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ESAME AVVOCATO - SESSIONE 2012
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Da: The Special11/12/2012 13:50:04
c'è sia giurisprudenza della cassazione che riferimenti normativi in contrasto con la pronuncia della cassazione.

il dettato normativo è favorevole alle banche ed ha evitato i rimborsi in favore dei clienti

Da: aironblusky 11/12/2012 13:50:10

- Messaggio eliminato -

Da: ---11/12/2012 13:53:39
a lecce la consegna è alle 17

Da: bea11/12/2012 13:55:02
grazie

Da: LORENZOXXXX11/12/2012 13:55:09
KE CONFUSIONE KE STATE FACENDO!EVITATE DI SCRIVERE RISPOSTE INUTILI E PRIVE DI CONTENUTO.....RISPONDA SOLO KI PUò ESSERE UTILE......SECONDA TRACCIA!??!?!?HELP-...

Da: Dolabella11/12/2012 13:55:55
E chissene...
Quanto al parere di Luxor concordo con chi mi ha preceduto: è abbastanza ben fatto, seppure troppo dottrinario.
Un accenno alla problematica pratica del conto scoperto sarebbe stata preferibile.
Quanto alla seconda traccia, non saprei da cosa iniziare.

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Da: VaLLio11/12/2012 13:56:37
evete la sentenza della seconda traccia????

Da: nello0811/12/2012 13:57:06
seconda traccia, preliminarmente va accertata l'autenticità del testamento; in subordine verificare la validità del prelegato in favore di sempronio, del tutto rimesso alla sua scelta, in ogni caso non può ledere la quota di legittima dei germani tizio e caio e quindi, nell'eventualità deve essere ridotto (si comprasse un monolocale)

Da: gca11/12/2012 13:58:25
QUINDI IL PARERE DI LUXOR ANDREBBE INTREGRATO O NO DELLA SENTENZA DEL 2012?
LA SOLUZIONE DEL CASO è CORRETTA O NO??

Da: me11/12/2012 13:58:37
ragazzi ma gli abbinamenti delle corti d'appello?

Da: ESAUSTO!11/12/2012 13:59:49
Qualcuno cortesemente pubblicherebbe uno schema del parere relativo alla traccia n. 1 e/o una bozza di svolgimento...GRAZIE!!!!!!

Da: goffredotobias11/12/2012 14:00:17
Ragazzi giungiamo ad una versione definitia: partiamo da quella di luxor?

Da: Sal740011/12/2012 14:01:21
Ragazzi io non ne capisco di legge, ma mia moglie è a Napoli per in concrso. Questa sentenza può esservi d'aiuto per la seconda traccia?

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 29-03-2011, n. 7098
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VITTORIA Paolo - Primo Presidente f.f.
Dott. ELEFANTE Antonino - Presidente di Sezione
Dott. SALVAGO Salvatore - Consigliere
Dott. CECCHERINI Aldo - Consigliere
Dott. FORTE Fabrizio - Consigliere
Dott. BUCCIANTE Ettore - Consigliere
Dott. MAZZACANE Vincenzo - rel. Consigliere
Dott. DI CERBO Vincenzo - Consigliere
Dott. VIVALDI Roberta - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 7202/2005 proposto da:
F.R. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, Via CARLO POMA 2, presso studio dell'avvocato TROILO GREGORIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato CATALDO ENRICO, per delega a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
B.G.;
- intimato -
sul ricorso 10047/2005 proposto da:
B.G. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO 35, presso lo studio dell'avvocato DI TULLIO CLAUDIO, che lo rappresenta e difende, per delega in calce al controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
F.R.;
- intimata -
avverso la sentenza n. 555/2004 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 03/02/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 01/03/2011 dal Consigliere Dott. VINCENZO MAZZACANE;
uditi gli avvocati Gregorio TROILO, Claudio DI TULLIO;
udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 12-2-1994 B.G. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma F. R., erede di F.G., chiedendo accertarsi la lesione del diritto di legittima spettante alla propria madre B.M. (e successivamente al di lei figlio) con riferimento al testamento pubblico del 23-3-1992 con il quale il "de cuis" aveva nominato sua erede universale la sorella F.R. ed usufruttuaria di tutti i suoi beni la moglie B.M..
La F. costituendosi in giudizio contestava il fondamento della domanda attrice di cui chiedeva il rigetto.
Il Tribunale adito con sentenza del 2-3-2001 accoglieva la domanda attrice, riconoscendo al coniuge del "de cuius", e per suo tramite al figlio, la metà del patrimonio relitto da F.G..
Proposto gravame da parte della F. cui resisteva il B. la Corte di Appello di Roma con sentenza del 3-2-2004 ha rigettato l'impugnazione ed ha compensato interamente tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio; in proposito la Corte territoriale ha negato che l'esercizio dell'azione di riduzione fosse precluso dalla preventiva mancata rinuncia formale da parte di B.M. al legato relativo a beni immobili con atto scritto, sostenendo che in caso di legato in sostituzione di legittima ex art. 551 c.c., non è necessaria una vera e propria rinuncia, perchè l'acquisto non si verifica "ope legis" come per il legato ex art. 649 c.c., essendo sufficiente un mero rifiuto, ovvero un atto impeditivo dell'acquisto, non soggetto a vincoli formali; pertanto era idoneo allo scopo l'incarico orale dato dalla B. al proprio procuratore, che aveva poi formalizzato la volontà di non acquistare il legato con lettera del 10-2-1993.
Per la cassazione di tale sentenza la F. ha proposto un ricorso articolato in quattro motivi illustrato successivamente da una memoria cui il B. ha resistito con controricorso proponendo altresì un ricorso incidentale basato si di un unico motivo.
Con ordinanza interlocutoria del 23-7-2010 la seconda sezione civile di questa Corte ha rimesso la causa al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, sostenendo che l'esame del secondo motivo del ricorso del ricorso principale - avente ad oggetto la dedotta necessità della rinuncia formale al legato in sostituzione di legittima quale presupposto per l'esercizio dell'azione di riduzione delle disposizioni lesive della quota di riserva - comportava la decisione di una questione della massima importanza; al riguardo ha sollecitato un ripensamento critico della tesi tradizionale per la quale l'esercizio dell'azione di riduzione è precluso dalla preventiva mancata rinuncia formale al legato relativo a diritti reali immobiliari.
L'ordinanza menzionata ha affermato che l'opinione dominante secondo cui la rinuncia al legato avente ad oggetto beni immobili ai sensi dell'art. 1350 n. 5 c.c. deve avere forma scritta perchè con essa il legatario si priva di un diritto già compreso nel suo patrimonio, trascura di considerare quella parte dell'art. 551 c.c. - che prevede la preferenza dell'onorato verso il conseguimento del legato - con la quale sarebbe disciplinata la necessità di una accettazione, ancorchè tacita, del legato; ha evidenziato poi che l'adozione della interpretazione tradizionale dell'art. 551 c.c. conduce a ritenere che tale norma non prevederebbe una forma per l'atto positivo di scelta, che pure importa effetti giuridici rilevanti, quali la perdita del supplemento ed il mancato acquisto della qualità di erede; inoltre ha segnalato possibili effetti discriminatori laddove non si tenda ad una equiparazione tra la figura del legatario in sostituzione di legittima e quella dell'erede chiamato all'eredità, probabilmente voluta dal legislatore nel configurare il legato tacitativo; tali incongruenze sarebbero superate aderendo all'assunto sostenuto da una parte della dottrina che ritiene la rinuncia al legato come fatto impeditivo che porterebbe all'omissio acquirendi" e toglierebbe effetto alla delazione.
La ricorrente ha in seguito depositato una ulteriore memoria.
Motivi della decisione
Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei ricorsi in quanto proposti contro la medesima sentenza.
Venendo quindi all'esame del ricorso principale, si ritiene di esaminare prioritariamente per ragioni logico - giuridiche il secondo motivo con il quale la F., denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 551 e 649 c.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione, assume che erroneamente la Corte territoriale ha escluso la possibilità di un acquisto "ope legis" dei legato in sostituzione di legittima e conseguentemente ha negato la necessità di una sua rinuncia, da eseguirsi in forma scritta in quanto riguardante un legato di beni immobili.
La ricorrente principale sostiene che tale assunto si pone in contrasto con l'indirizzo consolidato di questa Corte secondo cui anche il legato in sostituzione di legittima si acquista automaticamente all'apertura della successione; aggiunge inoltre che, poichè l'art. 551 c.c., comma 1, impone una espressa rinuncia al legato qualora il legittimario voglia ottenere la quota ad esso spettante, interpretando anche il secondo comma della menzionata norma come una disposizione che imponga una espressione di volontà per il conseguimento del legato, si giungerebbe alla conclusione che il legato in sostituzione di legittima non produrrebbe alcun effetto fino a che il legatario non esprimesse la sua volontà in un senso o nell'altro; conclusione, quest'ultima, inaccettabile sia in relazione all'art. 649 c.c. in materia di legato, sia per l'impossibilità di configurare nell'art. 551 c.c., comma 2, una deroga implicita alte regole generali sul legato, sia perchè per questa via si finirebbe per equiparare la figura del legatario in sostituzione di legittima a quella dell'erede chiamato all'eredità che deve decidere se accettare o meno l'eredità medesima.
Con il terzo motivo la F., deducendo violazione degli artt. 551 e 649 c.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata per aver affermato che, poichè non sarebbe configurabile l'acquisto "ope legis" del legato, non sarebbe necessaria alcuna rinuncia, ma semplicemente e diversamente un mero rifiuto, anche tacito, che come tale può essere espresso anche mediante l'azione di riduzione.
La ricorrente principale rileva che in tal modo, nel tentativo di far prevalere una interpretazione fondata sulla lettera della legge (valorizzando sino all'estremo la locuzione "se preferisce conseguire" di cui all'art. 551 c.c., comma 2), si finisce per stravolgere il senso e la lettera del comma 1, dello stesso articolo, dove è previsto che il legittimario "può rinunziare al legato";
inoltre il giudice di appello non ha tenuto conto che il B., che non era erede legittimario di F.G., non poteva aver ereditato dalla propria madre la facoltà di rinunciare al legato dalla stessa ricevuto.
Le enunciate censure, da esaminare congiuntamente per ragioni di connessione, attengono entrambe alla statuizione della Corte territoriale che, come già riferito, ha negato che l'esperibilità dell'azione di riduzione da parte di B.G. fosse preclusa dalla mancata rinuncia in forma scritta da parte di B.M. al legato avente ad oggetto beni immobili, avendo affermato, sulla scorta di autorevole indirizzo dottrinario, che la cosiddetta rinuncia al legato non si risolve in un atto dismissivo di diritti di cui il disponente è divenuto titolare, ma configura solamente un atto impeditivo del loro acquisto, come tale non soggetto a vincoli formali; tale assunto sarebbe poi specificatamente avvalorato riguardo at legato in sostituzione di legittima, posto che l'art. 551 secondo comma ex. prevede espressamente che il legittimario preferisca "conseguire il legato"; pertanto, trattandosi di un mero rifiuto, l'atto suddetto non necessiterebbe di forme solenni, e dunque potrebbe essere espresso anche mediante l'esercizio dell'azione di riduzione.
Orbene l'esame della questione ora enunciata, che ha determinato l'emissione della menzionata ordinanza interlocutoria della seconda sezione civile di questa Corte, comporta da un lato una rassegna dell'orientamento giurisprudenziale finora maturatosi al riguardo, e dall'altro una disamina degli spunti critici sollevati dalla dottrina in senso contrario che hanno costituito la base del convincimento espresso in proposito dalla sentenza impugnata.
Sotto un primo profilo quindi deve richiamarsi l'indirizzo giurisprudenziale costante di questa Corte secondo cui, poichè il legato si acquista senza bisogno di accettazione, la rinuncia al legato avente ad oggetto beni immobili, risolvendosi in un atto di dismissione della proprietà di beni già acquisiti al patrimonio del rinunciante, ai sensi dell'art. 1350 c.c., n. 5, deve essere espressa per iscritto a pena di nullità (vedi in tal senso "ex multis" Cass. 8-4-1954 n. 1040; Cass. 5-6-1971 n. 1683; Cass. 26-1-1990 n. 459;
Cass. 2-2-1995 n. 1261; Cass. 3-7-2000 n. 8878; Cass. 22-7-2004 n. 13785; Cass. 22-6-2010 n. 15124); queste conclusioni vengono estese alla rinuncia al legato in sostituzione di legittima sulla base del rilievo che anche in questa ipotesi il legato si acquista di diritto all'apertura della successione, e l'automaticità dell'acquisto non è esclusa dalla facoltà alternativa attribuita al legittimario di rinunciare al legato e chiedere la quota di legittima, tale possibilità dimostrando soltanto che l'acquisto del legato a tacitazione della legittima è sottoposto alla condizione risolutiva costituita dalla rinuncia del beneficiario, condizione che però non sottrae quest'ultima, qualora riguardi beni immobili, alla forma scritta richiesta dalla esigenza fondamentale della certezza dei trasferimenti immobiliari (così in particolare in motivazione Cass. 2-2-1995 n. 1261).
In senso contrario si è sviluppata una dottrina la cui elaborazione, risalente a diversi decenni orsono, muove dalla considerazione che la rinuncia ai legato non avrebbe natura di vera rinuncia, ovvero di atto con cui si dismette un diritto già acquistato, ma piuttosto di atto ostativo o impeditivo dell'acquisto; la rinuncia quindi impedirebbe il perfezionarsi della fattispecie dell'acquisto, come sarebbe confermato dall'inciso "salva la facoltà di rinunziare" contenuto nell'art. 649 c.c., comma 1, che invero altrimenti non avrebbe senso, atteso che ogni acquisto di un
diritto privato e perciò disponibile fa sorgere nell'acquirente una tale facoltà; a conforto di tale assunto si sostiene che se la rinuncia al legato fosse dismissiva di un diritto già acquisito, essa dovrebbe comportare, per quanto riguarda gli immobili, il trasferimento della loro proprietà allo Stato (ai sensi dell'art. 827 c.c.), laddove invece è indubitabile che tali beni tornano a far parte del compendio ereditario come se il periodo intercorrente tra l'apertura della successione e la rinuncia al legato non fosse mai esistito.
L'adesione a tale impostazione determina quindi di per sè la conseguenza che anche la rinuncia al legato in sostituzione di legittima disciplinato dall'art. 551 c.c., avente ad oggetto beni immobili non è soggetta necessariamente alla forma scritta.
I fautori dell'orientamento in esame traggono comunque ulteriori motivi a sostegno del loro assunto, come pure evidenziato nell'ordinanza della seconda sezione di questa Corte sopra menzionata, dall'esame del secondo comma della disposizione da ultimo richiamata, secondo la quale il legittimario in sostituzione di legittima "Se preferisce di conseguire il legato, perde il diritto di chiedere un supplemento, nel caso che il valore del legato sia inferiore a quello della legittima, e non acquista la qualità di erede"; invero in tal caso l'adesione al fegato determina la perdita non solo del diritto alla rinuncia ma anche di quello alla quota di legittima, cosicchè non sarebbe possibile prescindere dalla volontà del legittimario, e questa esigenza spiegherebbe il diritto di scelta attribuito a quest'ultimo dalla disposizione ora richiamata tra l'accettazione del legato ed il conseguimento della legittima onde bilanciare l'eccezionale potere attribuito ai testatore di privarlo del suo diritto ad una quota di eredità tacitandolo con il lascito di beni determinati; quindi, pur volendo ritenere automatico l'acquisto del legato ai sensi dell'art. 649 c.c., per il legittimario cui sia stato lasciato un legato in sostituzione di legittima la legge prevederebbe una accettazione del legato, con Sa conseguenza che prima di tale atto, non essendo ancora entrati i beni immobili oggetto del lascito nel patrimonio del legittimario stesso, non si porrebbe la necessità di una rinuncia a tale legato nella forma scritta.
Orbene nel procedere alla valutazione di tale autorevole indirizzo dottrinario occorre anzitutto muovere dall'interpretazione dell'art. 649 c.c., che disciplina l'acquisto del legato, per verificarne gli effetti per quanto riguarda la forma della rinuncia al legato avente ad oggetto beni immobili, e poi accertare se l'art. 551 c.c., dettato per il legato in sostituzione di legittima, autorizzi in ogni caso (e dunque anche a prescindere dalle conclusioni che si trarranno dall'analisi dell'art. 649 c.c.) una autonoma risposta al quesito relativo alla forma della rinuncia a tale legato, sempre ovviamente nel caso che il lascito abbia ad oggetto beni immobili.
Sotto un primo profilo deve ritenersi che l'art. 649 c.c. non giustifichi una sua lettura diversa da quella costantemente seguita da questa Corte ed anche da una buona parte della dottrina, considerato che il comma 1, di tale norma, nel prevedere che "il legato si acquista senza bisogno di accettazione, salva la facoltà di rinunziare", depone inequivocabilmente per l'automaticità dell'acquisto, con la conseguenza che l'esercizio della "facoltà" di rinuncia comporta la dismissione di una attribuzione già acquisita al patrimonio del legatario; non meno significativamente poi il secondo comma della disposizione in esame prescrive che "Quando oggetto del legato è la proprietà di una cosa determinata o altro diritto appartenente al testatore, la proprietà o il diritto si trasmette dal testatore al legatario al momento della morte del testatore", cosicchè l'acquisto del legato avente ad oggetto beni immobili avviene senza soluzione di continuità fin dal momento dell'apertura della successione.
E' opportuno aggiungere che tale prima conclusione, legittimata dal chiaro ed inequivocabile tenore della disposizione in esame, non comporta l'assoluta inutilità dell'accettazione del legato, posto che il comportamento del legatario può assumere rilevanza come manifestazione della sua volontà di rendere definitivo ed irretrattabile l'acquisto già verificatosi "ex lege", o come manifestazione della opposta volontà di spogliarsi del diritto e della qualità come innanzi acquistati, evenienza quest'ultima che produce tra l'altro l'effetto previsto dall'art. 467 c.c., comma 2, in materia di rappresentazione nella successione testamentaria, nel caso in cui l'istituito non possa o non voglia accettare il legato;
in mancanza di conferma dell'acquisto o di rinuncia si determina pertanto una situazione di incertezza (che quindi riguarda non già l'acquisto del legato ma la stabilità del medesimo) che può essere rimossa, da parte di chiunque vi abbia interesse, attraverso l'azione prevista dall'art. 650 c.c. chiedendo all'autorità giudiziaria la fissazione di un termine entro il quale il legatario dichiari se intende esercitare la facoltà di rinunziare.
Tale regime dell'acquisto del legato, nel diversificarsi dall'acquisto dell'eredità (che ai sensi dell'art. 470 c.c. e ss., deve essere accettata per produrre effetto), è coerente con il principio della non responsabilità per i debiti ereditari da parte del legatario, il quale invero è tenuto all'adempimento del legato e di ogni altro onere a lui imposto dal testatore entro i limiti del valore della cosa legata (art. 671 c.c.).
Da queste premesse discende quindi la conseguenza che per la rinuncia ad un legato avente ad oggetto beni immobili è necessaria la forma scritta ai sensi dell'art. 1350 c.c., n. 5; tali conclusioni non sono infirmate dal sopra enunciato rilievo in senso contrario secondo cui tale assunto non spiegherebbe come mai il bene oggetto del legato a seguito della rinuncia rientri nell'asse ereditario; invero ciò deriva dal fatto che la rinuncia determina la risoluzione dell'acquisto già avvenuto in favore del legatario con effetto retroattivo al tempo dell'apertura della successione, come è confermato sia dalla retroattività della rinuncia all'eredità espressamente prevista dall'art. 521 c.c., sia, come è stato osservato in dottrina, dalla equivalenza, ai fini dell'accrescimento tra collegatari, delle ipotesi in cui il legatario non possa o non voglia acquistare il legato (artt. 674 e 675 c.c.); pertanto la retroattività
spiega il ripristino della situazione antecedente, e tale "fictio juris" opera come se l'acquisto del legato da parte del legatario rinunciante non fosse mai avvenuto.
Occorre a tal punto focalizzare l'attenzione sull'art. 551 c.c., che disciplina il legato in sostituzione di legittima; il comma 1, di tale disposizione prevede che "Se a un legittimario è lasciato un legato in sostituzione di legittima, egli può rinunziare al legato e chiedere la legittima"; orbene tale norma, prevedendo espressamente la rinuncia al legato quale condizione del diritto di conseguire la legittima, sul presupposto che il testatore ha inteso soddisfare i diritti del legittimario con una disposizione a titolo particolare tacitativa di essi, stabilisce che la volontà del legittimario di ottenere la sua quota di riserva è condizionata alla dismissione del legato in esame, e conferma la necessità della rinuncia ad esso, rinuncia quindi da manifestare nella forma scritta qualora il legato abbia ad oggetto beni immobili; come invero è stato rilevato, la rinuncia al legato sostitutivo cui l'art. 551 c.c., comma 1, subordina la facoltà dell'onorato di chiedere la legittima, non può desumersi di per sè dalla sola dichiarazione di rifiutare le disposizioni testamentarie in quanto lesive dei diritti del legittimario, non potendosi negare a priori a siffatta dichiarazione il significato proprio di una riserva di chiedere soltanto l'integrazione della legittima, ferma restando l'attribuzione del legato (Cass. 14-4-1992 n. 4527; Cass. 11-11-2008 n. 26955).
Il secondo comma dell'art. 551 c.c. prevede poi che se il legittimario "preferisce di conseguire il legato, perde il diritto di chiedere un supplemento, nel caso che il valore del legato sia inferiore a quello della legittima, e non acquista la qualità di erede. Questa disposizione non si applica quando il testatore ha espressamente attribuito al legittimario la facoltà di chiedere il supplemento"; secondo i fautori della tesi per la quale la rinuncia dei legittimario al legato avente ad oggetto beni immobili non richiede necessariamente la forma scritta, tale disposizione contemplerebbe una opzione e quindi un atto di accettazione del legato da parte del legittimario, come evidenziato dall'uso del termine "preferisce", sottolineando che tale scelta si impone per gli effetti rilevanti che derivano dalla adesione al legato, ovvero la privazione della quota di legittima.
Tale convincimento non è condivisibile sulla base delle seguenti considerazioni.
In realtà la disposizione in esame stabilisce gli ulteriori effetti derivanti dall'acquisizione del legato in sostituzione di legittima (oltre la preclusione a chiedere la legittima sancita dall'art. 551 c.c., comma 1), escludendo per il legittimario il diritto di chiedere un supplemento nell'ipotesi in cui il valore dell'oggetto del legato risulti inferiore a quello della quota di legittima; si tratta quindi di una disposizione che, disciplinando pur sempre le conseguenze discendenti dall'attribuzione e quindi dal conseguimento di un legato in sostituzione di legittima - conseguenze ulteriori rispetto a quelle già previste dai primo comma dello stesso articolo, laddove la rinuncia al legato, come si è visto, è espressamente prevista come condizione per chiedere la legittima - non può portare coerentemente a conclusioni diverse con riferimento ad una pretesa necessaria accettazione del legato in questo secondo caso, tantomeno estensibili alta ipotesi del legittimario che intenda chiedere la legittima disciplinata dal comma precedente (che è poi quella ricorrente nella fattispecie oggetto della presente controversia);
pertanto l'interpretazione più corretta dell'espressione "se preferisce conseguire il legato, perde il diritto di chiedere il supplemento" induce a ritenere che la perdita del diritto di chiedere un supplemento derivi non già da una manifestazione di volontà di acquistare il legato (invero non necessaria al fine del conseguimento dello stesso), ma dalla mancata rinuncia, da effettuarsi nella forma scritta qualora il legato abbia ad oggetto beni immobili; in altri termini, quindi, l'interpretazione coordinata del primo e dell'art. 551 c.c., comma 2, consente di affermare che la mancata rinuncia al legato in sostituzione di legittima (da effettuarsi nella forma scritta qualora abbia ad oggetto beni immobili) comporta la preclusione del diritto di chiedere sia la legittima, sia un suo supplemento nel caso che il valore del legato sia inferiore ad essa (salvo in quest'ultimo caso che il testatore abbia espressamente attribuito al legittimario la facoltà di chiedere il supplemento);
il convincimento ora espresso pertanto trova conforto nell'inquadramento sistematico della norma di cui all'art. 551 c.c., comma 2, in un contesto caratterizzato non solo dal principio generale di cui all'art. 649 c.c., in materia di accettazione del legato e da quello dell'art. 1350 c.c., n. 5, in tema di forma scritta a pena di nullità per gli atti di rinuncia a beni immobili ed ai diritti su beni immobili, ma anche dalla disposizione dello stesso art. 551 c.c., comma 1.
Tali conclusioni sono avvalorate, come osservato anche in dottrina, dalla soppressione nel progetto definitivo dell'art. 244 del progetto preliminare, ove era stabilito che l'accettazione e la rinuncia al legato potevano effettuarsi espressamente e tacitamente, in quanto si ritenne che in proposito valevano i principi generali; invero la necessità della forma scritta per la rinuncia al legato avente ad oggetto beni immobili discende dal coordinamento delle disposizioni di carattere generale di cui all'art. 649 c.c., e art. 1350 c.c., n. 5, sopra richiamati.
Infine deve rilevarsi che l'orientamento fin qui sostenuto non comporta gli effetti discriminatori accennati nell'ordinanza remittente tra chiamato all'eredità e legittimario cui sia stato attribuito un legato in sostituzione di legittima; non può invero disconoscersi la evidente diversità sul piano del diritto sostanziale della condizione giuridica di tali soggetti, considerato che il secondo deve essere qualificato pur sempre un legatario (almeno fino a quando non propende per il conseguimento della quota di legittima, posto che il legato sostitutivo è una disposizione a titolo particolare sottoposta alla condizione risolutiva - potestativa costituita dalla rinuncia), cosicchè ben si spiega la distinta disciplina dettata dal legislatore per l'accettazione dell'eredità e per quella del legato,
come già esposto più sopra;
in proposito, pur nella consapevolezza dell'esistenza di un orientamento dottrinario che tende ad assimilare la posizione del legatario in sostituzione di legittima a quella del chiamato all'eredità, ed a ritenere che il legato sostitutivo si risolverebbe in una forma particolare di attribuzione della legittima, è decisivo rilevare che in realtà tale legato si colloca in un'ottica alternativa a quella dell'attribuzione della quota di riserva, non potendo dubitarsi che l'istituto in esame, rispondente ad una esigenza di bilanciamento tra la tutela dei diritti del legittimario ed il riconoscimento della volontà del legislatore di escludere quest'ultimo dalla partecipazione alla comunione ereditaria, resta pur sempre caratterizzato da una attribuzione a titolo particolare - di per sè svincolata da ogni riferimento alla concreta dimensione della quota di riserva - che esonera il legatario da responsabilità per i debiti ereditari.
Sempre nel senso di escludere una assimilazione della condizione del legatario in sostituzione di legittima al chiamato alla eredità, non è superfluo aggiungere che, se non si dubita che il legittimario pretermesso acquista la qualità di chiamato all'eredità solo dal momento della sentenza che accoglie la sua domanda di riduzione rimuovendo l'efficacia preclusiva delle disposizioni testamentarie (vedi "ex multis" Cass. 9-12-1995 n. 12632; Cass. 3-12-1996 n. 10775;
Cass. 15-6-2006 n. 13804), a maggior ragione tali conclusioni sono avvalorate nell'ipotesi disciplinata dall'art. 551 c.c., laddove l'esclusione del legittimario dalla delazione ereditaria è accompagnata da una disposizione in suo favore a titolo particolare in sostituzione della quota di legittima.
In conclusione quindi, ritenuti fondati i motivi in esame, deve essere enunciato il seguente principio di diritto: il legittimario in favore del quale il testatore abbia disposto ai sensi dell'art. 551 c.c. un legato avente ad oggetto beni immobili in sostituzione di legittima, qualora intenda conseguire la legittima, deve rinunciare al legato stesso in forma scritta ex art. 1350 c.c., n. 5.
Con il primo motivo la F., deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 551 e 649 c.c., artt. 112 e 345 c.p.c., (quest'ultimo nella formulazione antecedente alla L. n. 353 del 1990) nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata per aver escluso la tempestività dell'eccezione con cui l'esponente nell'atto di appello aveva rilevato che la B. non aveva mai rinunciato al legato in sostituzione di legittima disposto in suo favore nel testamento di F. G..
La ricorrente principale assume in proposito la rilevabilità d'ufficio della stessa, derivando la necessità dell'istanza di parte solo dall'esistenza di una eventuale specifica previsione normativa che non si rinviene nel nostro ordinamento; pertanto, considerato che al presente giudizio doveva applicarsi "ratione temporis" la vecchia formulazione dell'art. 345 c.p.c., che consentiva la proposizione in appello delle eccezioni rilevabili d'ufficio, l'eccezione predetta sollevata dall'esponente con l'atto introduttivo del gravame non poteva essere considerata tardiva.
La censura è fondata.
La Corte territoriale ha ritenuto tardiva l'eccezione sollevata dalla F. per la prima volta nell'atto di appello in ordine alla mancata rinuncia da parte della B. al legato attribuitole dal "de cuius" nella forma scritta; tale assunto non può essere condiviso, considerato che, coerentemente con il principio di diritto enunciato in occasione dell'esame del secondo e del terzo motivo del ricorso principale, deve ritenersi che la mancata rinuncia per iscritto ai sensi dell'art. 1350 c.c., n. 5, da parte dei legittimario che agisce per chiedere la legittima, al legato in sostituzione di legittima avente ad oggetto beni immobili, è rilevabile d'ufficio senza necessità di eccezione della controparte (Cass. 18-4-2000 n. 4971; Cass. 3-7-2000 n. 8878; Cass. 16-5-2007 n. 11288).
Per le considerazioni finora espresse il ricorso principale deve essere accolto.
Conseguentemente deve ritenersi assorbito il ricorso incidentale basato su di un unico motivo con il quale il B., deducendo violazione dell'art. 24 Cost., artt. 91 e 92 c.p.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata per aver compensato interamente le spese di entrambi i gradi di giudizio in ragione della complessità delle questioni affrontate.
In definitiva quindi la sentenza impugnata deve essere cassata all'esito dell'accoglimento del ricorso principale, e la causa deve essere rinviata ad altra sezione della Corte di Appello di Roma per un nuovo esame della controversia in conformità del principio di diritto sopra enunciato in occasione dell'esame del secondo e del terzo motivo del ricorso principale nonchè per la pronuncia sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
LA CORTE Riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, dichiara assorbito il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione all'accoglimento del ricorso principale e rinvia la causa anche per la pronuncia sulle spese
del presente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma.

Da: Davide99111/12/2012 14:02:14

- Messaggio eliminato -

Da: falstaff11/12/2012 14:03:10
QUAESTIO IURIS
In tema di anatocismo, la disciplina codicistica prevede una norma ritenuta imperativa, l'art. 1283 c.c., che, per le finalità di ordine pubblico ed economico perseguite, vieta il fenomeno della cd. produzione degli interessi sugli interessi che, rischiando di produrre una moltiplicazione incontrollabile dell'esposizione debitoria, potrebbe creare fenomeni sostanzialmente usurari.
Nonostante la previsione di un siffatto divieto generale, il legislatore disciplina tre ipotesi derogatorie che, in via eccezionale, autorizzano l'operatività del meccanismo anatocistico.
Invero, l'art. 1283 c.c. ammette:
l'anatocismo convenzionale, cioè quando vi sia una pattuizione espressa successiva alla scadenza degli interessi;
l'anatocismo legale, nel presupposto di una domanda giudiziale esplicita  e chiara finalizzata all'accertamento e alla condanna al pagamento degli interessi fruttificati;
l'anatocismo usurario o usuale, per cui se sussistono usi contrari, che devono essere normativi, esso è ammissibile anche oltre i limiti posti per quello convenzionale e legale.
Con riferimento all'anatocismo usuale, si è posto il problema se si potesse considerare un uso normativo e come tale legittimo, quello recepito dalle norme bancarie uniformi (art. 7 ABI)  che prevedono un doppio binario di capitalizzazione degli interessi sul conto corrente bancario: per i saldi attivi una periodicità annuale, per i saldi passivi una periodicità trimestrale.
A riguardo, la giurisprudenza (tra le tante, Cass. n. 2374/1999; Cass. n. 11466/2008) ha chiarito che questo uso, pur recepito dalle norme bancarie uniformi, ha carattere negoziale e non normativo, e non rientra nelle deroghe di cui all'art. 1283 c.c..
Nonostante il suesposto indirizzo giurisprudenziale, la rilevanza economica della fattispecie, ha imposto un intervento normativo, attuato con il d.lgs.342/1999 che, modificando l'art. 120 TU in materia bancaria e creditizia, ha previsto un quarto tipo di anatocismo, quello bancario. In virtù di questa disposizione si ritengono ammissibili, in conformità alle indicazioni impartite dal CICR, anatocismi in deroga al 1283 c.c., dunque anche trimestrali, purché i periodi di capitalizzazione siano identici nei rapporti attivi e passivi.
All'indomani della riforma del 1999, si è posto il problema della validità delle clausole anteriori al d.lgs 342, in attuazione delle quali le banche hanno riscosso interessi in base a convenzioni nulle, perché contrarie al 1283 c.c. che, come visto, vieta l'anatocismo quale principio di carattere generale, ammettendo unicamente tre eccezioni.
Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione che con la pronuncia n. 21095 del 2004 hanno precisato che  la prassi bancaria consistente nella previsione di clausole, accessorie ai contratti di conto corrente, di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito, doveva considerarsi uso negoziale (o pattizio) e non normativo, quindi non idoneo a derogare al meccanismo impositivo di cui all'art. 1283 c.c. e che ogni qualvolta al correntista  era imposta una siffatta clausola, essa doveva ritenersi nulla e tutte le somme precedentemente riscosse dall'istituto di credito dovevano, per la regola della ripetizione dell'indebito, essere restituite.
Alla luce di queste argomentazioni, si sono poste una serie di questioni che sono state risolte di recente dalla Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 24418 del 2 dicembre 2010.
In primo luogo, la Suprema Corte ha affrontato la problematica relativa all'individuazione del momento di decorrenza della prescrizione dell'azione di ripetizione del'indebito.
Giova considerare che alle azioni restitutorie non si applica la regola dell'imprescrittibilità dell'azione di nullità, anche se la clausola è nulla, ma il termine di prescrizione decennale, in base al combinato disposto degli artt. 2948 e 2033 c.c..
Relativamente al dies a quo, in precedenza, la giurisprudenza aveva affermato che il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute indebitamente dalla banca a titolo di interessi su di un'apertura di credito in conto corrente, decorra dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi.
A siffatto orientamento sono state avanzate delle critiche, mosse dal rilievo secondo cui l'unitarietà del rapporto giuridico derivante dal contratto di conto corrente bancario non è  l'unico elemento utile ad individuare nella chiusura del conto il momento da cui debba decorrere il suddetto termine di prescrizione.
Invero, ogni volta che un rapporto di durata richieda prestazioni in denaro ripetute, l'unitarietà del rapporto contrattuale ed il fatto che sia destinato a protrarsi nel futuro, non impedisce di qualificare indebito ciascun pagamento non dovuto, se ciò dipenda dalla nullità del titolo giustificativo dell'esborso, sin dal momento in cui il pagamento stesso si è verificato: ed è sempre da quel momento che sorge il diritto del solvens alla ripetizione, e che la relativa prescrizione inizia a decorrere.
Ebbene, in linea generale, perché possa sorgere il diritto alla ripetizione di un pagamento indebitamente eseguito, tale pagamento deve esistere, deve essere ben individuabile, deve determinare uno spostamento patrimoniale e non deve avere una idonea causa giustificativa.
Dunque, la Cassazione, sez. un., 2 dicembre 2010, afferma che può sostenersi decorso il termine di prescrizione del diritto alla ripetizione solamente da quando sia intervenuto un pagamento che l'attore del processo sostenga essere indebitamente eseguito.
Lo stesso dovrà dirsi nel caso in cui il pagamento sia dichiarato indebito in conseguenza dell'accertata nullità del negozio giuridico in esecuzione del quale sia stato effettuato.
Ma il correntista non potrà agire per la ripetizione di un pagamento che da parte sua non ha ancora avuto luogo.
Invero, come si evince dagli artt. 1842 e 1843 c.c., con l'apertura di credito la banca pone a disposizione del cliente una somma  di denaro che questi potrà utilizzare anche in più riprese, con la facoltà di ripristinarne in tutto o in parte la disponibilità eseguendo versamenti che gli consentiranno poi eventuali prelevamenti, entro il limite del credito accordatogli.
Pertanto, se durante l'apertura di credito, il correntista non abbia effettuato versamenti, è indiscutibile che non vi possa essere alcun pagamento da parte del correntista, prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli abbia provveduto a restituire alla banca il denaro messo a sua disposizione e concretamente utilizzato.
Per questo motivo, qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a causa del computo degli interessi in misura non consentita, l'azione di ripetizione dell'indebito potrà essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto, e solo da quel momento comincerà a decorrere il relativo termine di prescrizione.
Qualora, invece, durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione, se hanno avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. E questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto scoperto. Non è così, invece, se i versamenti in conto rappresentino unicamente atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può continuare a godere.
A ben vedere, potrà quindi ritenersi pagamento ripetibile solo quello avvenuto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia diritto di chiedere la restituzione al cliente del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e perciò da restituire se corrisposti dal cliente all'atto della chiusura del conto.
Pertanto, il termine decennale di prescrizione dell'azione di restituzione decorre dalla chiusura del conto, piuttosto che dalle singole poste di debito.
La Corte di Cassazione, sez. un., 2 dicembre 2010,n. 24418, ha poi affrontato e risolto la diversa questione di come debbano essere calcolati gli interessi passivi successivamente alla declaratoria di nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale, e cioè se debbano essere conteggiati con capitalizzazione annuale o senza alcuna capitalizzazione.
Ebbene, in qualche contenzioso, gli istituti bancari si erano orientati nel senso non di restituire al cliente le somme illegittimamente incamerate relative agli interessi passivi anatocistici calcolati trimestralmente, ma di restituirle solo in parte, in virtù di un ricalcolo autonomamente applicato che avrebbe consentito loro di trattenere quella parte di interessi che avrebbero percepito se avessero fin dall'inizio del rapporto praticato una capitalizzazione annuale, in sostanza convertendo la clausola di capitalizzazione da trimestrale ad annuale.
Questa impostazione è da considerarsi inaccettabile, principalmente per la ragione secondo la quale il nostro ordinamento vieta l'anatocismo anche annuale se non c'è una convenzione posteriore alla scadenza, una domanda giudiziale o un uso normativo.
Poi, sarebbe arbitrario che, nel negare l'esistenza di usi normativi di capitalizzazione trimestrale, si riconoscesse la presenza di usi normativi di capitalizzazione annuale.
Pertanto, è più convincente quell'interpretazione che impone una restituzione integrale delle somme indebitamente percepite dagli istituti bancari, che hanno applicato l'anatocismo trimestrale passivo, senza dar adito a ricalcoli arbitrari basati su meccanismi di conversione.

LA SOLUZIONE di Cassazione, Sezioni Unite, 2 dicembre 2010, n. 24418
Alla luce delle suesposte argomentazioni, le Sezioni Unite della Cassazione, con la pronuncia del 2 dicembre 2010, n. 24418, enunciano i seguenti principi di diritto:
1. Se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati.
2. L'interpretazione data dal giudice di merito all'art. 7 del contratto di conto corrente bancario, stipulato dalle parti in epoca anteriore al 22 aprile 2000, secondo la quale la previsione di capitalizzazione annuale degli interessi contemplata dal comma 1, di detto articolo si riferisce ai soli interessi maturati a credito del correntista, essendo invece la capitalizzazione degli interessi a debito prevista dal comma successivo su base trimestrale, è conforme ai criteri legali d'interpretazione del contratto ed, in particolare, a quello che prescrive l'interpretazione sistematica delle clausole; con la conseguenza che, dichiarata la nullità della surriferita previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall'art. 1283 c.c., (il quale osterebbe anche ad un'eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna.

Da: sez11/12/2012 14:03:33
termine per la consegna a roma?

Da: d.benevento11/12/2012 14:05:29
ragazzi collaboriamo e postiamo solo le soluzioni maggiormente attinenti alle tracce

Da: Maya3311/12/2012 14:06:27
A che ora Consegna bari?

Da: francy11/12/2012 14:06:41
DAI RAGAZZI SU INVIATE  LA SOLUZIONE DELLA 2 TRACCIA???

Da: Sole23 11/12/2012 14:07:41
Io sono d'accordo con querty

Da: darr11/12/2012 14:08:29
scusate mi sn appena connesso, posso sapere se è utile inserire nel primo parere la decisione della Corte cost del 2012.
In base a detta decisione, sarebbe ammissibile l'azione del correntista in quanto non ancora prescrittosi il relativo diritto? giusto?

Da: traccia 211/12/2012 14:10:19
ma possibile che delle 2 traccia non si sappia qual' è la massima di riferimento??

Da: gca11/12/2012 14:11:04
QUELLA DI FALSTAFF COME VI SEMBRA?
GRAZIE COMUNQUE DELLA COLLABORAZIONE A TUTTI COLORO CHE SI STANNO IMPEGNANDO A REDIGERE PARERI

Da: VaLLio11/12/2012 14:11:07
la massima di riferimeto della seconda traccia???????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????

Da: aoxomoxoa 11/12/2012 14:12:53
SOLUZIONE TRACCIA ANATOCISMO
E' MOLTO CORPOSA MA RIPETITIVA, VI CONFERISCE LA POSSIBILITA' DI SCEGLIERE E MODIFICARE

CONTROLLATE SEMPRE IL SENSO LOGICO DI QUELLO CHE SCRIVETE

DAI CAXXO !

Con la traccia oggetto di parere mi si chiede di assumere le vesti di difensore di Caio al fine di tutelarlo in ordine alle possibilità, anche eventualmente recuperatorie,  benché problematiche, relativamente ad una serie di operazioni di conto corrente intercorse tra il 1994 ed il 2008 con la Banca X, gravate da interessi pattizi extralegali, capitalizzati sia trimestralmente che annualmente.   
Al fine di rendere il parere richiesto appare necessario muovere dagli istituti dell'anatocismo, della prescrizione dell'eventuale ripetizione di indebito e dalla natura convenzionale degli interessi passivi, con necessario coinvolgimento delle molteplici problematiche connesse al caso di specie.
Con il termine anatocismo (dal greco anà - di nuovo, e tokòs - interesse) si intende la capitalizzazione degli interessi su un capitale, affinché essi siano a loro volta produttivi di altri interessi (in pratica è il calcolo degli interessi sugli interessi). Nella prassi bancaria, tali interessi vengono definiti "composti". Un esempio di anatocismo è quello di capitalizzare (ossia sommare al capitale di debito residuo) gli interessi ad ogni scadenza di pagamento, anche se sono regolarmente pagati.
Il calcolo degli interessi in regime di capitalizzazione composta anziché in regime di capitalizzazione semplice determina una crescita esponenziale del debito, di conseguenza per periodi inferiori all'anno l'importo calcolato con la capitalizzazione composta sarà inferiore a quello che si determina nella capitalizzazione semplice.
Giuridicamente, in un'obbligazione pecuniaria l'applicazione dell'anatocismo comporterebbe, per il debitore, l'obbligo di pagamento, non solo del capitale e degli interessi pattuiti, ma anche degli ulteriori interessi calcolati sugli interessi già scaduti.
La legge autorizza il pagamento degli interessi legali sulle quote di debito (capitale e interessi), che non sono state regolarmente pagate a scadenza.
Malgrado l'anatocismo sia un istituto conosciuto dagli albori del prestito ad interesse, la normativa italiana non ha raggiunto un sufficiente grado di completezza, tant'è che la disciplina si basa ancora sul codice civile del 1942, ed in particolare sull'art. 1283 c.c.. Secondo questa norma, gli interessi scaduti, in assenza di usi contrari, possono produrre a loro volta interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi. In linea di principio, il codice civile vieta un regime di capitalizzazione composta degli interessi, ovvero il pagamento degli interessi su interessi di periodi precedenti.
Nonostante la tutela approntata dal citato articolo, che subordina l'anatocismo alla compresenza di alcuni presupposti ben determinati, per circa mezzo secolo nella prassi bancaria italiana hanno trovato applicazione pressoché generalizzata, nei contratti di apertura di conto corrente, le clausole di capitalizzazione trimestrale degli impieghi. Ciò grazie (anche) all'avallo della giurisprudenza, tanto di legittimità quanto di merito, che ha affermato la validità delle clausole di capitalizzazione trimestrale, escludendo l'esistenza di un contrasto con la previsione di cui all'art. 1283 codice civile, sulla base dell'affermazione dell'esistenza di un uso idoneo a derogare al divieto di anatocismo stabilito da tale norma.
Nel 1999 la Corte di Cassazione, invertendo il proprio orientamento giurisprudenziale, ha più volte affermato la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale, sostanzialmente argomentando nel senso della inesistenza di un uso normativo idoneo a derogare all'art. 1283 c.c..
Per evitare scompensi tra il lavoro dei giudici e la prassi, il legislatore ha ritenuto opportuno, con il decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342, modificare l'art. 120 del decreto legislativo 1º settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia): tale intervento ha introdotto in materia il principio della eguale cadenza di capitalizzazione dei saldi attivi e passivi, nel contempo stabilendo - con norma transitoria - una sanatoria per il pregresso, facendo salve le clausole di capitalizzazione trimestrale contenute nei contratti conclusi prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina.
La norma transitoria è stata però dichiarata illegittima, per eccesso di delega e conseguente violazione dell'articolo 77 Costituzione, dalla Corte Costituzionale (sentenza 17 ottobre 2000, n. 425).
Il cosiddetto "decreto salva banche" fu presentato il 23 luglio 1999, e convertito in legge n. 342 del 4 agosto 1999. La Consulta, con la citata sentenza, ha abrogato l'art. 25, comma 3, dichiarato incostituzionale per: l'irretroattività della legge, la disparità di trattamento fra soggetti del testo Unico Bancario e creditori sottoposti all'anatocismo, il non rispetto dell'autonomia e indipendenza della magistratura.
Dopo la sentenza della Consulta, del 17 ottobre 2000, un secondo decreto fu approvato il 29 dicembre 2000, n. 394, convertito in legge 28 febbraio 2001, n. 24 il quale fornisce l'interpretazione autentica della legge antiusura n. 108 del 1996.
Venuta meno la norma transitoria, finalizzata ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova disciplina, paritetica, della materia, la Corte di Cassazione ha continuato, con una ulteriore serie di sentenze (tra le altre, si veda la sentenza 13 dicembre 2002, n. 17813), a ribadire il suo approccio più recente, peraltro estendendo i principi enunciati inizialmente con riferimento al conto corrente bancario anche ai contratti di mutuo. Infine, con sentenza Cass. Civ., SS.UU., 4 novembre 2004, n. 21095, la suprema Corte ha confermato in modo netto il revirement del 1999, così consolidando il nuovo trend giurisprudenziale.
Il tema dei diritti dei correntisti alla ripetizione di somme illegittimamente addebitate sul conto, soprattutto per interessi anatocistici e commissioni di massimo scoperto, presenta diversi e noti profili autorevolmente dibattuti.
Tra questi, un aspetto saliente è costituito dall'individuazione del giorno in cui inizia a decorrere il termine di prescrizione decennale per far valere tali diritti, ai sensi dell'art. 2935 cod. civ. ("la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere").
La giurisprudenza di merito, negli ultimi anni  - in particolare, dopo che la Cassazione ha affermato l'illegittimità della capitalizzazione trimestrale praticata dalle banche, è stata chiamata numerose volte a pronunciarsi sull'argomento e si è divisa, essenzialmente, tra due orientamenti.
Un orientamento ritiene che il termine di prescrizione decorra dalla chiusura del conto corrente, considerata la natura unitaria del contratto di conto corrente bancario, il quale darebbe luogo ad un unico rapporto giuridico, sicché la serie di accreditamenti ed addebiti costituirebbe un dato contabile, mentre è solo con la chiusura del conto che si stabilisce l'entità del credito e del debito delle parti.
Un diverso indirizzo afferma che la prescrizione decorra da ciascun addebito in conto corrente, poiché la relativa annotazione produrrebbe l'effetto di modificare il saldo e consentirebbe di esercitare il diritto di ripetizione.
In questo quadro sono intervenute le Sezioni Unite (Cass., S.U., 2 dicembre 2010, n. 24418), le quali hanno stabilito che, al fine di individuare il dies a quo della prescrizione, occorre distinguere tra il caso in cui il cliente gode di una apertura di credito (e perciò il versamento sul conto serve a ripristinare la provvista) ed il caso in cui il conto è scoperto o il versamento sia comunque extra fido (qui il versamento è un vero pagamento, con natura solutoria).
Nella prima ipotesi, ha giudicato la Corte di legittimità, il termine di prescrizione decorre dalla chiusura del conto, poiché i precedenti addebiti, appunto, non sono qualificabili tecnicamente come pagamenti; nella seconda ipotesi, invece, ogni versamento corrisponde ad un vero pagamento e come tale (ove fosse eseguito per effetto di una clausola nulla) produce immediatamente il diritto del cliente di chiederne la ripetizione, ed il termine di prescrizione di tale diritto, di conseguenza, inizia a decorrere subito.
Tale soluzione, seppure con le suddette distinzioni, dava un quadro finalmente solido in termini di certezza del diritto.
Ma, come la dottrina ha prontamente segnalato , il legislatore è intervenuto con una "particolarmente tempestiva previsione", mutando in modo radicale i termini della questione.
La norma cui si allude è l'art. 2, co. 61, del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, conv. con modif. dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10.
Il suo tenore è il seguente: "in ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'art. 2935 cod. civ. si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto".
Il senso della disposizione, così come colto da molte decisioni che l'hanno applicata (senza ravvisarne profili di illegittimità costituzionale), è che la prescrizione del diritto alla ripetizione inizia a decorrere, per ciascun addebito, dal momento in cui è avvenuta l'inerente annotazione in conto.
Il che si traduce nell'estinzione della gran parte delle pretese, specialmente in materia di anatocismo, atteso che in tale ambito, com'è noto, le controversie riguardano prevalentemente operazioni poste in essere negli anni '80 e '90 del secolo scorso, in relazione alla disciplina all'epoca vigente.
Taluni Giudici di merito, tuttavia, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale, in particolare censurando l'effetto retroattivo della norma, da cui sono scaturite nove ordinanze di rimessione alla Consulta.
Da qui l'ultimo capitolo della vicenda: la Corte Costituzionale, con sentenza del 5 aprile 2012, n. 78, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma sopra citata.
La Corte Costituzionale ha affermato che il principio di irretroattività della legge civile (art. 11 prel.) costituisce un valore fondamentale di civiltà giuridica e, pertanto, il legislatore può introdurre norme di interpretazione autentica, tali da incidere anche su situazioni preesistenti, solo se vi sia una situazione di obiettiva incertezza del dato normativo, oppure un contrasto giurisprudenziale irrisolto, o la necessità di recuperare il significato aderente all'originaria volontà del legislatore; e, comunque, sul presupposto che l'interpretazione autentica fornisca un significato già contenuto nella norma di legge interpretata, riconoscibile come una delle possibili letture del testo.
Sulla scorta di tale premessa la Consulta ha censurato la norma in questione, in quanto la stessa, derogherebbe con riferimento all'art2935 senza alcuna ragionevole giustificazione.
Da questa decisione si possono ora trarre due considerazioni di sintesi.
La prima è che per individuare il termine da cui decorre la prescrizione si ripristinano i criteri già emersi nella giurisprudenza precedente e sopra richiamati; dunque non si può fare riferimento alla norma dichiarata illegittima, con effetto (questo) certamente retroattivo, ossia valido anche per i giudizi pendenti, salvo il solo limite del giudicato (cfr. Cass., 6 maggio 2010, n. 10958).
La seconda considerazione è che, non solo vi è un "ripristino" degli orientamenti precedenti, ma vi è anzi un deciso rafforzamento dell'indirizzo maggioritario, per il quale la prescrizione decorre dalla chiusura del conto. Il contrario orientamento (prescrizione decorrente dai singoli addebiti), secondo la Corte Costituzionale, non può neppure ricondursi ad uno dei possibili significati dell'art. 2935 cod. civ.
Per ciò che attiene alla pattuizione di interessi passivi, l'Art.1284 commi 2° e 3° c.c. recita: "Allo stesso saggio (legale) si computano gli interessi convenzionali, se le parti non ne hanno determinato la misura. Gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto, altrimenti sono dovuti nella misura legale".
La L.154/1992, prima (artt. 2- 3- 4- 5- 6), ed il T.U. bancario n. 385 del 1993, poi, hanno introdotto obblighi generali di pubblicità e di pattuizione scritta delle condizioni contrattuali in materia bancaria e finanziaria, sancendo la nullità delle clausole di mero rinvio agli usi, per la determinazione dei tassi di interesse e di ogni altro prezzo e condizioni praticati, nonché delle clausole che prevedono tassi, prezzi, condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati, con un meccanismo di integrazione ex lege della clausola nulla, e stabilendo anche la necessità di comunicazioni specifiche al cliente - nei contratti di durata in cui sia stato convenuto, in una apposita clausola contrattuale, specificamente sottoscritta dal cliente, l'esercizio, da parte della banca, dello ius variandi dei tassi, dei prezzi e delle altre condizioni - delle variazioni a lui sfavorevoli, con diritto di recesso del medesimo cliente (art.118).
Lo ius variandi è stato comunque introdotto legislativamente solo con l'art.4 L.154/1992 (prima vi era solo di disposto di cui all'art.1283 c.c.). Viene quindi, con detta normativa, definitivamente sancita la nullità delle clausole per relationem determinative degli interessi ultralegali.
La Corte di Cassazione è intervenuta in diverse pronunce sulla problematica relativa alle clausole di mero rinvio agli usi di piazza, contenute nei contratti stipulati antecedentemente alla L.154/1992 ed al T.U. 385/1993 ed ancora in essere. All'art.7 delle norme generali regolanti il rapporto, riportate nel contratto, era infatti previsto che "gli interessi dovuti dal correntista, salvo patto diverso, si intendono determinati alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza e producono a loro volta interessi nella stessa misura".
Secondo l'orientamento oggi prevalente, la convenzione relativa agli interessi (nel regime anteriore alla L.154/192) deve ritenersi correttamente stipulata, ex art.1284 c.c., solo quando il relativo tasso risulti determinabile e controllabile in base a criteri, anche estrinseci rispetto al documento negoziale, univoci ed oggettivamente indicati, essendo nulla la clausola, delle condizioni generali di contratto, contenente un generico riferimento "alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito sulla piazza", ove non coordinata all'esistenza di vincolanti discipline fissate su larga scala nazionale con accordi interbancari che garantiscano, sin dall'atto della costituzione del rapporto, la totale assenza di discrezionalità nell'apprensione ed utilizzo del dato, vale a dire la misura del saggio.
In ogni caso tali clausole, stipulate anteriormente all'entrata in vigore della L.154/1992, sono divenute improduttive di ulteriori effetti, a partire dal 9/7/1992, data di entrata in vigore della nuova normativa, implicante espressamente la nullità delle clausole di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi di interesse, in quanto tale disciplina innovativa, se non incide sulla validità delle clausole contrattuali inserite in contratti già conclusi, per i principi regolanti le successioni delle leggi nel tempo, impedisce che esse possano continuare a produrre ulteriori effetti per l'avvenire nei rapporti ancora in corso.
Da notare che, di recente, la Suprema Corte (C.C. 4490/2002) ha ritenuto irrilevante la presenza di accordi di cartello interbancari, diretti a fissare i tassi di interesse attivi e passivi in modo vincolante in ambito comunitario, dovendo ritenersi detti accordi nulli in applicazione dell'art.2 della legge 287/199 che vieta le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente la concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante.
Risultano quindi nulle, anche relativamente ai contratti stipulati prima dell'entrata in vigore (giugno 1992) della L.154/1992, sia le clausole che non prevedono una specifica pattuizione scritta del tasso degli interessi, ma un generico rinvio agli usi di piazza, sia le clausole legittimanti l'esercizio da parte della banca di uno ius variandi in peius , rispetto al correntista, senza criteri di sufficiente, oggettiva e certa determinabilità del tasso applicato poi al rapporto. Alla declaratoria di nullità della clausola, consegue quindi l'applicazione dell'interesse legale ex art.1284 c.c.
Alla luce di quanto premesso, appare quanto mai opportuno prendere le mosse dalla citata sentenza delle S.U. del 2004 (n. 21095) , con la quale era stato statuito che la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi contenuta nei contratti predisposti dagli istituti di credito è nulla, perché non corrisponde ad un uso normativo. La materia, giova ribadire, è regolata dall'art. 1283 c.c., il quale dispone che "In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi".
Già nel 1999 erano comunque intervenute numerose pronunzie della Corte di Cassazione (Cass. n. 2374/99; n 3096/99; n. 3845/99), le quali, in sede di esegesi della richiamata disposizione, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con sentenze del ventennio precedente, hanno affermato il principio - reiteratamente confermato in altre ancora più recenti - secondo il quale "gli usi contrari", idonei ex art. 1283 a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo quelli "normativi" in senso tecnico, desumendone per l'effetto la nullità delle clausole bancarie anatocistiche, rispondendo la stipulazione delle medesime ad un uso meramente negoziale. Il nuovo corso giurisprudenziale era ormai stabile, ma fu comunque opportuno che anche le Sezioni Unite si pronunciassero: ogni dubbio era così da considerarsi, di conseguenza, eliminato e l'anatocismo da ritenersi illecito, produttivo dell'invalidità della relativa pattuizione e fonte dell'obbligo di rimborsare ai sensi dell'art. 2033 c.c. quanto trattenuto dall'istituto a tale titolo.
Una volta riconosciuto il diritto alla ripetizione delle somme trattenute dagli istituti per anatocismo, è sorta la questione relativa al termine di prescrizione del diritto alla rifusione del "maltolto".
In seguito alla virata giurisprudenziale del 1999 di cui si è detto, il legislatore è intervenuto con l'art. 25 d.lvo 4 agosto 1999 n. 342. Tale norma ha sostituito l'art 120 del d.lvo 1 settembre 1993 n. 385 (t.u.), disponendo, tra l'altro, che Il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CICR) dovesse stabilire modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria. Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturate, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera CICR del 9 febbraio 2000, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilirà le modalità e i tempi dell'adeguamento. In difetto di adeguamento le clausole divengono inefficaci e l'inefficacia può essere fatta valere solo dal cliente.
È quindi, come già cennato, intervenuta la Corte Costituzionale con sentenza 17 ottobre 2000 n. 425 che ha dichiarato l'illegittimità di tale ultimo comma. Il che, peraltro, non ha fatto venir meno quello precedente che demanda al CICR la formulazione della disciplina dell'anatocismo bancario. Tant'è che detto organo ha emanato la delibera 9 febbraio 2000, che consente, ma non retroattivamente, la capitalizzazione periodica degli interessi a determinate condizioni, le cui principali sono: che la periodicità della capitalizzazione sia la medesima per gli interessi attivi e per quelli passivi (diversamente da quanto avveniva in precedenza, perché una, la seconda, era trimestrale, mentre l'altra annuale); che la clausola sia espressamente approvata per iscritto.
Con sentenza 05 aprile 2012 n. 78, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 61, del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225 (c.d. Milleproroghe), convertito, con modificazioni, dalla l. 26 febbraio 2011, n. 10, il quale prevedeva che "In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'articolo 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione d'importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto".
Secondo la Corte, la norma censurata violava, con la sua efficacia retroattiva, il canone generale della ragionevolezza delle leggi (art. 3 Cost.). La stessa era, infatti, intervenuta sull'art. 2935 c.c. in assenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo, perché, in materia di decorrenza del termine di prescrizione relativo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, a parte un indirizzo del tutto minoritario della giurisprudenza di merito, si era ormai formato un orientamento maggioritario, che aveva trovato riscontro in sede di legittimità ed aveva condotto ad individuare nella chiusura del rapporto contrattuale o nel pagamento solutorio il dies a quo per il decorso di quel termine. La disposizione censurata, lungi dall'esprimere una soluzione ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili al citato art. 2935., derogava nettamente ad esso , innovando rispetto al testo previgente, senza peraltro alcuna ragionevole giustificazione. Per la Consulta l'efficacia retroattiva della deroga rendeva, per l'effetto, asimmetrico il rapporto contrattuale di conto corrente perché, retrodatando il decorso del termine di prescrizione, finiva per ridurre irragionevolmente l'arco temporale disponibile per l'esercizio dei diritti nascenti dal rapporto stesso. Con ciò veniva pregiudicata la posizione giuridica dei correntisti che, nel contesto giuridico anteriore all'entrata in vigore della norma denunziata, avevano avviato azioni dirette a ripetere somme illegittimamente addebitate loro.
Di qui la violazione dell'art. 3 Cost., perché la norma censurata, facendo retroagire la disciplina in esso prevista, non rispettava i principi generali di eguaglianza e ragionevolezza.
E così l'abusivo comportamento della banche di capitalizzare trimestralmente gli interessi passivi maturati a carico del cliente, e di computare anche su questi quelli del trimestre successivo ha trovato un'ulteriore censura.
Da quanto esposto discende che, essendo la materia stata regolata dal citato provvedimento espressamente previsto dalla legge, la questione si pone ormai per il periodo antecedente l'entrata in vigore dello stesso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 22 febbraio 2000 n. 43. Per quello successivo vi è, infatti, soltanto da verificare se l'istituto si sia adeguato alla normativa. Per quello precedente non vi sono dubbi in merito alla decorrenza del termine di prescrizione del diritto di ripetizione. Secondo le Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. n. 24418/10) ed oggi anche per la Corte Costituzionale il dies a quo coincide con la chiusura del conto. In altre parole, il termine decennale per chiedere la restituzione va fatto partire da quel momento,senza che abbia alcuna rilevanza il fatto che banca, dal 9 febbraio 2000 in poi, si sia uniformata alle disposizioni di cui si è detto. Potrà chiedersi tutto ciò che è stato trattenuto dall'apertura del conto, o meglio da quando quest'ultimo è stato in rosso, fino al 2000.
Resta a questo punto da chiedersi chi possa avvalersi delle pronunzie della Suprema Corte e della Consulta. La restituzione degli importi illegittimamente trattenuti dall'istituto può essere chiesta da chiunque, persona fisica, associazione, fondazione o società abbia intrattenuto con una banca un rapporto produttivo d'interessi passivi. Insomma, l'azione di ripetizione può essere intrapresa non solo da consumatori, ma anche da enti.
Per quanto riguarda il tipo contrattuale, da cui esso scaturisce, può trattarsi sia di conti correnti, sia di mutui, sia di contratti quali le anticipazioni su crediti: basta, come detto, che il medesimo fosse "in rosso", cioè passivo. Caio, prima di adire le vie legali, invierà per mio tramite una raccomandata a.r. alla banca con la richiesta di restituzione degli importi trattenuti in violazione dei citati precetti.

Da: vera8011/12/2012 14:13:23
ragazzi a che ora consegna napoli?

Da: stella21 11/12/2012 14:13:40
Ma quella scritto da Falstaff potrebbe essere una giusta soluzione???scusate ma non sono del settore....

Da: ICLOUD11/12/2012 14:16:09
cass 4917 non esiste avete sbagliato l'anno!!!!Possibile che sia del 62?

Da: AspriranteAvvocato201211/12/2012 14:17:38
A CZ a che ora si consegna?


Da: franci844 11/12/2012 14:19:22
per chi nn capisce niente come me potete postare la prima traccia pronta da inviare??????

GRAZIE

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