrizione del diritto di ripetizione. Secondo le Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. n. 24418/10) ed oggi anche per la Corte Costituzionale il dies a quo coincide con la chiusura del conto. In altre parole, il termine decennale per chiedere la restituzione va fatto partire da quel momento,senza che abbia alcuna rilevanza il fatto che banca, dal 9 febbraio 2000 in poi, si sia uniformata alle disposizioni di cui si è detto. Potrà chiedersi tutto ciò che è stato trattenuto dall'apertura del conto, o meglio da quando quest'ultimo è stato in rosso, fino al 2000.
Resta a questo punto da chiedersi chi possa avvalersi delle pronunzie della Suprema Corte e della Consulta. La restituzione degli importi illegittimamente trattenuti dall'istituto può essere chiesta da chiunque, persona fisica, associazione, fondazione o società abbia intrattenuto con una banca un rapporto produttivo d'interessi passivi. Insomma, l'azione di ripetizione può essere intrapresa non solo da consumatori, ma anche da enti.
Per quanto riguarda il tipo contrattuale, da cui esso scaturisce, può trattarsi sia di conti correnti, sia di mutui, sia di contratti quali le anticipazioni su crediti: basta, come detto, che il medesimo fosse "in rosso", cioè passivo. Caio, prima di adire le vie legali, invierà per mio tramite una raccomandata a.r. alla banca con la richiesta di restituzione degli importi trattenuti in violazione dei citati precetti.

Da: Cla11/12/2012 14:48:09
A quanto ho capito (non sono di giurisprudenza ma cerco di aiutare qualcuno che sta facendo esame) Lasentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite numero 7098 del 29 marzo 2012 è errata. Dunque su cosa orientarsi?

Da: maizzone 11/12/2012 14:49:25
c'era il metal detector a LECCE?????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????

Da: d.benevento11/12/2012 14:50:28
per favore postate la soluzione del primo parereeee! grazie

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