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ESAME SCRITTO 2010
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Da: Vincenzo22 15/12/2010 11:42:08
ragazzi ma sulla seconda traccia? niente?

Da: paoletta8515/12/2010 11:42:49
per la seconda traccia la sentenza è la 28218/2010 per caso???

Da: salerno15/12/2010 11:46:58
ALE INVIAMI IL NUM DELLA SECONDA SENTENZA, PER FAVORE

Da: unpodiconfusione15/12/2010 11:50:45
LA CORTE COSTITUZIONALE                      
composta dai signori: Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN,  Presidente  -  Avv.
ORONZO REALE -  Dott.  BRUNETTO  BUCCIARELLI  DUCCI  -  Avv.  ALBERTO
MALAGUGINI - Prof. LIVIO PALADIN - Prof. ANTONIO LA PERGOLA  -  Prof.
VIRGILIO ANDRIOLI - Prof. GIUSEPPE FERRARI - Prof. GIOVANNI  CONSO  -
Prof.  ETTORE  GALLO  -  Dott.  ALDO  CORASANITI  -  Prof.   GIUSEPPE
BORZELLINO - Dott. FRANCESCO GRECO, Giudici,                        
ha pronunciato la seguente                                          
                              SENTENZA                              
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 4 d.P.R. 30
giugno  1965,  n.  1124  (testo  unico   delle    disposizioni    per
l'assicurazione  contro  gli  infortuni  sul  lavoro  e  le  malattie
professionali) promossi con le seguenti ordinanze:                  
1) ordinanza emessa l'8 novembre 1977 dal  Tribunale  di  Milano  nel
procedimento civile vertente tra Marcoz Alessio e S.p.a. Istituto  De
Angeli iscritta al n. 585 del registro ordinanze  1977  e  pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 60 dell'anno 1978;     
2) ordinanza emessa il 27 novembre 1978 dal Pretore di  Piacenza  nel
procedimento civile vertente tra Filipponi Giovanni  e  R.D.B.  Putin
Company S.p.a. iscritta al  n.  36  del  registro  ordinanze  1979  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 80  dell'anno
1979;                                                               
3) ordinanza emessa il 3 aprile  1984  dal  Pretore  di  Firenze  nel
procedimento  civile  vertente  tra  Colella  Michele  e   I.N.A.I.L.
iscritta al n. 1235 del registro ordinanze 1984  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 335 dell'anno 1984.          
Visti gli atti di costituzione della  S.p.a.  Istituto  De  Angeli  e
dell'I.N.A.I.L. nonché gli atti  di  intervento  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri;                                             
udito nell'udienza pubblica del 21 maggio 1985  il  Giudice  relatore
Giuseppe Ferrari;                                                   
uditi l'avvocato dello Stato Giorgio Zagari  per  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri e l'Avv. Carlo Monaco per l'I.N.A.I.L..      

(Torna su   ) Fatto
Ritenuto in fatto:
1. - Con due ordinanze emesse dal Tribunale di Milano in data 8 novembre 1977 e dal Pretore di Piacenza il 27 novembre 1978, nel corso di distinti procedimenti nei quali gli attori chiedevano la condanna degli ex datori di lavoro alla costituzione del rapporto assicurativo presso gli enti previdenziali ed assistenziali ovvero al risarcimento dei danni ex art. 2116 cod. civ. per omesso versamento di quanto dovuto all'I.N.P.S., viene denunciato, in riferimento agli artt. 3, 35 e 38 Cost., l'art. 1 del r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827, "nella parte in cui, limitando la sfera d'azione dell'I.N.P.S. al territorio della Repubblica, non consente la tutela previdenziale, ad opera dello stesso istituto, dei rapporti di lavoro che, pur sorti in Italia, abbiano (stabile) esecuzione all'estero".
In entrambe le ordinanze si espone che il datore di lavoro aveva fondatamente eccepito l'insussistenza del proprio obbligo ex lege a versare contributi di previdenza ed assistenza presso istituti previdenziali operanti nell'ambito del territorio nazionale a favore di lavoratori che, pur assunti in Italia, avevano tuttavia prestato la propria attività lavorativa interamente all'estero, nella fattispecie in paesi (Thailandia e Libia) con i quali non risultavano stipulati accordi internazionali in materia di assicurazione obbligatoria e di sicurezza sociale. Il Pretore di Piacenza ritiene poi irrilevante che la società alle dipendenze della quale l'attore aveva prestato la propria opera avesse attivato una convenzione facoltativa a carattere privatistico con il Ministero del lavoro e della previdenza sociale (secondo quanto previsto dalle circolari n. 142 del 15 luglio 1965 e n. 226 dell'8 ottobre 1969) versando contributi all'I.N.P.S. su una retribuzione mensile convenzionale di lire 80.000 a fronte di quella effettiva di lire 800.000.
La limitazione della sfera di azione dell'I.N.P.S. al territorio della Repubblica, così come posta dalla disposizione denunciata, sembra ai giudici a quibus contrastare con l'art. 3 Cost. per la disparità di trattamento fra lavoratori in ipotesi dipendenti dalla stessa persona fisica o giuridica a seconda che prestino la propria opera in Italia o all'estero in un paese non vincolato - come nei casi di specie - da accordi internazionali in tema di sicurezza sociale; con l'art. 35, commi primo e quarto, Cost., che impone la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni e, specificamente, del lavoro italiano all'estero; con l'art. 38, comma secondo, Cost., che proclama il diritto di ogni lavoratore alla previsione ed assicurazione di mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia indipendentemente da ogni considerazione dal luogo in cui l'attività lavorativa è prestata.
2. - Il Pretore di Firenze - adito da un lavoratore dipendente da una società italiana ed assunto in Italia, il quale aveva convenuto in giudizio l'I.N.A.I.L. chiedendo il riconoscimento della natura professionale della bronco-pneumopatia contratta nello svolgimento delle mansioni di tubista saldatore in cantieri posti in Irak, Libia ed Egitto, con la conseguente condanna dell'istituto convenuto a corrispondergli la relativa rendita - con ordinanza in data 3 aprile 1984 ha invece sollevato d'ufficio, in riferimento agli artt. 35, comma quarto, e 38, comma secondo, Cost. questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 4 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 "in quanto non prevedono l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali a favore del lavoratore italiano operante all'estero alle dipendenze di impresa italiana".
Premesso che l'I.N.A.I.L. aveva fondatamente resistito in giudizio richiamandosi al principio della territorialità delle norme pubblicistiche sulle assicurazioni sociali obbligatorie, all'assenza, nel caso di specie, di convenzioni nonché delle condizioni previste dalle disposizioni interne emanate dall'I.N.A.I.L. stesso allo scopo di dare la massima estensione possibile alla tutela assicurativa (condizioni consistenti nella temporaneità delle lavorazioni svolte all'estero, nel loro stretto collegamento con quelle svolte di norma ed essenzialmente in Italia, nello svolgimento della parte prevalente del rapporto di lavoro e della lavorazione in Italia), il giudice a quo osserva che giurisprudenza e dottrina effettivamente non si discostano, allo stato dalla posizione fatta propria dall'istituto convenuto, tal che l'ordinamento non sembra imporre l'assicurazione obbligatoria da parte dell'I.N.A.I.L. contro gli infortuni e le malattie professionali a favore dei lavoratori italiani, dipendenti di imprese nazionali, i quali operino costantemente o prevalentemente all'estero.
La descritta situazione normativa - continua l'ordinanza - appare in contrasto coi principi posti dagli indicati parametri costituzionali i quali, secondo quanto ritenuto anche dai più attenti commentatori del testo fondamentale, impongono allo Stato compiti di tutela che non possono esaurirsi sul piano delle relazioni internazionali, concernenti per di più il caso dei lavoratori emigrati che abbiano stabilito all'estero la propria definitiva residenza e che si siano occupati presso un datore di lavoro straniero e non anche quello del lavoratore che - come nel caso di specie - svolga il proprio lavoro a favore dell'economia nazionale ed abbia mantenuto il legame con la madre patria, onde è da presumersi che l'eventuale occorrenza delle prestazioni previdenziali ed assicurative si manifesti per lui nel territorio nazionale. Sembra dunque incongruo "in presenza della proclamazione costituzionale sulla tutela del lavoro italiano (tale a tutti gli effetti nel caso di specie, per la cittadinanza del lavoratore a nazionalità dell'impresa, l'inerenza della lavorazione all'economia nazionale), come specificazione della più generale tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art. 35, comma primo, Cost.), che la copertura assicurativa contro i rischi incontrati da simile lavoratore sia rilasciata a forme di assicurazione privata", pur nella specie poste in essere dalla società datrice di lavoro.
Né la negazione della pubblica tutela offerta dall'assicurazione obbligatoria può trovare giustificazione nella difficoltà degli accertamenti concernenti le cause dell'infortunio o della malattia. È invero diffusamente riaffermata l'esigenza del potenziamento e della revisione degli strumenti diretti di assistenza e di sicurezza sociale dei lavoratori italiani all'estero sembrando il principio di sicurezza sociale posto dall'art. 38, comma secondo, Cost. gravemente limitato da una lettura che ne circoscriva gli effetti al solo lavoro svolto entro i patrii confini e non rinvenendosi altro valore costituzionale che giustifichi la discriminazione in danno del lavoratore che, per le dimensioni di mercato dello specifico settore ovvero per le caratteristiche del prodotto abbia necessità di spostarsi all'estero.
3. - Nel giudizio promosso dal Pretore di Firenze si è costituito l'I.N.A.I.L. riaffermando la legittimità costituzionale delle disposizioni denunciate.
4. - In quello promosso dal Tribunale di Milano con ordinanza in data 8 novembre 1977 si è costituito l'Istituto De Angeli S.p.a., convenuto nel giudizio a quo, che ha instato per la declaratoria di inammissibilità della sollevata questione di legittimità costituzionale, peraltro svolgendo argomentazioni esclusivamente a sostegno della sua infondatezza.
Si sostiene in atto di costituzione che dalla natura sicuramente pubblicistica dell'assicurazione sociale e, in genere, delle varie forme previdenziali obbligatorie discende l'ovvia conseguenza, in base all'elementare principio della sovranità territoriale degli Stati, che le relative norme sono destinate a spiegare efficacia esclusivamente entro quell'ambito spaziale, oltre il quale, tra l'altro, l'Istituto assistenziale si troverebbe in una situazione di materiale impossibilità a fornire le prestazioni in ipotesi dovute. Alla stregua di tali considerazioni si esclude che la denunciata disposizione di cui all'art. 1, r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 ingeneri alcuna disparità di trattamento in violazione dell'art. 3 Cost. entro l'ambito della propria sfera di applicazione, che non può essere altro che quello del territorio nazionale. E, del pari, che infranga i precetti di cui agli artt. 35, comma primo e quarto, e 38, comma secondo, Cost., entrambi i quali si riferiscono ad obblighi da soddisfarsi da enti previdenziali italiani sul presupposto che il lavoro si svolga in Italia. L'assicurazione e la previdenza sociale dei lavoratori all'estero potrebbe essere, in definitiva, regolata solo da accordi internazionali, in difetto dei quali non potrebbe legittimamente farsi carico agli enti assistenziali e previdenziali italiani di assumere oneri incompatibili con i propri fini d'istituto.
5. - L'Avvocatura dello Stato, intervenuta in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri nei giudizi promossi dal Tribunale di Milano e dal Pretore di Piacenza ha chiesto che le due identiche questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1 del r.d.l. n. 1827 del 1935 vengano dichiarate infondate.
Premesso che il rapporto giuridico previdenziale ha caratteristiche autonome e distinte dal rapporto di lavoro e che è regolato ex lege con norme di diritto pubblico, si osserva in atto di intervento che è del tutto conforme ai principi che la legge sulla previdenza e sull'assicurazione sociale, in quanto legge di ordine pubblico, non si sottragga alla regola generale della territorialità per quanto riguarda la sua sfera di applicazione nello spazio. Logico corollario è che al rapporto di lavoro sorto in Italia che, però, abbia esecuzione all'estero si applichino le norme previdenziali vigenti nel Paese nel cui territorio l'attività è prestata.
Né la possibile diversità di trattamento previdenziale rispetto al lavoratore che abbia svolto la propria attività in Italia integra alcuna disparità costituzionalmente rilevante attese le indubbie differenze di carattere oggettivo fra le due situazioni; differenze consistenti nella diversità del luogo d'esecuzione del rapporto lavorativo, nella diversa entità dei contributi previdenziali versati, nella diversa retribuzione percepita dal lavoratore a parità di lavoro prestato. Neppure continua l'Avvocatura - è fondatamente ipotizzabile alcuna violazione degli artt. 35 e 38 Cost., giacché la tutela cui fanno riferimento le due norme costituzionali non può non trovare il proprio limite territoriale in quello spaziale della sovranità dello Stato italiano, come del resto avviene per tutte le forme di tutela garantite dalla Costituzione (si pensi, ad esempio, al diritto all'istruzione).
Sotto altro profilo l'Avvocatura nega poi che la addotta carenza di tutela previdenziale sia correttamente ricollegabile alla norma denunziata, che è poi quella istitutiva dell'I.N.P.S., così per certo verso prospettando l'inammissibilità della questione così come sollevata. Posto invero che il principio della territorialità dell'azione pubblica è una diretta conseguenza del principio di sovranità nazionale e di pacifica convivenza fra gli Stati (art. 10 Cost.), qualsivoglia forma di tutela previdenziale pubblica per i rapporti di lavoro che abbiano esecuzione all'estero dovrebbe essere perseguita con strumenti diversi da quelli previsti per i rapporti di lavoro svolgentisi sul territorio nazionale; e ciò in quanto l'ente pubblico preposto a tale funzione non potrebbe in nessun caso esercitare i propri poteri al di là del limite territoriale dello Stato.
Da ultimo - osserva l'Avvocatura - va ricordato che l'attuale assetto normativo contempla delle forme di previdenza anche per i periodi di lavoro trascorsi all'estero (art. 51, comma secondo, l. 30 aprile 1969, n. 153, come modificato con l. 16 aprile 1974 n. 114), sicché appare evidente, da un lato, come il preteso difetto di tutela non sussista, o quantomeno non nel grado lamentato, e, dall'altro, che esso non è in ogni caso ricollegabile al limite territoriale dell'azione dell'I.N.P.S., posto dalla norma denunciata con disposizione meramente dichiarativa e conseguenziale al principio di sovranità.
Alla pubblica udienza del 21 maggio 1985 le parti ribadivano i propri assunti insistendo per l'accoglimento delle rispettive conclusioni.
(Torna su   ) Diritto
Considerato in diritto:
1. - Le tre ordinanze in epigrafe, attenendo tutte al problema della tutela dei lavoratori italiani operanti alle dipendenze di una impresa italiana in Stati non appartenenti alla Comunità europea - su cui questa Corte si è già pronunciata con la sentenza n. 199/1985 - e con i quali non esiste alcuna convenzione al riguardo, vanno riunite e decise con unica sentenza.
2. - In base al principio della territorialità della legislazione sociale, che è un portato della natura pubblicistica delle relative norme, la disciplina italiana in tema di previdenza e di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è pacificamente ritenuta operativa solo nell'ambito del territorio nazionale. Reputando i giudici a quibus che questo sistema si risolva in violazione degli artt. 3, 35 e 38 Cost. ed individuando tale violazione negli artt. 1 r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 ("perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale") ed 1 e 4 d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 ("testo unico delle disposizioni per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali"), chiedono che ne sia dichiarata l'illegittimità costituzionale, nonostante che né il r.d.l. 1827/1935, né, meno ancora, il d.P.R. 1124/1965, risultino formulati in maniera da impedire una interpretazione meno rigida. Ma poiché le ordinanze in esame, adeguandosi al diritto vivente, imputano all'impugnata disciplina - Tribunale di Milano (r.o. 585/1977) e Pretore di Piacenza (r.o. 36/1979) - di limitare la sfera di azione dell'Istituto nazionale per la previdenza sociale (Inps) al territorio della Repubblica e - Pretore di Firenze (r.o. 1235/1984) - di non avere previsto, a favore dei lavoratori italiani operanti all'estero alle dipendenze di impresa italiana, l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, questa Corte è tenuta a pronunciarsi sulla asserita violazione degli invocati principi costituzionali da parte delle norme impugnate.
3. - È testualmente scritto in Costituzione (art. 35, u.c.) che "la Repubblica... tutela il lavoro italiano all'estero". La chiarezza e perentorietà del dettato non si prestano ad alcuna elusione, ad alcuna distorsione, ad alcuna dilazione, e non lasciano perciò alcun margine di dubbio sulla fondatezza della questione in esame. Del resto, il problema è ammesso ed anche pienamente avvertito dal potere politico. Sollevato già nel 1970 dal Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro in seguito ad un'indagine conoscitiva sull'emigrazione italiana, se ne è tentata varie volte la soluzione in sede legislativa, sia su iniziativa parlamentare, sia su iniziativa governativa. Una di queste era stata addirittura approvata, il 27 aprile 1983, dalle commissioni riunite "affari esteri" e "lavoro" della Camera dei deputati in sede referente, ma decadde in seguito allo scioglimento anticipato delle Camere. E nella presente legislatura, oltre a tre proposte di legge, risulta presentato, il 4 marzo 1985, un disegno di legge governativo, - recante appunto "norme per la tutela dei lavoratori italiani dipendenti da imprese operanti all'estero nei paesi extracomunitari" -, nella cui relazione si legge, fra l'altro, che la "regolamentazione della materia" ivi prevista ha lo scopo di permettere "una più ampia tutela - nello spirito dei valori fondamentali affermati dalla Costituzione - di tale categoria di lavoratori" e che l'appartenenza allo Stato italiano, sia del datore di lavoro, sia del lavoratore, sembra sufficiente per "esigere l'osservanza di condizioni di lavoro conformi a quelle inderogabili stabilite" nel nostro ordinamento.
4. - Il principio della tutela del lavoro italiano all'estero è uno dei valori fondamentali proclamati in Costituzione, da cui dipende l'inderogabilità delle condizioni di lavoro, come del resto riconosce il citato disegno di legge governativo. La questione deve, quindi, dirsi fondata.
È bensì vero - lo mostra con tutta evidenza il più volte menzionato disegno di legge governativo - che solo il legislatore è in grado di dettare una compiuta disciplina del lavoro italiano all'estero - stanti la complessità ed il tecnicismo dei problemi che ne nascono -, ma è altrettanto vero che questa Corte, istituita a garanzia dell'osservanza del sistema costituzionale, non può sottrarsi, quando sia denunciata la violazione di un valore fondamentale, al suo indeclinabile dovere di riconoscerla e sanzionarla. La Corte non ignora che sono numerosi e tutt'altro che semplici gli inconvenienti i quali hanno sinora ritardato la soluzione del problema in sede legislativa, nonché impedito di stipulare convenzioni di sicurezza sociale rispettose dei precetti costituzionali con tutti gli Stati, ove prestano la loro opera lavoratori italiani, e tuttavia, a fronte del precetto costituzionale, non può dichiarare che gli inconvenienti giustifichino la carenza di protezione sociale per il lavoratore italiano che presti la sua opera all'estero alle dipendenze di un'impresa italiana. Ovviamente, esulano dal thema decidendum le situazioni di lavoratori italiani, dipendenti da ditte italiane operanti in Stati esteri con i quali la Repubblica italiana ha stipulato apposite convenzioni di protezione sociale; impregiudicato restando, altrettanto ovviamente, il giudizio sulla conformità delle convenzioni medesime al dettato costituzionale.
(Torna su   ) P.Q.M.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 1 r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 ("perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale") ed 1 e 4 d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 ("testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali"), nelle parti in cui non prevedono le assicurazioni obbligatorie a favore del lavoratore italiano operante all'estero alle dipendenze di impresa italiana.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 dicembre 1985.
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 30 DIC. 1985

Da: xxxx15/12/2010 11:51:00
semino, matanto vanno tutti in prescrizione...basta un buon avvocato! ahahahahah

Da: barbyby15/12/2010 11:51:10
ragzzi...le sent della 2 traccia? help

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Da: xxx15/12/2010 11:51:39
l'art 612bis cd. Stalking, ossia  Atti persecutori :> 
Il bene giuridico protetto è la libertà morale; tuttavia con riferimento ai casi in cui la condotta criminosa determini nella vittima uno stato di disequilibrio psicologico, l'interesse tutelato tende a coincidere con l'incolumità individuale: l'illecito in parola deve dunque qualificarsi come reato, eventualmente, plurioffensivo, cioè può riguardare + beni giuridici.
Soggetto attivo è chiunque; trattasi dunque di reato comune.
La condotta tipica consiste nella reiterazione di comportamenti minacciosi art. 612, o molesti art. 660cp., tali da determinare nella vittima  "un grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di una persona legata alla medesima da relazione sentimentale affettiva ovvero da costringere la stessa ad alterare le proprie abitudini di vita".
Il delitto in esame è costruito secondo lo schema del reato di evento ;
l'elemento soggettivo è il dolo generico;pertanto il legislatore richiede che l'agente si rappresenti e voglia anche l'evento, quale conseguenza della sua azione.
Il reato si consuma nel momento in cui si verifica , quale effetto delle reiterate condotte minacciose o moleste, uno o più degli eventi tipici previsti dalla norma.
L'illecito evoca pertanto la figura del reato abituale, pur discostandosi da tale modello per la previsione di un evento tipico.
Il tentativo è configurabile con riferimento a tutti quei casi in cui le condotte vessatorie, pur se ripetute, non raggiungono cmq la soglia dell'abitualità.

Da: T&D15/12/2010 11:52:00
Mi dite la sentenza della seconda traccia!  perfavoreeeeeeeeee

Da: la smettete?15/12/2010 11:52:24
ma avete 14 anni?
lo sapete che i candidati hanno relativamente poche ore?
alloraaaaa
PRIMA DI TUTTO...
basta minacce e spam di altri siti.
POI PER EVITARE DI FARE CONFUSIONE tra LA PRIMA e lA Seconda traccia... quando scrivete le sentenze specificatelo.

ALLORA....

ESEMPIO!

io sto facendo la seconda traccia....
e ho trovato la sentenza 2810|10

voi avete altre sentenze per questa SECONDA TRACCIA???

Da: unpodiconfusione15/12/2010 11:52:33
LA CORTE COSTITUZIONALE                      
composta dai signori: Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN,  Presidente  -  Avv.
ORONZO REALE -  Dott.  BRUNETTO  BUCCIARELLI  DUCCI  -  Avv.  ALBERTO
MALAGUGINI - Prof. LIVIO PALADIN - Prof. ANTONIO LA PERGOLA  -  Prof.
VIRGILIO ANDRIOLI - Prof. GIUSEPPE FERRARI - Prof. GIOVANNI  CONSO  -
Prof.  ETTORE  GALLO  -  Dott.  ALDO  CORASANITI  -  Prof.   GIUSEPPE
BORZELLINO - Dott. FRANCESCO GRECO, Giudici,                        
ha pronunciato la seguente                                          
                              SENTENZA                              
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 4 d.P.R. 30
giugno  1965,  n.  1124  (testo  unico   delle    disposizioni    per
l'assicurazione  contro  gli  infortuni  sul  lavoro  e  le  malattie
professionali) promossi con le seguenti ordinanze:                  
1) ordinanza emessa l'8 novembre 1977 dal  Tribunale  di  Milano  nel
procedimento civile vertente tra Marcoz Alessio e S.p.a. Istituto  De
Angeli iscritta al n. 585 del registro ordinanze  1977  e  pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 60 dell'anno 1978;     
2) ordinanza emessa il 27 novembre 1978 dal Pretore di  Piacenza  nel
procedimento civile vertente tra Filipponi Giovanni  e  R.D.B.  Putin
Company S.p.a. iscritta al  n.  36  del  registro  ordinanze  1979  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 80  dell'anno
1979;                                                               
3) ordinanza emessa il 3 aprile  1984  dal  Pretore  di  Firenze  nel
procedimento  civile  vertente  tra  Colella  Michele  e   I.N.A.I.L.
iscritta al n. 1235 del registro ordinanze 1984  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 335 dell'anno 1984.          
Visti gli atti di costituzione della  S.p.a.  Istituto  De  Angeli  e
dell'I.N.A.I.L. nonché gli atti  di  intervento  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri;                                             
udito nell'udienza pubblica del 21 maggio 1985  il  Giudice  relatore
Giuseppe Ferrari;                                                   
uditi l'avvocato dello Stato Giorgio Zagari  per  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri e l'Avv. Carlo Monaco per l'I.N.A.I.L..      

(Torna su   ) Fatto
Ritenuto in fatto:
1. - Con due ordinanze emesse dal Tribunale di Milano in data 8 novembre 1977 e dal Pretore di Piacenza il 27 novembre 1978, nel corso di distinti procedimenti nei quali gli attori chiedevano la condanna degli ex datori di lavoro alla costituzione del rapporto assicurativo presso gli enti previdenziali ed assistenziali ovvero al risarcimento dei danni ex art. 2116 cod. civ. per omesso versamento di quanto dovuto all'I.N.P.S., viene denunciato, in riferimento agli artt. 3, 35 e 38 Cost., l'art. 1 del r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827, "nella parte in cui, limitando la sfera d'azione dell'I.N.P.S. al territorio della Repubblica, non consente la tutela previdenziale, ad opera dello stesso istituto, dei rapporti di lavoro che, pur sorti in Italia, abbiano (stabile) esecuzione all'estero".
In entrambe le ordinanze si espone che il datore di lavoro aveva fondatamente eccepito l'insussistenza del proprio obbligo ex lege a versare contributi di previdenza ed assistenza presso istituti previdenziali operanti nell'ambito del territorio nazionale a favore di lavoratori che, pur assunti in Italia, avevano tuttavia prestato la propria attività lavorativa interamente all'estero, nella fattispecie in paesi (Thailandia e Libia) con i quali non risultavano stipulati accordi internazionali in materia di assicurazione obbligatoria e di sicurezza sociale. Il Pretore di Piacenza ritiene poi irrilevante che la società alle dipendenze della quale l'attore aveva prestato la propria opera avesse attivato una convenzione facoltativa a carattere privatistico con il Ministero del lavoro e della previdenza sociale (secondo quanto previsto dalle circolari n. 142 del 15 luglio 1965 e n. 226 dell'8 ottobre 1969) versando contributi all'I.N.P.S. su una retribuzione mensile convenzionale di lire 80.000 a fronte di quella effettiva di lire 800.000.
La limitazione della sfera di azione dell'I.N.P.S. al territorio della Repubblica, così come posta dalla disposizione denunciata, sembra ai giudici a quibus contrastare con l'art. 3 Cost. per la disparità di trattamento fra lavoratori in ipotesi dipendenti dalla stessa persona fisica o giuridica a seconda che prestino la propria opera in Italia o all'estero in un paese non vincolato - come nei casi di specie - da accordi internazionali in tema di sicurezza sociale; con l'art. 35, commi primo e quarto, Cost., che impone la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni e, specificamente, del lavoro italiano all'estero; con l'art. 38, comma secondo, Cost., che proclama il diritto di ogni lavoratore alla previsione ed assicurazione di mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia indipendentemente da ogni considerazione dal luogo in cui l'attività lavorativa è prestata.
2. - Il Pretore di Firenze - adito da un lavoratore dipendente da una società italiana ed assunto in Italia, il quale aveva convenuto in giudizio l'I.N.A.I.L. chiedendo il riconoscimento della natura professionale della bronco-pneumopatia contratta nello svolgimento delle mansioni di tubista saldatore in cantieri posti in Irak, Libia ed Egitto, con la conseguente condanna dell'istituto convenuto a corrispondergli la relativa rendita - con ordinanza in data 3 aprile 1984 ha invece sollevato d'ufficio, in riferimento agli artt. 35, comma quarto, e 38, comma secondo, Cost. questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 4 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 "in quanto non prevedono l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali a favore del lavoratore italiano operante all'estero alle dipendenze di impresa italiana".
Premesso che l'I.N.A.I.L. aveva fondatamente resistito in giudizio richiamandosi al principio della territorialità delle norme pubblicistiche sulle assicurazioni sociali obbligatorie, all'assenza, nel caso di specie, di convenzioni nonché delle condizioni previste dalle disposizioni interne emanate dall'I.N.A.I.L. stesso allo scopo di dare la massima estensione possibile alla tutela assicurativa (condizioni consistenti nella temporaneità delle lavorazioni svolte all'estero, nel loro stretto collegamento con quelle svolte di norma ed essenzialmente in Italia, nello svolgimento della parte prevalente del rapporto di lavoro e della lavorazione in Italia), il giudice a quo osserva che giurisprudenza e dottrina effettivamente non si discostano, allo stato dalla posizione fatta propria dall'istituto convenuto, tal che l'ordinamento non sembra imporre l'assicurazione obbligatoria da parte dell'I.N.A.I.L. contro gli infortuni e le malattie professionali a favore dei lavoratori italiani, dipendenti di imprese nazionali, i quali operino costantemente o prevalentemente all'estero.
La descritta situazione normativa - continua l'ordinanza - appare in contrasto coi principi posti dagli indicati parametri costituzionali i quali, secondo quanto ritenuto anche dai più attenti commentatori del testo fondamentale, impongono allo Stato compiti di tutela che non possono esaurirsi sul piano delle relazioni internazionali, concernenti per di più il caso dei lavoratori emigrati che abbiano stabilito all'estero la propria definitiva residenza e che si siano occupati presso un datore di lavoro straniero e non anche quello del lavoratore che - come nel caso di specie - svolga il proprio lavoro a favore dell'economia nazionale ed abbia mantenuto il legame con la madre patria, onde è da presumersi che l'eventuale occorrenza delle prestazioni previdenziali ed assicurative si manifesti per lui nel territorio nazionale. Sembra dunque incongruo "in presenza della proclamazione costituzionale sulla tutela del lavoro italiano (tale a tutti gli effetti nel caso di specie, per la cittadinanza del lavoratore a nazionalità dell'impresa, l'inerenza della lavorazione all'economia nazionale), come specificazione della più generale tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art. 35, comma primo, Cost.), che la copertura assicurativa contro i rischi incontrati da simile lavoratore sia rilasciata a forme di assicurazione privata", pur nella specie poste in essere dalla società datrice di lavoro.
Né la negazione della pubblica tutela offerta dall'assicurazione obbligatoria può trovare giustificazione nella difficoltà degli accertamenti concernenti le cause dell'infortunio o della malattia. È invero diffusamente riaffermata l'esigenza del potenziamento e della revisione degli strumenti diretti di assistenza e di sicurezza sociale dei lavoratori italiani all'estero sembrando il principio di sicurezza sociale posto dall'art. 38, comma secondo, Cost. gravemente limitato da una lettura che ne circoscriva gli effetti al solo lavoro svolto entro i patrii confini e non rinvenendosi altro valore costituzionale che giustifichi la discriminazione in danno del lavoratore che, per le dimensioni di mercato dello specifico settore ovvero per le caratteristiche del prodotto abbia necessità di spostarsi all'estero.
3. - Nel giudizio promosso dal Pretore di Firenze si è costituito l'I.N.A.I.L. riaffermando la legittimità costituzionale delle disposizioni denunciate.
4. - In quello promosso dal Tribunale di Milano con ordinanza in data 8 novembre 1977 si è costituito l'Istituto De Angeli S.p.a., convenuto nel giudizio a quo, che ha instato per la declaratoria di inammissibilità della sollevata questione di legittimità costituzionale, peraltro svolgendo argomentazioni esclusivamente a sostegno della sua infondatezza.
Si sostiene in atto di costituzione che dalla natura sicuramente pubblicistica dell'assicurazione sociale e, in genere, delle varie forme previdenziali obbligatorie discende l'ovvia conseguenza, in base all'elementare principio della sovranità territoriale degli Stati, che le relative norme sono destinate a spiegare efficacia esclusivamente entro quell'ambito spaziale, oltre il quale, tra l'altro, l'Istituto assistenziale si troverebbe in una situazione di materiale impossibilità a fornire le prestazioni in ipotesi dovute. Alla stregua di tali considerazioni si esclude che la denunciata disposizione di cui all'art. 1, r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 ingeneri alcuna disparità di trattamento in violazione dell'art. 3 Cost. entro l'ambito della propria sfera di applicazione, che non può essere altro che quello del territorio nazionale. E, del pari, che infranga i precetti di cui agli artt. 35, comma primo e quarto, e 38, comma secondo, Cost., entrambi i quali si riferiscono ad obblighi da soddisfarsi da enti previdenziali italiani sul presupposto che il lavoro si svolga in Italia. L'assicurazione e la previdenza sociale dei lavoratori all'estero potrebbe essere, in definitiva, regolata solo da accordi internazionali, in difetto dei quali non potrebbe legittimamente farsi carico agli enti assistenziali e previdenziali italiani di assumere oneri incompatibili con i propri fini d'istituto.
5. - L'Avvocatura dello Stato, intervenuta in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri nei giudizi promossi dal Tribunale di Milano e dal Pretore di Piacenza ha chiesto che le due identiche questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1 del r.d.l. n. 1827 del 1935 vengano dichiarate infondate.
Premesso che il rapporto giuridico previdenziale ha caratteristiche autonome e distinte dal rapporto di lavoro e che è regolato ex lege con norme di diritto pubblico, si osserva in atto di intervento che è del tutto conforme ai principi che la legge sulla previdenza e sull'assicurazione sociale, in quanto legge di ordine pubblico, non si sottragga alla regola generale della territorialità per quanto riguarda la sua sfera di applicazione nello spazio. Logico corollario è che al rapporto di lavoro sorto in Italia che, però, abbia esecuzione all'estero si applichino le norme previdenziali vigenti nel Paese nel cui territorio l'attività è prestata.
Né la possibile diversità di trattamento previdenziale rispetto al lavoratore che abbia svolto la propria attività in Italia integra alcuna disparità costituzionalmente rilevante attese le indubbie differenze di carattere oggettivo fra le due situazioni; differenze consistenti nella diversità del luogo d'esecuzione del rapporto lavorativo, nella diversa entità dei contributi previdenziali versati, nella diversa retribuzione percepita dal lavoratore a parità di lavoro prestato. Neppure continua l'Avvocatura - è fondatamente ipotizzabile alcuna violazione degli artt. 35 e 38 Cost., giacché la tutela cui fanno riferimento le due norme costituzionali non può non trovare il proprio limite territoriale in quello spaziale della sovranità dello Stato italiano, come del resto avviene per tutte le forme di tutela garantite dalla Costituzione (si pensi, ad esempio, al diritto all'istruzione).
Sotto altro profilo l'Avvocatura nega poi che la addotta carenza di tutela previdenziale sia correttamente ricollegabile alla norma denunziata, che è poi quella istitutiva dell'I.N.P.S., così per certo verso prospettando l'inammissibilità della questione così come sollevata. Posto invero che il principio della territorialità dell'azione pubblica è una diretta conseguenza del principio di sovranità nazionale e di pacifica convivenza fra gli Stati (art. 10 Cost.), qualsivoglia forma di tutela previdenziale pubblica per i rapporti di lavoro che abbiano esecuzione all'estero dovrebbe essere perseguita con strumenti diversi da quelli previsti per i rapporti di lavoro svolgentisi sul territorio nazionale; e ciò in quanto l'ente pubblico preposto a tale funzione non potrebbe in nessun caso esercitare i propri poteri al di là del limite territoriale dello Stato.
Da ultimo - osserva l'Avvocatura - va ricordato che l'attuale assetto normativo contempla delle forme di previdenza anche per i periodi di lavoro trascorsi all'estero (art. 51, comma secondo, l. 30 aprile 1969, n. 153, come modificato con l. 16 aprile 1974 n. 114), sicché appare evidente, da un lato, come il preteso difetto di tutela non sussista, o quantomeno non nel grado lamentato, e, dall'altro, che esso non è in ogni caso ricollegabile al limite territoriale dell'azione dell'I.N.P.S., posto dalla norma denunciata con disposizione meramente dichiarativa e conseguenziale al principio di sovranità.
Alla pubblica udienza del 21 maggio 1985 le parti ribadivano i propri assunti insistendo per l'accoglimento delle rispettive conclusioni.
(Torna su   ) Diritto
Considerato in diritto:
1. - Le tre ordinanze in epigrafe, attenendo tutte al problema della tutela dei lavoratori italiani operanti alle dipendenze di una impresa italiana in Stati non appartenenti alla Comunità europea - su cui questa Corte si è già pronunciata con la sentenza n. 199/1985 - e con i quali non esiste alcuna convenzione al riguardo, vanno riunite e decise con unica sentenza.
2. - In base al principio della territorialità della legislazione sociale, che è un portato della natura pubblicistica delle relative norme, la disciplina italiana in tema di previdenza e di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è pacificamente ritenuta operativa solo nell'ambito del territorio nazionale. Reputando i giudici a quibus che questo sistema si risolva in violazione degli artt. 3, 35 e 38 Cost. ed individuando tale violazione negli artt. 1 r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 ("perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale") ed 1 e 4 d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 ("testo unico delle disposizioni per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali"), chiedono che ne sia dichiarata l'illegittimità costituzionale, nonostante che né il r.d.l. 1827/1935, né, meno ancora, il d.P.R. 1124/1965, risultino formulati in maniera da impedire una interpretazione meno rigida. Ma poiché le ordinanze in esame, adeguandosi al diritto vivente, imputano all'impugnata disciplina - Tribunale di Milano (r.o. 585/1977) e Pretore di Piacenza (r.o. 36/1979) - di limitare la sfera di azione dell'Istituto nazionale per la previdenza sociale (Inps) al territorio della Repubblica e - Pretore di Firenze (r.o. 1235/1984) - di non avere previsto, a favore dei lavoratori italiani operanti all'estero alle dipendenze di impresa italiana, l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, questa Corte è tenuta a pronunciarsi sulla asserita violazione degli invocati principi costituzionali da parte delle norme impugnate.
3. - È testualmente scritto in Costituzione (art. 35, u.c.) che "la Repubblica... tutela il lavoro italiano all'estero". La chiarezza e perentorietà del dettato non si prestano ad alcuna elusione, ad alcuna distorsione, ad alcuna dilazione, e non lasciano perciò alcun margine di dubbio sulla fondatezza della questione in esame. Del resto, il problema è ammesso ed anche pienamente avvertito dal potere politico. Sollevato già nel 1970 dal Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro in seguito ad un'indagine conoscitiva sull'emigrazione italiana, se ne è tentata varie volte la soluzione in sede legislativa, sia su iniziativa parlamentare, sia su iniziativa governativa. Una di queste era stata addirittura approvata, il 27 aprile 1983, dalle commissioni riunite "affari esteri" e "lavoro" della Camera dei deputati in sede referente, ma decadde in seguito allo scioglimento anticipato delle Camere. E nella presente legislatura, oltre a tre proposte di legge, risulta presentato, il 4 marzo 1985, un disegno di legge governativo, - recante appunto "norme per la tutela dei lavoratori italiani dipendenti da imprese operanti all'estero nei paesi extracomunitari" -, nella cui relazione si legge, fra l'altro, che la "regolamentazione della materia" ivi prevista ha lo scopo di permettere "una più ampia tutela - nello spirito dei valori fondamentali affermati dalla Costituzione - di tale categoria di lavoratori" e che l'appartenenza allo Stato italiano, sia del datore di lavoro, sia del lavoratore, sembra sufficiente per "esigere l'osservanza di condizioni di lavoro conformi a quelle inderogabili stabilite" nel nostro ordinamento.
4. - Il principio della tutela del lavoro italiano all'estero è uno dei valori fondamentali proclamati in Costituzione, da cui dipende l'inderogabilità delle condizioni di lavoro, come del resto riconosce il citato disegno di legge governativo. La questione deve, quindi, dirsi fondata.
È bensì vero - lo mostra con tutta evidenza il più volte menzionato disegno di legge governativo - che solo il legislatore è in grado di dettare una compiuta disciplina del lavoro italiano all'estero - stanti la complessità ed il tecnicismo dei problemi che ne nascono -, ma è altrettanto vero che questa Corte, istituita a garanzia dell'osservanza del sistema costituzionale, non può sottrarsi, quando sia denunciata la violazione di un valore fondamentale, al suo indeclinabile dovere di riconoscerla e sanzionarla. La Corte non ignora che sono numerosi e tutt'altro che semplici gli inconvenienti i quali hanno sinora ritardato la soluzione del problema in sede legislativa, nonché impedito di stipulare convenzioni di sicurezza sociale rispettose dei precetti costituzionali con tutti gli Stati, ove prestano la loro opera lavoratori italiani, e tuttavia, a fronte del precetto costituzionale, non può dichiarare che gli inconvenienti giustifichino la carenza di protezione sociale per il lavoratore italiano che presti la sua opera all'estero alle dipendenze di un'impresa italiana. Ovviamente, esulano dal thema decidendum le situazioni di lavoratori italiani, dipendenti da ditte italiane operanti in Stati esteri con i quali la Repubblica italiana ha stipulato apposite convenzioni di protezione sociale; impregiudicato restando, altrettanto ovviamente, il giudizio sulla conformità delle convenzioni medesime al dettato costituzionale.
(Torna su   ) P.Q.M.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 1 r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 ("perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale") ed 1 e 4 d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 ("testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali"), nelle parti in cui non prevedono le assicurazioni obbligatorie a favore del lavoratore italiano operante all'estero alle dipendenze di impresa italiana.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 dicembre 1985.
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 30 DIC. 1985

Da: pichilla15/12/2010 11:53:47
x pakozzo

se la condotta è stata posta in essere in parte antecedentemente all'entrata in vigore della norma ed è proseguita dopo l'entrata in vigore della norma, precisamente il 27 febbraio 2009, il reato è da ritenersi applicabile in relazione alle condotte poste in essere reiteratamente in parte prima e in parte dopo la sua introduzione.

Da: bnera15/12/2010 11:54:16
l'inizio è nel novembre 2008, poi esasperata per la situazione...(quindi la condotta molesta e persecutoria continuava...) poi la querela è stata fatta entro sei mesi nov 2008- marzo 2009: non so se può dare qualche spunto.. e poi le minacce erano rivolte alle cose (non alla persona)

Da: mate15/12/2010 11:55:37
qualcuno può mettere uno skema da seguire per svolgere la seconda traccia per favore

Da: av15/12/2010 11:56:14
vi prego soluzion

Da: ale15/12/2010 11:57:30
ma quanto fa pena la gente che posta sentente inutili per dare fastidio

Da: giampiero15/12/2010 11:58:24
x attenzione: senza offesa, ma sarei curioso di sapere come hai fatto in 3 secondi a parlare con il procuratore capo della tua città, io con quello della mia città ci provo da un mese e per motivi seri di lavoro.... senza successo........ cerca di essere più credibile così non spaventi nessuno e fai solo ridere

Da: pareri15/12/2010 11:59:07
POSTATO SU HELPDESK:

ragazzi spero di esserevi di supportto anche se faccio civile. Questo è lo schema su cui sto lavorando
1 - Tentata estorsione ai danni dei genitori (649 u.c. dice che nn si applica la disposizione al 629)
2 - Rapina impropria perchè in realtà nn si fa consegnare i soldi grazie all'estorsione ma si introduce in camera da letto e li sottrae dal cassetto (viloenza provata?)
3 - rapina impropria perchè solo uscendo si scaglia contro il padre e gli cagiona una escoriazione, quindi usa la violenza dopo la rapina
4 - il tutto andrebbe considerato come reato unico
5 - il 649 nn si applica ai casi di rapina
6 - la madre è offesa solo da reato di minaccia di estorsione
7 - il padre oltre alla minaccia subisce la rapina impropria
8 - Tizio lo possiamo difendere se proviamo che è un alcoolista abituale (penso)
9 - da capire se il reato di lesioni contro il padre rimane assorbito da quello della rapina impropria.

Aspetto un Vs. giudizio

Da: alfredo15/12/2010 11:59:13
aiutoooooooooooooooo soluzione
2 Traccia

Da: asssunta15/12/2010 12:00:20
mi dite la sentenza di riferimento per risolvere il problema stalking?? grazie

Da: beta15/12/2010 12:01:59
.... si tiene conto dei reati abituali..... per la prima traccia

Da: euridice 15/12/2010 12:02:16
Cass. pen. Sez. V, n. 6417/2010

Da: mikka15/12/2010 12:03:12
sentenza per la seonda traccia??

Da: XGIAMPIERO15/12/2010 12:05:00
GIUSTO PER CHIARIRE...ERO DAL PROCURATORE CAPO PER ALTRA QUESTIONE IN RELAZIONE ALLA QUALE AVEVO PRESO APPUNTAMENTO, CON L'OCCASIONE L'HO RESO EDOTTO ANCHE DI QUESTA COSA. SI è DIMOSTRATO MOLTO DISPONIBILE E DOPO CHE è ENTRATO NEL FORUM SI è RESO CONTO DELLA GRAVITA' DELLA COSA. VI ASSICURO CHE, CONOSCENDOLO, NE VEDREMO DELLE BELLE. NON PENSATE CHE TANTO NON SUCCEDERA' MAI NULLA. IO VI HO AVVISATO. A BUON INTENDITOR ....

Da: Il legale15/12/2010 12:05:23
sentenza seconda traccia
Cassazione Penale Sez. II - Sentenza N. 28210 del 15 giugno 2010
"Prossimi congiunti e rapporto di parentela agli effetti della legge penale - La
tentata estorsione ai danni di un congiunto non è penalmente rilevante se
eseguita con minaccia ma senza ricorrere alla violenza" -

Da: Il legale15/12/2010 12:06:07
Corte di Cassazione Penale, sezione seconda - Sentenza n. 28210 del 20/07/2010
Reato di tentata estorsione, mediante minaccia, ai danni famigliari - Art. 629 del Codice Penale - L'art. 649 del c.p. esclude la punibilità del reato di tentata estorsione, mediante minaccia, ai danni famigliari poichè l'interpretazione della locuzione "ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza alle persone" comprende la sola violenza fisica e non anche la minaccia o la violenza psichica.

Da: beta15/12/2010 12:06:23
euridice ma qst sentenza riguarda sempre la prima traccia?^?????
grazie

Da: alfredo15/12/2010 12:06:43
xgiampiero: ma prendilo nel .............

Da: Bersani15/12/2010 12:06:53
Occhio alla traccia sullo stalking: la condotta inizia nel 2008 quando ancora lo stalking non era previsto dalla legge, quindi in applicazione del principio del favor rei dovrebbe trovare applicazione un trattamento sanzionatorio + tenue

Da: Il legale15/12/2010 12:07:26
Corte di Cassazione Penale, sezione seconda - Sentenza n. 28210 del 20/07/2010
Reato di tentata estorsione, mediante minaccia, ai danni famigliari - Art. 629 del Codice Penale - L'art. 649 del c.p. esclude la punibilità del reato di tentata estorsione, mediante minaccia, ai danni famigliari poichè l'interpretazione della locuzione "ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza alle persone" comprende la sola violenza fisica e non anche la minaccia o la violenza psichica.


FATTO

1. Con ordinanza del 14/01/2010, il Tribunale di (OMISSIS) confermava l'ordinanza emessa in data 16/12/2009 con la quale il g.i.p. del Tribunale di (OMISSIS) aveva disposto nei confronti di B. A. la misura della custodia cautelare in carcere per il reato di tentata estorsione, mediante minaccia, ai danni del padre (adottivo) B. L..

2. Avverso la suddetta ordinanza, l'indagato, in proprio, ha proposto ricorso per Cassazione deducendo violazione dell'art. 649 c.p.

Sostiene, infatti, il ricorrente che la tesi fatta propria dal Tribunale, a sostegno della decisione, (ossia che l'esimente di cui all'art. 649 c.p., non si applica, ai sensi del comma 3 del citato articolo, nei casi di tentativo sebbene commesso con minaccia) sarebbe minoritaria rispetto ad altro indirizzo interpretativo di questa stessa Corte di legittimità, secondo il quale, invece, il delitto tentato, in quanto reato autonomo rispetto a quello consumato, non rientrerebbe nell'ipotesi di esclusione dell'esimente di cui all'art. 649 c.p. prevista nell'u.c..

DIRITTO

3. La questione giuridica che pone il presente procedimento consiste nello stabilire se il tentativo di estorsione compiuto ai danni di un congiunto (nella specie padre adottivo), sia o meno punibile ai sensi dell'art. 649 c.p., comma 3.

La questione è già stata affrontata da questa Corte di legittimità sebbene con esiti contrastanti.

3.1. Secondo una prima tesi, l'esclusione dell'esimente per i delitti contro il patrimonio in danno di congiunti si riferisce, nel fare menzione dei delitti di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione, alle sole forme consumate e non anche al tentativo.

Secondo la suddetta tesi, nella categoria dei delitti nominativamente indicati dall'art. 649 c.p., comma 3, non possono rientrare anche le forme tentate perchè:
a) il reato tentato costituisce una figura criminosa a sè stante e da luogo ad un autonomo titolo di reato (ragione sistematica);
b) la dizione letterale ("delitti preveduti dagli artt. 628, 629 e 630 c.p."), non menzionando espressamente anche il tentativo, non può essere interpretata estensivamente, vertendosi in una materia in cui non può praticarsi un esercizio ermeneutico in malam partem (ragione del favor rei). Inoltre, si fa presente, a livello sistematico, che la giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato, in tema di esclusioni oggettive dall'amnistia e dall'indulto e in tema di arresto in flagranza, che le relative norme operano solo nelle ipotesi di reato consumato, quando solo queste siano indicate;
c) il delitto tentato costituisce comunque un'ipotesi più lieve rispetto al delitto consumato (ragione logica: il legislatore ha inteso fare una graduazione di gravità, non menzionando il tentativo);
d) nell'ipotesi di esclusione per "ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone", la gravità è connotata dalla violenza alle persone, che ricomprende anche l'ipotesi del tentativo, avendo il legislatore effettuato la valutazione di gravità "a monte", attraverso un connotato oggettivo onnicomprensivo (appunto, la violenza alle persone).
Dunque, la violenza va tenuta distinta dalla minaccia sicchè la locuzione "ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone", non comprende le ipotesi di delitti commessi con minaccia: (Cass. 20110/2002 riv 221854 - Cass. 12403/2009 riv 244054 - Cass. 16023/2005 riv 231785 - Cass. 13694/2005 - Cass. 22628/2001 riv 219421 - Cass. 8470/1995).

3.2. Secondo un'altra tesi, invece, l'esclusione della causa di non punibilità di cui all'art. 649 c.p., in riferimento alle fattispecie criminose di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione è normativamente estesa anche alle corrispondenti fattispecie di tentativo che strutturalmente comportano l'uso della violenza alla persona, pur solo preordinata e non realizzata.

Inoltre, nella nozione di "violenza alle persone" di cui all'ultima parte dell'art. 649 c.p., comma 3, rientra anche la violenza morale e ciò perchè tutte le fattispecie criminose a cui si riferisce la causa di non punibilità si connotano per l'equiparazione della violenza alla minaccia: Cass. 19299/2007 riv 24055 - Cass. 35528/2008 begin_of_the_skype_highlighting 35528/2008 end_of_the_skype_highlighting riv 241512 (in ordine alla assimilabilità della violenza morale alla violenza fisica) - Cass. 24/1/1995, C. - Cass. 9/6/1988, B. - Cass. 9/4/1965, P.. L'iter argomentativo, seguito dalla suddetta tesi (enunciata nel modo più compiuto da Cass. 19299/2007 riv 24055), può essere riassunto nei termini di seguito indicati.

L'argomento letterale (cfr supra sub b) è stato ritenuto "agevolmente superabile solo raffrontando il richiamo contenuto nell'art. 649 c.p., comma 1 a "chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti in questo titolo"; costituente una relazione che, per i rilievi già anticipati, va riferita, e a fortiori, anche alle ipotesi di delitto tentato: il detto richiamo viene poi a congiungersi direttamente con la clausola di esclusione, altrimenti non comprensibile sul piano ermeneutico. Non foss'altro perchè V'esimente" si collega al fatto, alla esclusione della punibilità ed al particolare regime della "doppia esclusione" soltanto sulla base di un rapporto di stato comunque rilevante ma alla condizione che il fatto abbia raggiunto la soglia del tentativo". In altri termini, secondo questa interpretazione, l'art. 649 c.p., comma 3 andrebbe così letto: "è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 628, 629 e 630 e ogni altro fatto contro il patrimonio che sia commesso con violenza". Questa tesi, quindi, sostituisce, in virtù del richiamo del comma 3 al comma 1 ("le disposizioni di questo articolo non si applicano (...)" la parola "delitto" con quella di "fatto". E, siccome il fatto si riferisce al reato e nel reato è compreso sia il tentativo che la consumazione, ne consegue che, quando nel comma 3 si parla di "delitti", in realtà si dovrebbe intendere reato e, quindi, non solo quello consumato ma anche quello tentato. E' stato, poi, rilevato che il richiamo alle norme in tema di amnistia, indulto e di arresto in flagranza, non sarebbe dirimente e non potrebbe essere enfatizzato più di tanto sia perchè, una volta effettuata l'integrazione (nel senso di cui si è detto) fra il primo ed il comma 3, la questione sarebbe risolta a monte, sia alla "stregua della ratio della disposizione, tutta accentrata sullo stato delle persone entro il quale ogni discrimine non espressamente previsto tra delitto consumato e delitto tentato risulterebbe eccentrico rispetto all'assetto chiaramente enucleabile dal contenuto della norma".

Si è, ancora, evidenziato che la nozione di violenza alla persona non può che riferirsi ad un concetto che comprenda in sè, non soltanto la violenza fisica ma pure la violenza morale, a norma dell'art. 610 c.p., sulla base dei seguenti argomenti:
- "il disvalore assegnato dal legislatore alle condotte indicate nell'art. 649 c.p., comma 1 vale a connotare un sistema in cui le fattispecie di reato sono tutte caratterizzate dalla equiparazione della violenza alla minaccia, secondo un canone intrinseco, si può dire, di necessità, alle previsioni esclusive, convergendo anche sul piano testuale, verso una significante unicità descrittiva (si pensi alla disposizione dell'art. 628 c.p., comma 1, che equipara proprio la violenza fisica alla minaccia)";
- "la rubrica del capo 1 del titolo 13, che include nella nozione di violenza alle persone, non soltanto la violenza fisica, ma anche la minaccia, ed è quindi comprensiva di ogni atto di coercizione diretta verso la persona; tanto da far emergere la conclusione che il legislatore si sia riferito ad una nozione categoriale e non ad uno specifico precetto normativo, nel senso che tutti i reati indicati nominatim possono essere indifferentemente commessi con la violenza o con la minaccia. Il che appare particolarmente rilevante proprio nell'ipotesi prevista dall'art. 630 c.p., ove la privazione della libertà personale prescinde addirittura dal mezzo utilizzato per incentrarsi in via esclusiva sulla violenza cui è assoggettata la persona offesa. Proprio la previsione nell'elenco esclusivo del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione - ed è questo il secondo argomento - rende evidente l'intento del legislatore di precludere l'applicabilità dell'"esimente" in tutti i casi di coercizione diretta, correttamente trascurando la circostanza che tale reato venga realizzato con violenza nei mezzi ovvero nel risultato, non potendo certo sostenersi che una persona privata della libertà personale non divenga oggetto di una violenza fisica". In altri termini, l'art. 630 c.p. sarebbe il paradigma dal quale desumere che il legislatore ha voluto rendere punibili i reati che comportino una coercizione diretta, essendo irrilevante le modalità con le quali la medesima è stata realizzata (violenza fisica - psichica - minaccia).

Si è, infine, osservato che, seguendo la tesi opposta (non punibilità ove la condotta criminosa sia consistita nella sola minaccia), si verificherebbe una distonia normativa relativamente alle ipotesi delittuose di cui agli artt. 634 e 635 c.p., comma 2 in quanto per la stessa fattispecie, a seconda che venga commessa con violenza o con minaccia, l'agente sarebbe perseguibile o no pur avendo il legislatore equiparato le due condotte.

3.3. Esposte le due tesi, è ora opportuno, a fini meramente riepilogativi, evidenziare i punti comuni e le differenze che, a livello pratico, discendono a seconda che si accolga l'una o l'altra tesi.

REATO CONSUMATO:
1. artt. 628, 629 e 630 c.p.: per entrambe le tesi, i delitti consumati di cui alle suddette norme, sono punibili sia se commessi con violenza sia se commessi con minaccia;
2. "ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone", (es. art. 634 c.p. e art. 635 c.p., comma 2):
per la prima tesi è punibile solo se commesso, appunto, con violenza e non con minaccia. A differente conclusione giunge la seconda tesi, secondo la quale i suddetti delitti sono punibili anche se commessi con minaccia.

REATO TENTATO:
1. Artt. 628, 629 e 630 c.p.: secondo là prima tesi, i suddetti delitti sono punibili solo se commessi con violenza in quanto il delitto tentato rientra nell'ipotesi di cui all'art. 649 c.p., comma 3 seconda parte "ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone"), A differente conclusione giunge la seconda tesi, secondo la quale il tentativo per i suddetti delitti è punibile anche se commesso con minaccia;
2. "ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone": secondo la prima tesi, i suddetti delitti sono punibili, a titolo di tentativo, solo se commessi con violenza e non con minaccia. A differente conclusione giunge la seconda tesi, secondo la quale il tentativo per i suddetti delitti è punibile anche se commesso con minaccia.

3.4. Tanto premesso, questa Corte ritiene di ribadire la prima delle tesi esposte per le ragioni di seguito indicate.

3.4.1. L'imprescindibile dato giuridico dal quale partire è che il tentativo è una fattispecie autonoma rispetto al corrispondente reato consumato: questo è un dato pacifico acquisito nella giurisprudenza di questa Corte che la stessa tesi qui non condivisa, non contesta. Se cosè è, allora, proprio sul piano strettamente letterale, ne discende che, quando l'art. 649 c.p., comma 3 adopera la locuzione "delitti preveduti dagli artt. 628, 629 e 630 c.p." (e, quindi ben determinati reati), non può che riferirsi al delitto consumato, mentre, nella più ampia locuzione "ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone", deve farsi rientrare l'autonoma ipotesi delittuosa del tentativo.

L'argomento addotto dalla tesi avversa, a confutazione della suddetta conclusione, non è convincente.

Invero, l'operazione ermeneutica diretta a sostituire la parola "delitto" con quella di "fatto" di cui al comma 1, non appare condivisibile perchè, se è vero che il comma 3 rinvia al comma 1, è anche vero che il rinvio va inteso non nel senso auspicato dalla seconda delle tesi illustrata, ma nel senso che, per i delitti di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p. e, per ogni altro delitto commesso con violenza, la disposizione del comma 1 (che stabilisce la non punibilità) non si applica, sicchè, per le suddette fattispecie criminose, è prevista (contrariamente al comma 1), la punibilità.

Nulla autorizza ad andare oltre e a sostituire il termine "delitto" con quello di "fatto". Di conseguenza, è inconferente, invocare, a livello sistematico, gli artt. 577 c.p., comma 2 - art. 585 c.p., comma 1 - art. 591 c.p., comma 3 (in cui si adopera la parola "fatto"), proprio perchè nell'art. 649 c.p., comma 3, per quanto detto, deve continuarsi ad adoperare la parola "delitto" e non quella di "fatto".

Una volta, quindi, ritenuto che nell'ambito dell'art. 649 c.p. le ipotesi di delitto consumato sono tenute ben differenziate da quelle tentate, diventa intuitivo che il più severo regime sanzionatorio previsto per le ipotesi di reato consumato, non può essere applicato anche alle più lievi ipotesi di reato tentato per l'ovvia ragione che si incorrerebbe nel divieto dell'applicazione analogica in malam partem. Diventa, pertanto, condivisibile l'osservazione sistematica tratta da quella giurisprudenza in tema di amnistia, indulto (SS.UU. 23/2/1980, I.) e arresto in flagranza (Cass. 16/1/1999, C.) secondo la quale i suddetti istituti, proprio perchè la legge fa riferimento solo ai "delitti", si applica alle sole ipotesi consumate e non anche a quelle tentate.

3.4.2. Chiarito, quindi, che va mantenuta, in relazione alle fattispecie criminose di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p., la differenza di trattamento fra delitti tentati e delitti consumati, non resta, ora, che affrontare l'ultima questione ossia se la minaccia e la violenza possano o meno essere assimilate al fine di ricevere lo stesso trattamento sanzionatorie.

Due, come si è visto, sono sostanzialmente, gli argomenti addotti dalla tesi che tende ad assimilare le due nozioni:
a) un argomento di natura letterale tratto dalla rubrica del capo 1 del titolo 13;
b) un argomento di natura sistematica tratto dagli artt. 630, 634 e 635 c.p. comma 2. Questa Corte, anche in ordine alla suddetta problematica, ritiene condivisibile l'opposta tesi secondo la quale le due nozioni vanno tenute ben distinte.

L'argomento di natura letterale è poco significativo non peraltro perchè, secondo i notori canoni ermeneutici, la rubrica di una legge non ha una particolare valenza ai fini esegetici di una norma.

Anche l'argomento che si vuole trarre dall'art. 630 c.p. è poco convincente.

L'art. 649 c.p., comma 3, letto ed interpretato secondo il suo testuale tenore, significa che:
- i delitti consumati di cui agli artt. 628 e 629 c.p. sono punibili solo se commessi con violenza o con minaccia proprio perchè i suddetti elementi sono costitutivi della fattispecie criminosa;
- il delitto consumato di cui all'art. 630 c.p. va, invece, sempre e comunque ritenuto punibile in quanto per esso la legge non ha previsto, fra gli elementi costitutivi, nè la violenza nè la minaccia: non a caso è stato ritenuto che il sequestro di persona a scopo di estorsione si configura oltre che con la coercizione fisica, che impedisce la libertà di movimento, anche attraverso l'inganno e con motivi pretestuosi che attraggono la vittima e ne inficiano la volontà di autodeterminazione (Cass. 19/6/1998, riv 211146).

Non è chiaro, pertanto, il motivo per cui il suddetto articolo dovrebbe essere paradigmatico della volontà legislativa di punire "tutti i casi di coercizione diretta, correttamente trascurando la circostanza che tale reato venga realizzato con violenza nei mezzi ovvero nel risultato". E' questa, però, un'operazione ermeneutica non condivisibile perchè gli artt. 628, 629 e 630 c.p. sono nominati espressamente e, quindi, vanno interpretati per quello che ciascuno di essi esprime: una norma (art. 630 c.p.) che ha un elemento oggettivo diverso e non prevede fra i suoi elementi costituiti nè la violenza nè la minaccia, non può essere adoperata come paradigma per l'interpretazione di altre norme (artt. 628 e 629 c.p.) che hanno presupposti giuridici diversi e che fra i loro elementi costitutivi prevedono sia la coercizione diretta (violenza) che quella indiretta (minaccia).

Quanto all'argomento tratto dagli artt. 634 e 635 c.p. è vero che le suddette norme prevedono sia la minaccia che la violenza e che, applicando letteralmente l'art. 649 c.p., comma 3, ultima parte, rimane senza sanzione (non punibilità) il reato commesso con minaccia. Ma, è questa ancora una volta la prova che il legislatore ha voluto colpire (ad eccezione della rapina e dell'estorsione espressamente indicate) solo i reati commessi con violenza e non anche quelli commessi con minaccia avendo ritenuto la suddetta condotta, proprio sotto il profilo naturalistico, meno grave e, quindi, non punibile. In realtà, la violenza è un concetto che va tenuto ben distinto dalla minaccia.
La violenza, da un punto di vista naturalistico, può essere intesa in due modi:
- come violenza propria ossia come "dispiegamento di un'energia fisica sopraffattrice verso una persona o una cosa, tale da cagionare una coazione personale, assoluta o relativa, ovvero la modificazione di una cosa, sempre attraverso l'uso, appunto, di una forza fisica diretta" (Cass. 20110/2002 cit.);
- come violenza impropria, ossia come uso di mezzi anomali (ad es. mediante narcosi - ipnosi - inebriamento) diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui impedendone la libera determinazione: ex plurimis Cass. 10075/1987 Rv. 176727 - Cass. 11907/2010 Rv. 246551.

Diversa è, invece, la minaccia (o violenza morale) che consiste nell'annuncio (che può essere fatto anche con gesti) di un male ingiusto futuro (contrariamente alla violenza che concerne un male in atto) dato ad altra persona, con scopo intimidatorio diretto a restringerne la libertà psichica o a turbarne la tranquillità. E che le due nozioni - quantomeno ai fini dell'art. 649 c.p. - devono essere tenute ben distinte si desume dal fatto che, se davvero non vi fosse alcuna differenza, allora non si capirebbe il motivo per cui il legislatore ha tenuto differenziate le due categorie di reati: da una parte, gli artt. 628, 629 e 630 c.p., dall'altra, "ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza". Ed infatti, se davvero il legislatore avesse voluto adoperare la locuzione "ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza" in modo ellittico (e cioè comprensivo sia della violenza vera e propria che della minaccia), non avrebbe tenuto differenziate le due ipotesi in quanto nella seconda ("ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza") sarebbero certamente rientrate anche le ipotesi criminose di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p. La tesi qui accolta trova un riscontro anche a livello di ratto legis. Com'è noto, il legislatore del 1930, ha introdotto la peculiare disciplina di cui all'art. 649 c.p. perchè ha ritenuto che, in considerazione dell'esistenza degli stretti rapporti di parentela esistenti fra l'agente ed il soggetto passivo, la dinamica dei rapporti familiari potesse condurre ad una sorta di autoregolamentazione degli interessi patrimoniali lesi tanto da far passare in secondo ordine la pretesa punitiva dello Stato.

La non punibilità, perè, è stata prevista solo per le ipotesi minori di conflitto perchè, laddove l'agente, per conseguire un proprio interesse patrimoniale, perpetri, ai danni del familiare, reati particolarmente gravi (artt. 628, 629 e 630 c.p.) o comunque commessi con violenza, allora, la pretesa punitiva viene riaffermata prevedendosi la punibilità dell'agente.

E' chiaro, quindi, che il discrimine fra punibilità e non punibilità si gioca su due livelli:
- la consumazione di delitti estremamente gravi: artt. 628, 629 e 630 c.p.: in tali ipotesi, il legislatore, stante la gravità dei reati, non ha ritenuto di distinguere fra azione commessa con minaccia e violenza;
- la commissione del delitto con modalità violente.

Orbene, se si tiene presente che la minaccia, proprio perchè è un male futuro, ed è, quindi, un qualcosa di meno grave della violenza (che è un male in atto), allora appare chiaro che la non punibilità (ad eccezione delle ipotesi di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p.) trova una sua logica spiegazione, dovendosi inquadrare quel comportamento fra quelle azioni criminose per le quali il legislatore non ha ritenuto intervenire lasciando che si risolvano spontaneamente nell'ambito delle dinamiche familiari.

Stesso discorso, mutatis mutandis, può essere fatto per il tentativo dei reati di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p. sempre che non siano commessi con violenza, proprio perchè, essendo il tentativo un qualcosa di meno grave del reato consumato, si può presumere che il conflitto patrimoniale fra agente e soggetto passivo possa essere ricomposto bonariamente all'interno della famiglia. Va pertanto, enunciato il seguente principio di diritto: "l'art. 649 c.p., comma 3 esclude la punibilità del tentativo dei reati di cui agli artt. 628, 629 e 630 c.p. ove sia commesso con minaccia, posto che la suddetta fattispecie criminosa rientra nella locuzione "ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza alle persone" che, dovendo essere interpretato restrittivamente, comprende la sola violenza fisica e non anche la minaccia o violenza psichica".

4. Il Tribunale, non si è adeguato al suddetto principio di diritto: di conseguenza, l'ordinanza va annullata senza rinvio.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata e quella del g.i.p. presso il Tribunale di (OMISSIS) in data 16/12/2009, impositiva della custodia in carcere nei confronti di B. A., di cui ordina l'immediata scarcerazione se non detenuto per altro.

Si comunichi al Procuratore Generale per gli adempimenti di cui all'art. 626

Da: XGIAMPIERO15/12/2010 12:07:33
Nota a Commissione Tributaria Provinciale di Novara, 23 luglio 2010, n. 89, sez. I


Giur. merito 2010, 11, 2894

Costantino Scalinci




NOTA
La sentenza in commento definisce una questione specifica certamente originale, trattandosi di un caso in cui dinanzi al Giudice tributario è stata proposta un'impugnazione dell'atto di pignoramento dei crediti del debitore verso terzi ex art. 72-bis d.P.R. n. 602 del 1973, contenente l'ordine al terzo di pagare il credito direttamente al concessionario, fino a concorrenza del credito per cui si procede, ma la Commissione adita motiva il raggiunto convincimento del difetto di giurisdizione, nel solco dei criteri ermeneutici e delle coordinate perimetrali della giurisdizione esclusiva fiscale indicati dall'elaborazione giurisprudenziale a margine del disposto dell'art. 2 d.lg. n. 546 del 1992, e dell'ivi codificata esclusione delle «controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell'avviso di cui all'art. 50 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602».
La disposizione che pone i confini della giurisdizione tributaria, infatti, nella parte sopra riportata, identifica e perimetra un'area ulteriore, propria della giurisdizione delle commissioni tributarie, delimitata, negativamente, dal genere degli atti successivi alla notifica della cartella di pagamento e/o dell'avviso di intimazione di cui all'art. 50 comma 1 d.P.R. n. 602 del 1973, diversi da quelli «dell'esecuzione forzata». La formula normativa, pur non avendo un significato univoco, cioè, vale a tracciare una ideale linea di demarcazione tra gli atti di varia natura che abbiano come presupposto, almeno temporale, la notifica della cartella o dell'avviso, e gli atti «esecutivi» in senso proprio e stretto, successivi alla scadenza utile al pagamento spontaneo.
Proprio per questa ragione la Commissione piemontese, condivisibilmente, indica come decisiva l'individuazione della natura che, nel sistema delineato dalla legge, riveste il verbale di pignoramento presso terzi secondo la formulazione adottata dall'art. 2 comma 6 d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, ora art. 72-bis d.P.R. n. 602 del 1973. Il Collegio, pur dando atto dell'esistenza di alcuna giurisprudenza di merito di segno opposto, secondo la quale, specie in considerazione della circostanza che l'Agente della riscossione può, a sua discrezione, scegliere la procedura indicata in luogo della citazione del terzo avanti al giudice, l'atto contenente l'ordine di pagamento diretto al terzo non sarebbe un atto espropriativo ma un mero atto amministrativo collocato ancora all'interno della fase della riscossione, conclude che detto verbale ha natura di atto esecutivo successivo alla cartella di pagamento ed, in quanto tale, è escluso dalla giurisdizione del Giudice tributario. Secondo la Commissione di Novara, l'antecedenza ed alternatività all'esecuzione soggetta alle forme e alle garanzie predisposte dall'ordinamento processuale civile a garanzia della posizione del debitore non è un elemento qualificante, sia perché un simile modo di procedere non è affatto una novità nel sistema espropriativo esattoriale ma rappresenta una estensione di quanto l'art. 72 d.P.R. n. 602 del 1973, in tema di pignoramento di fitti e pigioni, già consentiva all'Agente della riscossione (cfr., nello stesso senso, Trib. Napoli, sez. V, sent. 9 marzo 2009), parimenti prevedendo, in caso di inottemperanza all'ordine di pagamento rivolto al terzo, dell'onere di procedere secondo le norme ordinarie processualistiche, sia in quanto non si è mai dubitato che detto ordine al terzo - tra l'altro, regolato nel contesto della disciplina dell'«espropriazione presso terzi» e dell'«espropriazione forzata» - costituisse atto dell'esecuzione e non atto della riscossione propriamente detta.
In definitiva, a dire del Giudice tributario piemontese l'atto contenente l'ordine al terzo di pagare il credito direttamente all'Agente della riscossione «presuppone l'esaurimento della fase della riscossione ed apre una nuova fase, appunto della espropriazione, entro cui il pignoramento comunque esercitato si colloca». Si tratterebbe di «uno strumento espropriativo semplificato», ascrivibile al genere degli atti dell'esecuzione, contro il quale sono ammissibili - a piena garanzia del debitore - gli strumenti di opposizione previsti dall'ordinamento processuale e non già l'impugnazione dinanzi al Giudice tributario, anche qualora, come nella specie, il credito da eseguire fosse in tutto o in parte di titolo fiscale.
Anche secondo Trib. Napoli, sez. V, sent. 9 marzo 2009, ancorché «lo svolgimento in un ambito totalmente non contenzioso con dispensa da qualsivoglia forma di controllo giudiziale (il che costituisce il quid proprium dell'istituto in questione rispetto sia alle espropriazioni forzate codicistiche che ai sistemi di riscossione coattiva esattoriale disciplinati dal d.P.R. 602 del 1973)» abbia indotto alcune corti «a definire il pignoramento de quo come ordine autoritativo, estrinsecazione dei poteri conferiti all'agente della riscossione quale soggetto privato esercente una pubblica funzione e, pertanto, ad escludere la praticabilità dei rimedi oppositivi (e delle strumentali misure cautelari) innanzi l'A.G.O., afferma che, al contrario, «il pignoramento in discorso» va «qualificato come modalità esecutiva tipicamente esattoriale» ed «è impugnabile dall'esecutato - nei circoscritti limiti tracciati dall'art. 57 d.P.R. n. 602 del 1973 - innanzi il Giudice Ordinario con l'opposizione all'esecuzione (art. 615 c.p.c.: ove il debitore contesti l'an della pretesa creditoria azionata dall'agente di riscossione) oppure mediante l'opposizione agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.: qualora si deducano vizi di nullità o irregolarità formale del pignoramento o della prodromica procedura esattoriale)».
Indubbiamente quella in questione è una procedura peculiare, tanto da aver indotto dubbi di legittimità costituzionale concretizzatisi nell'ord. 11 dicembre 2007, n. 87 (in Merito, 2008, 26) con la quale il Giudice dell'esecuzione del Tribunale di Genova ha rimesso al Giudice delle leggi il giudizio sulla asserita disparita di trattamento nei confronti degli esecutati in procedure esattoriali alle quali sono applicabili le diverse modalità di esecuzione mediante previa citazione in giudizio del terzo, previste dagli artt. 543 ss. c.p.c., a suo dire determinata proprio dal disposto dell'art. 72-bis d.P.R. n. 602 del 1973, nella misura in cui consente all'Agente della riscossione di ordinare discrezionalmente al terzo il pagamento diretto, riconoscendo a detto Agente una facoltà che, se esercitata, sottrae al controllo del giudice dell'esecuzione la procedura di espropriazione esattoriale mobiliare presso terzi di crediti del debitore. Il Giudice di merito ligure, nel citato provvedimento, sempre a sostegno della non manifesta infondatezza della sollevata que stione, osservava, altresì, che «il pignoramento eseguito in base alla norma censurata, con ordine coattivo di consegna immediata, in luogo di quello ex artt. 543 ess. c.p.c., ha reso più gravosa e meno efficace per l'esecutato la sua difesa». La Consulta dichiarava la questione manifestamente inammissibile con ordinanza 28 novembre 2008, n. 393 e, ciononostante, precisava che «la facoltà di scelta del concessionario tra due modalità di esecuzione forzata presso terzi non crea né una lesione del diritto di difesa dell'opponente né una rilevante disparità di trattamento tra i debitori esecutati, sia perché questi sono portatori di un interesse di mero fatto rispetto all'utilizzo dell'una o dell'altra modalità e possono in ogni caso proporre le opposizioni all'esecuzione o agli atti esecutivi di cui all'art. 57 d.P.R. n. 602 del 1973, sia perché non sussiste «un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità di regole procedurali» » [cfr., sul punto e a margine di questa pronuncia del Giudice delle leggi, anche Equitalia - Dir. Strategie di Riscossione - Ufficio Normativa, Direttiva di gruppo DSR/NC/2008/045 (prot. n. 103614) del 4 dicembre 2008].
Va, tuttavia, sottolineato che il Giudice ordinario partenopeo, nella succitata sentenza del 2009 pronunciata in un giudizio concernente un'opposizione ad atto di pignoramento presso terzi ex art. 72-bis d.P.R. n. 602 del 1973, utile alla riscossione di crediti in larga parte di natura tributaria, ha soggiunto che detta opposizione, proprio in ragione del titolo fiscale di parte della complessiva pretesa azionata, «sarebbe addirittura improponibile per carenza nell'ordinamento di una norma che riconosca e tuteli la posizione giuridica dedotta in giudizio, stante l'espresso divieto sancito dall'art. 57 d.P.R. n. 602 del 1973» (cfr., ancora, Trib. Napoli, sez. V, sent. 9 marzo 2009): dunque, una «improponibilità assoluta della domanda che attiene al fondamento della domanda stessa e non alla giurisdizione», in ragione della quale, secondo l'ordinanza 9 aprile 1999, n. 212 delle sezioni unite civili della Suprema Corte di Cassazione, va dichiarato «inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione con il quale si chieda la determinazione del giudice avente giurisdizione a provvedere, in tema di esecuzione esattoriale, sull'opposizione all'esecuzione di cui all'art. 615 c.p.c. proprio in considerazione del disposto di cui all'art. 54 d.P.R. n. 602 del 1973» (una inammissibilità che «si estende anche alla individuazione del giudice competente a provvedere sulla sospensione cautelare richiesta nel giudizio di opposizione, dal momento che la giurisdizione su tale sospensione presuppone la giurisdizione di un giudice sull'opposizione»).
Analogamente, secondo la giurisprudenza della sezione semplice del Giudice di legittimità (cfr., per tutte, Cass., sez. III, sent.13 gennaio 2005, n. 565), «in tema di esecuzione esattoriale per la riscossione mediante ruoli di entrate di natura tributaria, il d.P.R. n. 602 del 1973 - nel precludere l'esperimento delle opposizioni di cui agli artt. 615-618 c.p.c. (art. 54), prevedendo soltanto il rimedio amministrativo del ricorso all'Intendente di finanza (art. 53) - configura un'ipotesi di improponibilità assoluta della domanda per carenza nell'ordinamento di una norma che riconosca e tuteli la posizione giuridica dedotta in giudizio, improponibilità che attiene al fondamento della domanda e non, come ritenuto dalla giurisprudenza meno recente, alla giurisdizione; pertanto - ai sensi dello stesso art. 54 comma 3, che prevede soltanto l'azione di risarcimento dei danni contro l'esattore - ai soggetti passivi dell'esecuzione è consentito proporre gli strumenti giudiziali di controllo soltanto dopo il compimento dell'esecuzione. Peraltro, poiché il divieto di opposizioni esecutive riguarda gli atti della procedura, non rileva in proposito la distinzione fra atti dell'esattore ed atti del giudice; diversamente, quando la disciplina della riscossione mediante ruoli viene estesa ad entrate non tributarie, non trova applicazione la parte di disciplina di cui al d.P.R. n. 602 del 1973 limitativa della possibilità di esperire le opposizioni esecutive». In definitiva, è proprio «la natura del credito a delineare i limiti delle possibili tutele che in sede esecutiva possono essere proposte» ed, in specie, «è la particolare natura del credito tributario che ha consentito di porre i limiti stabiliti in tema di opposizione alla esecuzione, agli atti esecutivi e di terzi, dagli artt. 57 e 58 d.P.R. n. 602 del 1973» (così, Cass., sez. un., ord. 25 maggio 2005, n. 10958).
Anche la Consulta, con ordinanza 16 giugno 2000, n. 204, afferma che il d.lg. 26 febbraio 1999, n. 46, ed in particolare l'art. 16, nel sostituire l'intero Titolo II del d.P.R. n. 602 del 1973, agli artt. 57 e 60 ha confermato «l'improponibilità delle opposizioni regolate dall'art. 615 c.p.c. ad eccezione di quelle aventi ad oggetto la pignorabilità dei beni, e delle opposizioni disciplinate dall'art. 617 c.p.c. concernenti la regolarità formale e la notificazione del titolo esecutivo, disponendo che il giudice dell'esecuzione non può sospendere il processo esecutivo, salvo che ricorrano fondati motivi e vi sia fondato pericolo di grave e irreparabile danno», soggiungendo che «inoltre, l'art. 29 d.lg. n. 46 del 1999 dispone che per le entrate "non tributarie, il giudice competente a conoscere le controversie concernenti il ruolo può sospendere la riscossione se ricorrono gravi motivi", stabilendo che ad esse "non si applica la disposizione del comma 1 dell'art. 57 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, come sostituito dall'art. 16 del presente decreto e le opposizioni all'esecuzione ed agli atti esecutivi si propongono nelle forme ordinarie" e che "ad esecuzione iniziata il giudice può sospendere la riscossione solo in presenza dei presupposti di cui all'art. 60 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, come sostituito dall'art. 16 del presente decreto"». Le parole della Consulta costituiscono la migliore occasione per sottolineare che in ogni caso il decreto n. 602 del 1973 non esclude in assoluto la proponibilità dell'opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi allorché si tratti di un credito di natura tributaria, così come non preclude la possibilità di proporre altre forme di opposizione, poiché, invero, secondo l'art. 57 del citato Decreto, non sono ammesse le opposizioni regolate dall'art. 615 c.p.c., fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni, e le opposizioni regolate dall'art. 617 c.p.c. relative alla regolarità formale ed alla notificazione del titolo esecutivo, così come l'opposizione di terzi trova specifica menzione e parziale regolazione anche all'art. 58 dello stesso d.P.R. n. 602 del 1973.
Desta qualche perplessità la motivazione di altra recente pronuncia dei giudici tributari di merito apparentemente conforme a quella in commento, ed in particolare non persuadono le ragioni sulla base delle quali anche la Comm. Trib. Prov. di Milano (cfr., sez. III, sent. 7 giugno 2010, n. 256) ha escluso di potersi pronunciare «sull'asserita ed infondata eccezione di nullità dell'atto di pignoramento presso terzi», ritenendosi «priva di giurisdizione» ed indicando come «legittimato a pronunciarsi unicamente il Giudice Ordinario». Il Collegio lombardo, infatti, motiva l'enunciato difetto di giurisdizione soggiungendo che «il pignoramento presso terzi non è infatti compreso fra gli atti impugnabili avanti il Giudice tributario, alla stregua del disposto dell'art. 19 d.lg. 546 del 1992». Sebbene il disposto richiamato dai Giudici lombardi sia sempre più frequentemente indicato come norma sulla giurisdizione complementare all'enunciato di cui all'art. 2 stesso d.lg. n. 546 del 1992, non appare condivisibile verificare la sussistenza della giurisdizione tributaria sulla sola base dell'art. 19 e non già, prioritariamente, sulla base dei più generali ed autosufficienti limiti esterni indicati dal legislatore processuale sia in termini positivi e ratione materiae (natura tributaria della pretesa opposta), sia in termini negativi e per tipologia o funzione dell'atto da impugnare (esclusione degli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell'avviso ex art. 50 d.P.R. n. 602 del 1973), dal momento che anche atti non specificamente elencati nell'art. 19 d.lg. n. 546 sono impugnabili dinanzi alle Commissioni Tributarie qualora abbiano un oggetto tributario e non siano atti dell'esecuzione tributaria. Il punto, eluso dalla Commissione lombarda, era, quindi, prima di tutto la verifica della natura dell'atto ex art. 72-bis d.P.R. n. 602 del 1973, e non già, più semplicemente, della inclusione di tale atto nell'elenco di quelli impugnabili contenuto nel citato art. 19; senza contare che la Commissione milanese, in ogni caso, avrebbe dovuto escludere anche l'assimilabilità, per natura, dell'atto de quo ad uno degli atti specificamente elencati nella citata disposizione sul processo tributario, o motivare esplicitamente in ordine ad essa.
Il disposto sugli atti impugnabili dinanzi alle commissioni tributarie, l'art. 19 d.lg. n. 546 del 1992, fu naturalmente concepito come complementare alla norma principe sui limiti della giurisdizione delle Commissioni: il precedente articolo 2 dello stesso decreto delegato. Entrambe le disposizioni, in origine, furono pensate e formulate, dal legislatore processuale, come complementari elencazioni tassative o tendenzialmente tali. Pertanto, l'intervento sulla giurisdizione tributaria - una trasformazione epocale e «qualitativa» (non, cioè, mera estensione rispetto ai precedenti limiti) - avrebbe dovuto essere accompagnato da una più complessiva e coerente riscrittura di molta parte delle disposizioni generali di quel processo, verificando la tenuta delle indicazioni dell'art. 19 richiamato, ovvero attenuandone certe asperità, in molta parte già sfumate dalla sua rielaborazione giurisprudenziale, e magari cogliendo quella rara occasione, anche per rimeditare le norme sui soggetti del processo ed i legittimati a stare in giudizio. Sul punto la Suprema Corte di Cassazione ha, comunque, precisato che «l'elencazione degli "atti impugnabili", contenuta nell'art. 19 d.lg. n. 546 del 1992, pur dovendosi considerare tassativa, va interpretata in senso estensivo, sia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento della P.A., che in conseguenza dell'allargamento della giurisdizione tributaria operato con la l. n. 448 del 2001» (cfr., sez. V-trib., sent. 25 febbraio 2009, n. 4513), «fino a comprendervi le "notizie" o "note" comunicate dall'Ufficio che, pur non rivestendo l'aspetto formale proprio di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili, portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, suscitandone l'interesse (inteso con riferimento all'art. 100 c.p.c.) a chiederne il controllo di legittimità in sede giurisdizionale» ed, in specie, sino ad ammettere l'impugnabilità della «comunicazione con cui l'Ufficio revochi la sospensione della procedura di riscossione, precedentemente concessa in attesa di verificare il diritto allo sgravio, trattandosi di provvedimento riconducibile, nella sostanza, ad un diniego di sgravio, idoneo ad esplicitare la volontà negativa dell'Ufficio rispetto all'istanza avanzata dal contribuente e perciò rientrante nella previsione dell'art. 19, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 546 del 1992» (così, Cass., sez. V-trib., sent. 12 gennaio 2010, n. 285). Persino le Sezioni Unite civili hanno ribadito detto generale principio, nell'ammettere l'impugnabilità del fermo di beni mobili registrati ancor prima della sua espressa menzione nell'elenco normativo degli atti impugnabili dinanzi alle Commissioni Tributarie (cfr., ancora, Cass., sez. un., ord. 11 maggio 2009, n. 10672).
Sulla questione della giurisdizione in ordine all'atto di cui all'art. 72-bis d.P.R. n. 602 del 1973, inoltre, esiste un contrario orientamento espresso da alcuna giurisprudenza tributaria di merito, secondo la quale la giurisdizione sull'atto di cui all'art. 72-bis d.P.R. n. 602 del 1973, qualora funzionale all'esecuzione di una pretesa di natura tributaria, spetta alle Commissioni Tributarie e l'atto stesso è senz'altro impugnabile dinanzi al Giudice fiscale. In particolare, la Comm. Trib. Prov. di Treviso, sez. n. 7, con sent. 28 gennaio 2009, n. 23, dopo aver affermato la propria giurisdizione e l'impugnabilità dell'atto in questione allorché - come nella fattispecie in quell'occasione definita - sia funzionale alla riscossione di pretese tributarie in parte mai prima di allora partecipate al contribuente (il quale impugnava il pignoramento presso il terzo, notificatogli quale debitore, sostenendo di non aver mai ricevuto notifica di una delle cartelle di pagamento contenente la pretesa a base dell'intimazione al terzo debitor debitoris), afferma, più in generale, la giurisdizione tributaria e l'impugnabilità dell'atto in questione, in ragione della sua stessa natura non esecutiva in senso proprio, o stretto, o almeno nel senso - a dire degli stessi Giudici veneti - attribuito dal legislatore alla locuzione «atti dell'esecuzione forzata» nel contesto dell'art. 2 d.lg. n. 546 del 1992. Segnatamente il Collegio veneto osserva che «il pignoramento presso terzi» ex art. 72-bis d.P.R. n. 602 del 1973, è «un atto amministrativo posto in essere da un Agente delta riscossione», «diretto alla riscossione di tributi », e si inscrive in una «particolare procedura che si sostanzia nell'ordine rivolto al terzo, debitore del contribuente, di pagare ad esso Agente, senza passare attraverso la citazione del terzo a comparire avanti al Giudice dell'esecuzione»; pertanto, l'atto in esame, a dire del Giudice tributario veneto, non può «essere considerato un atto dell'esecuzione tributaria», anche perché la «procedura ... sotto il controllo del Giudice ordinario» «è stata sostituita con un atto promanante direttamente dall'Agente della riscossione il quale, in virtù dei poteri conferitigli dalla norma, ordina al terzo di pagate direttamente a egli medesimo», non vi è «nomina di un Giudice dell'Esecuzione e ... non c'è più la previsione di un ricorso che possa essere proposto a tale Giudice con tutte le garanzie che vi ineriscono». «Ne consegue» - conclude la Commissione di Treviso - «che la procedura di cui si discute non rientra nella esclusione» di cui all'art. 2 d.lg. n. 546 del 1992, anche in considerazione della circostanza che «ex art. 72-bis d.P.R. n. 602 del 73 il ricorso al Giudice è solo eventuale e si ha nel caso in cui il terzo pignorato non dia ottemperanza all'ordine di pagamento ricevuto», sì che deve escludersi che «l'ordine di pagamento emesso al terzo da parte dell'Agente della riscossione ex art. 72-bis d.P.R. n. 602 del 1973» «costituisca una esecuzione forzata tributaria nel senso della previsione di cui all'art. 2 d.lg. n. 546 del 1992», trattandosi, invece, «di una nuova e più snella forma di riscossione amministrativa del credito tributario legislativamente prevista» e di un «atto amministrativo tributario impugnabile avanti al Giudice Tributario con ricorso proposto avanti alla Commissione Tributaria competente», a nulla rilevando la circostanza che «l'art. 19» dello stesso d.lg. n. 546 «non menziona l'atto di pignoramento dei crediti presso terzi ex art. 72-bis d.P.R. n. 602 del 1973, tra quelli impugnabili avanti alle Commissioni Tributarie», nella misura in cui «tale elencazione è suscettibile di interpretazione estensiva secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione (sent. n. 27385 del 18 novembre 2008) ».
Alla luce della recente giurisprudenza di legittimità, nel valutare il pronunciato della Commissione piemontese che costituisce oggetto di questo breve commento va, in ogni caso, escluso che possa rilevare a radicare in qualche modo la giurisdizione la conclusiva allusione dei Giudici piemontesi circa l'opportunità - il vantaggio che conseguirebbe nella fattispecie concreta oggetto di quel giudizio - che il Giudice ordinario definisca complessivamente la questione, avendo giurisdizione anche per i crediti di natura non tributaria. Le sezioni unite civili della Suprema Corte di Cassazione, infatti, da ultimo con ordinanza 3 marzo 2010, n. 7612, hanno precisato che «è priva di rilievo la circostanza che, potendo la rateizzazione riguardare debiti di diversa natura, il debitore debba adire giudici diversi in relazione alla diversa natura dei debiti stessi, essendo, questo, un inconveniente di fatto comune all'intera materia della riscossione mediante ruoli».
Va inoltre considerato che nella formula del novellato art. 2 d.lg. n. 546 del 1992, il profilo di novità essenziale è nel sostanziale «ribaltamento» strutturale del rapporto tra giurisdizione per materia e giurisdizione residuale di struttura analitica e tipica (tenuto conto del quasi speculare sistema prima desumibile dal riparto tra AGO - art. 9 c.p.c. - e Commissioni tributarie - art. 2 vecchio testo d.lg. n. 546 del 1992) e, quindi, nella emancipazione «qualitativa» della giurisdizione delle Commissioni dall'assetto speciale e tassativo previgente, sino ad una dimensione ontologica «esclusiva»: un rivolgimento, con le dovute proporzioni, «copernicano», cui è connaturata la generalità e la concentrazione della funzione di ius dicere in materia fiscale. Anche le sezioni unite civili della Suprema Corte hanno contribuito a sedimentare una lettura restrittiva e, potremmo dire, testuale della seconda parte dell'art. 2 d.lg. n. 546 del 1992, affermando che il «fermo amministrativo ex art. 86 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602» si inscrive in una «procedura alternativa all'esecuzione forzata vera e propria, autonomamente disciplinata dal d.P.R. n. 602 cit.» e ciò induce ad escludere la «giurisdizione del giudice ordinario, che in materia tributaria è limitata alle controversie attinenti all'esecuzione forzata» (così, Cass., sez. un., ord. 11 maggio 2009, n. 10672).
Alla luce di quanto sopra sinteticamente precisato e riportato, pertanto, l'inquadramento dell'atto emesso ex art. 72-bis d.P.R. n. 602 del 1973 tra gli atti dell'esecuzione meriterebbe ben altro approfondimento e, comunque, permane questione complessa e ancora nebulosa, dal momento che si tratta di qualificare un atto contenente ordine al terzo debitor debitoris di provvedere ad un pagamento «spontaneo» in un termine perentorio e che, pur inscrivendosi tra i pignoramenti - come ripetutamente evidenziato dalla giurisprudenza di merito -, quell'atto costituisce procedura «alternativa» all'esecuzione in senso stretto, a sua volta eventuale e successiva, oltre che subordinata all'inadempimento spontaneo del terzo. Nel ragionare della natura dell'atto in questione, inoltre, meriterebbe di essere partitamente considerato ed approfondito il rapporto tra la procedura di cui all'art. 72-bis d.P.R. n. 602 e l'ordinario pignoramento presso terzi, in quanto quest'ultimo, per molti aspetti, è stato concepito e ricostruito come procedimento complesso destinato a perfezionarsi con l'individuazione dell'oggetto del pignoramento e l'accertamento del debito del terzo debitor debitoris.
La circostanza che, per quanto sopra illustrato, il riconoscimento della giurisdizione ordinaria comporterebbe la soggezione della fattispecie ai divieti e limiti alla tutela giurisdizionale contenuti nel d.P.R. n. 602 del 1973, quando, come nella specie, il credito da riscuotere abbia natura o titolo tributario, sembra destinata ad una rilevanza marginale nell'economia del descritto quadro interpretativo e ricostruttivo, ma può concorrere a stimolare letture alternative a quella prospettata dalla Commissione piemontese nella pronuncia in commento.
Per le ulteriori riflessioni che può indurre, sia in ordine alla natura dell'atto ex art. 72-bis d.P.R. n. 602 del 1973, sia in ordine ai cennati limiti alla tutela giurisdizionale che in quello stesso decreto sono posti in correlazione alla natura tributaria del credito, è appena il caso - davvero da ultimo - di ricordare e sottolineare l'ormai consolidato orientamento delle sezioni unite civili della Suprema Corte di Cassazione sulla natura dell'iscrizione ipotecaria ex art. 77 stesso d.P.R. n. 602 del 1973 e la relativa giurisdizione: il riferimento, in particolare, è alle reiterate pronunce in cui la Corte ha affermato che «le controversie aventi ad oggetto l'impugnazione del provvedimento d'iscrizione di ipoteca sugli immobili, al quale l'Amministrazione finanziaria può ricorrere in sede di riscossione delle imposte sui redditi, ai sensi del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 77, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, se promosse in epoca anteriore all'entrata in vigore del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35 comma 26-quinquies, (introdotto dalla legge di conversione 4 agosto 2006, n. 248)», trattandosi «di un provvedimento preordinato all'espropriazione forzata, in relazione al quale la tutela giudiziaria, esperibile nelle forme dell'opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, non può realizzarsi né dinanzi al giudice amministrativo, mancando l'esercizio di un potere di supremazia in materia di pubblici servizi, né dinanzi al giudice tributario, ai sensi del d.lg. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2 comma 1 (come modificato dalla l. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 12 comma 2) (così, per tutte, Cass., sez. un., ord. 16 giugno 2010, n. 14501; e già Cass., sez. un., ord. 24 marzo 2009, n. 7034).

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