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Da: Jack16/12/2009 13:31:57
Il Jack che ha scritto indulo non è lo stesso, io ho postato il parere della 2° traccia, cmq se non lo vuoi utilizzare fai pure.
Il parere non è stato stilato da me ma solo riportato, la fonte è http://supporto2009.forumcommunity.net/?t=33881536&st=870 by Erimata

Da: sarparello16/12/2009 13:32:10
ragazzi sto cazzo di sempronio è colpevole di spaccio per l'art. 73 dpr 309 comma 1 bis secondo periodo (modalità di presentazione della sostanza e bilancino), non colpevole della morte colposa ex artt 586 cp e 83, mancando il nesso causale, ma di indulto e prescrizione del reato di cui all'art. 73 dpr 309/90 cosa mi dite???

Da: aly to jack16/12/2009 13:32:18
l'indulto nn s applica a chi spaccia grosse quantita  a chi spaccia a minorenni

Da: smargiasso16/12/2009 13:33:32
sono tutti sbagliati hahahahahahahahah

Da: parere svolto seconda traccia16/12/2009 13:33:47
occorre risolvere la seguente questione giuridica: quella se il delitto relativo alla falsa attestazione del privato ex art. 483 cp concorra con il delitto di falsita’  per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell'atto pubblico ex art. 48 e 479 cp al quale l'attestazione inerisca e quali siano le condizioni per la configurazione di questo secondo reato, in presenza (o meno) del primo.
Il reato in questione si struttura per l’esistenza di una falsità del privato che determina un’altra falsità ideologica in atto pubblico posta in essere dal pubblico ufficiale, che però non risponde di essa per mancanza di dolo. La questione da risolvere, nella specie, è se oltre al falso ideologico del privato ex art. 483 cp la condotta dei pubblici ufficiali abbia dato luogo o meno ad un atto pubblico ideologicamente falso nei termini di cui all’art. 479 cp, tenendo conto che i pubblici ufficiali si limitarono a prendere atto della attestazione dei privati sulla data della iscrizione all’albo.
La Cass a S.U., in ordine alla questione della individuazione delle condizioni di configurabilità del reato di cui agli artt. 48 e 479 cp, pure in presenza o meno del reato di cui all’art. 483 cp, ha risolto il contrasto giurisprudenziale.
Preliminarmente la S.U. ritiene sussistente il reato di cui all’art. 483 cp, considerato che nelle due distinte dichiarazioni sostitutive di certificazione destinate a provare la verità, ossia la iscrizione all’Albo nazionale costruttori, gli imputati hanno falsamente attestato il possesso di un requisito indispensabile per la partecipazione all’appalto.
Come ha avuto modo di affermare la giurisprudenza, presupposto del delitto ex art. 483 cp è l’esistenza di una norma giuridica che attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati dal pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di dichiarare il vero (Cass n. 6/99; n. 28/00).
Per l’individuazione di tale norma giuridica è necessario ricordare che la dichiarazione sostitutiva di certificazione, prima disciplinata dalla legge 15/68, poi abrogata dall’art. 77 del DPR 445/00, non richiedenti autentica di firma, sono considerate, ai fini penali, come fatte a pubblico ufficiale e, quindi, presentino uno dei requisiti rilevanti per la configurazione del delitto in esame. La presentazione delle dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà con contenuto falso integra il reato di cui all’art. 483 cp, posto che del falso deve rispondere il dichiarante in relazione ad un preesistente obbligo di attestare il vero.
Ora passando all’esame della questione giuridica prima prospettata si può affermare che esistono una serie di orientamenti in merito.
Un primo orientamento giurisprudenziale è quello delle S.U., a cui si sono conformate altre pronunce sempre della medesima corte, secondo il quale l’atto pubblico, nel quale sia richiamato altro atto ideologicamente falso, è anch’esso falso, perché certifica l’esistenza di attestazioni presumendole vere, con la conseguenza che se, invece, le attestazioni richiamate sono false, è falso pure l’atto pubblico che le pone a premessa. Tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento a contenuto descrittivo o dispositivo dando atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza del reato di cui agli artt. 48 e 479 cp. Infatti, il provvedimento del pubblico ufficiale è ideologicamente falso in quanto adottato sulla base di un presupposto che in realtà non esiste. Di tale falso, però, non risponde il pubblico ufficiale, perché in buona fede in quanto tratto in inganno, bensì il soggetto che lo ha ingannato.
Una conseguenza discendente direttamente dalle caratteristiche genetiche dell'atto emanato, ed in particolare dai suoi presupposti, che trovano spazio nel "preambolo dell'atto stesso". Per cui se detti presupposti (documenti, certificati etc.) "sono falsi, materialmente o ideologicamente, deriva che anche la conseguente attestazione circa l'esistenza dei presupposti è falsa". Si evince in tale pronuncia una interpretazione ampia degli artt. 48 e 479 cp (Cass a S.U. n. 1827/95; conforme Cass n. 607/96; n. 2043/97; n. 2703/05).
Altra giurisprudenza, di contro, ha affermato che solo quando il pubblico ufficiale, inconsapevolmente, raccolga dal privato una falsa attestazione relativa a fatti dei quali essa è destinata a provare la verità e quando detta attestazione venga poi utilizzata dal soggetto ingannato per descrivere od attestare una situazione di fatto più ampia di quella certificata dal mentitore, resta integrata la fattispecie del falso ideologico per induzione in errore del pubblico ufficiale ex artt. 48 e 479 cp. Tale fattispecie può concorrere con il delitto di cui all’art. 483 cp, quando la falsa dichiarazione del privato, prevista di per sé come reato, è in rapporto strumentale con la falsità ideologica che il pubblico ufficiale, in quanto autore mediato, ha posto in essere. Si evince da tale pronuncia una interpretazione più ristretta delle norme in esame (Cass n. 38453/01; n. 22021/03; n. 545/07).
La Suprema Corte ribadisce aderisce all'orientamento già espresso dalle Sezioni Unite del 1995.
A parere della Corte infatti le condotte necessarie e sufficienti a configurare i delitti in questione si riferiscono al comportamento del decipiens, consistente nella redazione della falsa attestazione concretatasi inoltre nell'induzione in errore del pubblico ufficiale, non necessitando, contrariamente a quanto affermato da altra giurisprudenza, la fattispecie incriminatrice di un "quid pluris" (la situazione di fatto più ampia) rispetto alla dichiarazione non veritiera o all'atto falso prodotto.
Di qui, il rapporto di causa-effetto tra il fatto attestato dal privato, quale presupposto dell'emanazione dell'atto del pubblico ufficiale, ed il contenuto dispositivo di quest'ultimo produrrebbe la conseguenza per cui "la falsità del primo si riverbera sul secondo e diventa essa stessa falsità; sicché la recepita falsa attestazione del decipiens acquista la ulteriore veste di falsa attestazione del pubblico ufficiale deceptus sui fatti falsamente dichiarati dal primo e dei quali l'atto pubblico è destinato a provare la verità".
Anche nel presente giudizio quindi, "il provvedimento del pubblico ufficiale è ideologicamente falso in quanto adottato sulla base di un presupposto che in realtà non esiste. Di tale falso, però, non risponde il pubblico ufficiale, perché in buona fede in quanto tratto in inganno, bensì il soggetto che lo ha ingannato".
Le Sezioni Unite, quindi hanno affermato il principio secondo il quale il delitto di falsa attestazione del privato (di cui all'art. 483 cod. pen.) puo’ concorrere - quando la falsa dichiarazione del mentitore sia prevista di per se’ come reato - con quello della falsita’  per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell'atto al quale l'attestazione inerisca (di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen.), sempreche’ la dichiarazione non veridica del privato concerna fatti dei quali l'atto del pubblico ufficiale e’ destinato a provare la verita’.
Nella fattispecie e’ stato ravvisato anche anche il reato di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen., poiche’ le false dichiarazioni degli imputati, gia’  costituenti di per se’ reato, si sono poste in rapporto strumentale con atti pubblici successivamente redatti da pubblici ufficiali, pure affetti da falsita’  ideologiche.
Sussiste pertanto, nella specie, anche il reato di cui agli artt. 48 e 479 cp, poiché le false dichiarazioni degli imputati, già costituenti di per sé reato ai sensi dell’art. 483 cp, si sono poste in rapporto strumentale con atti pubblici successivamente redatti dai pubblici ufficiali, pure affetti da falsità ideologiche.


Da: LAIKA16/12/2009 13:34:42
W jack

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Da: Valeria 16/12/2009 13:35:46
Mi mandate il parere di penale 1 traccia

Da: uyter X JACK16/12/2009 13:36:59
non ne ho bisogno....esame superato....senza sto schifo che si fa qui sopra....ecco hai postato un parere che non è nemmeno frutto del tuo lavoro....hahahahaha....ma è ovvio....tanto non lo sai fare un parere......

Da: luna16/12/2009 13:39:35
PARERE SUGLI STUPEFACENTI:
In via principale, prima di analizzare in maniera approfondita la giurisprudenza di legittimità che si è succeduta negli anni, sino all’intervento risolutore e chiarificatorio delle Sezioni Unite con la nota sentenza n.22676 del 29 maggio 2009, occorre valutare che la vicenda a carico di Sempronio, vede quali questioni fondamentali il fatto che egli, al momento in cui aveva ceduto un certo ridotto quantitativo di droga a Tizio, amico di Caio, non potesse prevedere che questi avrebbe assunto la sostanza assieme a Caio, nè tantomeno poteva sapere che quest’ultimo avrebbe fatto uso di alcool in associazione alla eroina.
Occorre innanzitutto rappresentare che non vi è dubbio sulla imputazione che verrà contestata a Sempronio di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti ai sensi dell’art. 73 DPR 309/90, in relazione non solo alla chiamata in reità da parte di Tizio, il quale aveva dichiarato di aver acquisitato la sostanza stupefacente da Sempronio, ma anche a seguito delle emergenze della perquisizione domiciliare, nel corso della quale si trovava ulteriore sostanza drogante del tipo eroina ed il materiale necessario al confezionamento della medesima.
La questione che qui interessa, invece, riguarda la riconducibilità della fattispecie di reato previsto e punti dall’ art. 586 c.p., in merito alla quale si sono espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la suindicata sentenza e l’ipotizzabilità dell’ipotesi attenuata di cui al V comma dell’art. 73 DPR 309/90.
Le Sezioni Unite risolvono la questione considerando, la natura e l’ambito della responsabilità prevista dall’art. 586 c.p., in una prospettiva costituzionalmente orientata ed affermando “in tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, la morte dell’assuntore di sostanza stupefacente è imputabile alla responsabilità del cedente sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma che incrimina la condotta di cessione) e con prevedibilità ed evitabilità dell’evento, da valutarsi alla stregua dell’agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente realeâ€.
Tale questione era sorta a seguito delle discordanti decisioni delle sezioni della Suprema Corte, che avevano cercato di risolvere l’annoso problema della riconducibilità della responsabilità del reato di morte quale conseguenza della cessione di sostanza stupefacente allo spacciatore della droga stessa, approcciando di volta in volta diversi aspetti del diritto sostanziale.
La sentenza della Suprema Corte di Cassazione emessa in 28 giugno 1991 n. 11965 ric. Greco, sostenne “lo spacciatore di droga risponde del reato di cui all’art. 586 c.p. nel caso di morte dell’acquirente derivata dall’assunzione della sostanza stupefacente. Il rapporto tra il fatto del delitto doloso (spaccio di stupefacenti e vendita della dose) e l’evento non voluto (morte del tossicodipendente) è stabilito dalla mera causalità materiale, sicchè l’imputato, come autore del delitto doloso, deve rispondere a titolo di colpa dell’evento non voluto, indipendentemente o anche in assenza di qualsiasi errore o altro fatto colposo o accidentaleâ€.
Ai sensi della suindicata giurisprudenza di legittimità sarebbe stata quindi superflua una indagine specifica sulla sussistenza, in concreto, degli estremi della colpa in relazione all’evento non voluto, poichè lo spacciatore rispondeva a titolo di responsabilità oggettiva, necessitando unicamente la prova del nesso di causalità materiale tra la condotta di cessione e l’evento morte, non interrotto da cause sopravvenute.

La nota sentenza del 1994 n. 6339 (Ric. Melotto) sosteneva invece “In tema di attività illecite concernenti gli stupefacenti, l’evento morte dell’acquirente in conseguenza dell’assunzione della droga ceduta non costituisce, di per sè, elemento ostativo all’applicazione della circostanza attenuante della lieve enitità del fatto di cui all’art. 73 V DPR 309/90. Infatti una corretta nozione del concetto di globalità dell’accertamento ai fini della concessione della detta attenuante non può paradigmaticamente ricomprendere il verificarsi di tale evento, conseguito ad assunzione di sostanza stupefacente ed addebitabile all’agente a titolo di colpa consistita nella violazione della legge sugli stupefacenti e nella conseguente prevedibilità dell’evento letale.â€
Pur valutando l’applicabilità del V comma dell’art 73 DPR 309/90, la Corte ravvisava nella fattispecie prevista dall’art. 586 c.p. una responsabilità per colpa specifica, in cui l’evento lesivo, conseguente dal delitto doloso commesso, è imputato al colpevole a titolo di colpa per violazione di legge, perché l’art. 43 c.p. annovera tra i criteri di qualificazione dei comportamenti colposi (in aggiunta alla imprudenza, imperizia e negligenza) anche l’inosservanza della legge.
La Suprema Corte a Sezioni Unite, invece, precisa come, ai fini della responsabilità penale, occorrerà espletare una valutazione positiva di prevedibilità ed evitabilità in concreto dell'evento, compiuta ex ante, sulla base del comportamento che sarebbe stato tenuto da un omologo agente modello, tenendo, inoltre, conto di tutte le circostanze della concreta e reale situazione di fatto.
Infatti, fondando il proprio convincimento sulle norme costituzionali, la Corte ha ritenuto che, affinchè sia rispettato l’art. 27 Cost., è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente.
Si dovrà pertanto verificare se nella situazione concreta dal punto di vista di un agente modello, quale può essere una persona ragionevole consapevole degli effetti della sostanza ceduta, risultava prevedibile l'evento morte come conseguenza dell'assunzione da parte di uno specifico soggetto di una determinata dose di droga.
Sempronio pertanto sarà da ritenere esente da colpa in quanto ad una attenta e prudente valutazione di tutte le circostanze del caso concreto l'evento morte o lesioni erano imprevedibili, per effetto di fattori non noti o non rappresentabili dal cedente, come nel caso di specie in cui alla cessione di una esigua quantità di droga è seguita la morte a causa della contemporanea assunzione di alcool.
La consulenza tecnica infatti ha attribuito il decesso di Caio al narcotismo esaltato nei suoi effetti dalla contemporanea assunzione di alcool etilico, anch’esso depressivo del sistema nervoso centrale, di cui il Sempronio non poteva prevederne l’uso da parte di Caio.
In conclusione, va dunque affermato il principio che nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 c.p. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il nesso di causalità tra cessione e morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia in concreto ascrivibile allo spacciatore e che quindi sia accertata in capo allo stesso la presenza dell’elemento soggettivo della colpa in concreto, ancorata alla violazione di una regola precauzionale e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in cocreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assume la sostanza.

Da ultimo in ordine alla questione riguardante l’attenuante di cui al V comma dell’art. 73 DPR 309/90, interviene a dissipare ogni dubbio la già citata sentenza Melotto del 1994, che chiaramente ammette la possibilità di concessione di tale ipotesi laddove vi sia la cessione di un quantitativo esiguo di sostanza stupefacente.
Pertanto se al Sempronio sarà contestata la detenzione e cessione di sostanza stupefacente, seppur nell’ipotesi attenuanta, ai sensi del DPR 309/90 al prevenuto non potrà essere ascrivibile il reato previsto e punito dall’art. 586 c.p.

Da: PRIMA E SECONDA TRACCIA16/12/2009 13:40:07

http://www.mininterno.net/fmess.asp?idt=3646

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Da: pippo PER VALERIA16/12/2009 13:42:08
TI RIPORTO QUELLO CHE FINO ADESSO è STATO GENTILMENTE OFFERTO

SPACCIO E MORTE DELL’ASSUNTORE



Cassazione, Sezioni Unite Penali, 29 maggio 2009, n. 22676



Per affermare la responsabilità dello spacciatore per morte dell’assuntore non basta il nesso eziologico tra cessione dello stupefacente e morte, ma occorre anche la colpa in concreto.



di Sara Farini



il presente contributo è tratto da Levita (a cura di), Cassazione penale 2009. Analisi ragionata della giurisprudenza di legittimità, roma, 2009



Area di classificazione: Delitti contro la persona

Sottoarea: Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto ��" Morte conseguente a cessione di sostanze stupefacenti ��" Responsabilità dello spacciatore ��" Colpa in concreto - Necessità.



Riferimenti normativi: Codice Penale, art. 586; Decreto Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73.



La massima: Nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 c.p. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il nesso di causalità tra cessione e morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia rimproverabile allo spacciatore sotto il profilo della colpa in concreto, che esige la violazione di una regola precauzionale diversa dalla norma penale che incrimina il reato base ed un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene vita del soggetto che assume la sostanza.

La prevedibilità ed evitabilità dell’evento devono essere valutate dal punto di vista di un razionale agente modello che si trovi nella concreta situazione dell’agente reale ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale.



Osservazioni introduttive

Con la pronuncia in esame le Sezioni Unite affrontano il problema relativo alla responsabilità dello spacciatore per morte del tossicodipendente, svolgendo al contempo un’indagine ad ampio raggio sulla struttura del reato di cui all’art. 586 c.p.; è inoltre l’occasione per affrontare da vicino il tema della colpevolezza e la sua centralità all’interno del sistema di diritto penale.

È orientamento ormai consolidato quello per cui, ferma l’applicabilità dell’art. 575 c.p. in tutti quei casi in cui la cessione dello stupefacente sia sorretta dalla volontà (anche nella forma più sfumata del dolo eventuale) di determinare la morte dell’assuntore, nelle ipotesi in cui la condotta di spaccio non sia accompagnata dalla volizione dell’evento ulteriore debba individuarsi un’ipotesi di morte o lesioni come conseguenza non voluta di altro delitto doloso; in siffatti casi, ricorrerà pertanto un concorso formale tra il reato base di cui all’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e la figura criminosa dell’art. 586 c.p. Questa linea interpretativa trova del resto conforto nella stessa formulazione dell’art. 81 d.P.R. n. 309/90 che, nel disciplinare la circostanza attenuante della prestazione del soccorso in caso di pericolo di morte o lesione dell’assuntore della sostanza stupefacente, richiama, tra le norme fondanti la responsabilità per la causazione della morte del consumatore, accanto agli artt. 589 e 590 c.p., anche l’art. 586 c.p.

Orbene, l’art. 586 c.p., quale norma di chiusura e di rafforzamento del sistema di tutela dei beni vita e integrità fisica, trova applicazione quando la morte o le lesioni, non rientranti nelle fattispecie speciali di stampo codicistico, siano conseguenza non voluta di altro delitto doloso; la ricorrenza di tale evento ulteriore comporta l’applicazione delle “disposizioni dell’articolo 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentateâ€. Trattasi, ad avviso della dottrina prevalente e di copiosa giurisprudenza, di una ipotesi speciale di aberratio delicti bioffensiva, dove l’elemento specializzante è dato dalla natura dell’offesa non voluta e dalla previsione di una circostanza aggravante speciale, oltre che dalla non necessaria indagine circa l’errore sui mezzi di esecuzione del reato o altra causa, che invece è richiesta dall’art. 83 c.p.

Dal punto di vista oggettivo, l’art. 586 c.p. è strutturato su di una condotta “indistinta†e non tipizzata sotto il profilo descrittivo-naturalistico, consistente nella commissione di un fatto preveduto dalla legge come delitto doloso - consumato o anche solo tentato -, fatta eccezione per le percosse e le lesioni, venendo altrimenti a configurarsi, in questo secondo caso, la diversa ipotesi dell’omicidio preterintenzionale. Così, secondo la giurisprudenza, non trova applicazione l’art. 586 c.p. laddove sia il soggetto agente ad iniettare direttamente la sostanza drogante nelle vene della vittima, dovendo ravvisarsi, in ipotesi di tal fatta, il delitto di cui all’art. 584 c.p., dal momento che la condotta in discorso integra la fattispecie di lesioni e non potendo assumere al riguardo alcun rilievo scriminante l’eventuale consenso del tossicodipendente (Cass., Sez. Quinta Pen., 23.03.2004, n. 13987).

Inoltre, tra la condotta che costituisce già di per sé reato doloso e l’evento morte o lesioni ulteriore deve intercorrere un rapporto di causalità.

Sul punto si è consolidato in giurisprudenza un orientamento che ne assume l’esistenza in termini alquanto ampi e che si risolve nel negare l’interruzione del nesso causale in presenza di comportamenti che, ulteriori rispetto alla prima condotta di cessione ed attribuibili a soggetti diversi dal primo spacciatore, si siano frapposti fra questa e l’evento morte. Per l’esattezza, si ritiene che il nesso eziologico tra la prima condotta e l’evento ulteriore non sia interrotto per effetto di successive cessioni di sostanza stupefacente, trattandosi di fattori concausali sopravvenuti, non anormali o eccezionali, ma del tutto ragionevolmente prevedibili (ex multis Cass. Sez. Sesta Pen., 28.07.2003, n. 31760): da un punto di vista oggettivo, dunque, il reato di cui agli artt. 586 e 589 c.p. potrà essere contestato non soltanto all’immediato cedente, ma anche gli spacciatori “intermediâ€, sino ad arrivare all’originario fornitore.

Alquanto discusso è invece il criterio di imputazione dell’evento morte, contrapponendosi al riguardo diversi orientamenti.

Limitando la nostra indagine al tema che ci occupa, ma il discorso potrebbe essere esteso in una prospettiva più ampia anche all’art. 586 c.p. in generale, secondo un primo indirizzo, il rapporto tra reato base e l’evento ulteriore deve essere ricostruito in termini di pura e semplice causalità materiale fra la pregressa condotta dolosa e l’evento medesimo, senza necessità di espletare in ordine a quest’ultimo alcuna indagine relativa all’elemento psicologico (Cass., Sez. Prima Pen., 23.10.1986, n. 11537; Cass., Sez. Sesta Pen., 02.12.1988, n. 11799). L’art 586 c.p., in altre parole, integrerebbe un’ipotesi di responsabilità oggettiva che, in ossequio al canone di antica memoria del versari in re illicita, ed apparentemente confermato in positivo dall’art. 42 co. 3 c.p., consente di addossare all’agente l’evento ulteriore per il solo fatto di aver innescato il nesso condizionalistico.

Secondo invece una diversa impostazione, prevalente nella giurisprudenza più recente ed ancorata all’indefettibile principio di colpevolezza, l’evento mortale non può essere ascritto allo spacciatore sulla base del mero nesso eziologico, a titolo dunque di responsabilità oggettiva, essendo invece necessario vagliare la sussistenza di un collante psicologico tra condotta ed evento: per l’esattezza, la punibilità in base all’art. 586 c.p. risulterebbe subordinata alla prevedibilità della morte o delle lesioni derivanti dal delitto presupposto (Cass., Sez. Sesta Pen., 26.02.1993, n. 1870; Cass., Sez. Quarta Pen., 22.07.1996, n. 7366; Cass., Sez. Quinta Pen., 21.04.2006, n. 14302).

La seconda interpretazione ha senz’altro il pregio di coniugare la fattispecie codicistica di cui si discorre ed il principio di colpevolezza declamato dall’art. 27 co. 1 Cost. ed in forza del quale lo spazio dell’illecito penale risulta circoscritto ai soli fatti riconducibili psicologicamente al soggetto agente. Come noto, infatti, il suddetto principio, per come ricostruito alla luce delle coordinate delineate dalla più recente giurisprudenza costituzionale, va inteso non soltanto nel significato minimo di divieto di responsabilità per fatto altrui, ma nel senso più pregnante di responsabilità per fatto proprio colpevole: nullum crimen sine culpa.

E se è vero che le “storiche†sentenze della Consulta datate 1988 sull’ignorantia legis scusabile e sul furto d’uso hanno chiarito che non ogni ipotesi di responsabilità oggettiva deve ritenersi a priori in contrasto con l’art. 27 Cost., non si può neppure sottacere che nell’economia della fattispecie tratteggiata dall’art. 586 c.p. l’evento morte costituisce senz’altro l’elemento su cui si appunta prevalentemente il disvalore del fatto: è dunque necessario il riscontro di un coefficiente psicologico che riconduca all’agente l’evento stesso, fondando un giudizio di rimproverabilità, sì da autorizzare e giustificare l’intervento della sanzione penale. Al riguardo va infatti rammentato che Corte cost., sent., 24.03.1988, n. 364, seppur in forma di obiter dicta, aveva operato la fondamentale distinzione fra responsabilità oggettiva pura (o propria), involgente tutte quelle ipotesi criminose in cui nessun elemento del fatto tipico è coperto dal dolo o dalla colpa dell’agente e che pertanto già in astratto è in contrasto con l’art. 27 Cost., e responsabilità oggettiva impropria (o spuria), riferibile a tutte quelle fattispecie in cui un solo elemento del fatto - o più di uno, ma non tutti -, a differenza degli altri, non è coperto da alcun coefficiente psicologico. In quest’ultimo caso, la Consulta proponeva una verifica di costituzionalità condotta con riguardo agli elementi più significativi della fattispecie e diretta ad appurare che gli stessi siano “coperti†almeno dalla colpa dell’agente, pena altrimenti l’illegittimità della disposizione oggetto di esame. Quali siano questi elementi più significativi della fattispecie è lo stesso giudice delle leggi ad indicarlo nella successiva sentenza n. 1085 del 13.12.1988: “perché l’art. 27, comma 1, Cost. sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano all’agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovatiâ€.

Ricomponendo i principi derivanti dalle pronunce su indicate, ormai divenuti consolidato diritto vivente, mentre la responsabilità oggettiva propria è sempre illegittima, diversamente, la responsabilità oggettiva impropria lo è soltanto nel caso in cui vengano posti a carico dell’agente, a prescindere dal dolo o dalla colpa, gli elementi principali della fattispecie, ovvero i componenti del fatto tipico che concorrono a determinarne il disvalore (o il maggior disvalore), in quanto intimamente connessi con l’offesa (e qui sta la loro “significativitàâ€), quale nucleo centrale del reato.

Alla luce dei principi sopra esposti appare dunque costituzionalmente imposta quella linea interpretativa che, affrancandosi dal principio del versari in re illicita, postula nell’agente l’esistenza di un coefficiente di colpevolezza per l’attribuzione dell’evento morte: sotto il profilo soggettivo, dunque, l’art. 586 c.p. esigerebbe, oltre al dolo per il reato presupposto, anche la colpa per l’evento ulteriore. Ed è proprio in ordine a quest’ultimo profilo che si registrano orientamenti fortemente contrastanti, a riprova di tutte le difficoltà esegetiche che si incontrano nel momento in cui si tratta di conciliare la moderna concezione della colpa e l’atteggiamento di colui che già versa in re illicita, soprattutto sotto il profilo dell’individuazione della regola cautelare sulla cui violazione fondare il giudizio di colpevolezza.

Ciò detto, si registrano pronunce in cui l’evento più grave viene imputato all’agente a titolo di colpa specifica, identificando la regola cautelare disattesa nella norma penale incriminatrice del reato base doloso. In tal senso si è quindi affermato che l’evento morte deve essere addebitato al fornitore, anche non immediato, della sostanza a norma dell’art. 586 c.p. a titolo di colpa, consistita nella violazione della legge sullo spaccio di stupefacenti e nella conseguente prevedibilità dell’evento letale (cfr., ad esempio, Cass., Sez. Sesta Pen., 26.02.1993, n. 1870). In altre parole, “l'evento lesivo, conseguente dal delitto doloso commesso, è imputato al colpevole, a titolo di colpa, per violazione di legge, perché l'art. 43 cod. pen. annovera tra i criteri di qualificazione dei comportamenti colposi (in aggiunta alla imprudenza, imperizia e negligenza), anche l'inosservanza della legge. Invero tale espressione non limita questo modo di essere della colpa alla sola violazione di legge a carattere squisitamente o esclusivamente cautelare, ma comprende anche la violazione delle stesse norme penali incriminatrici†(così, Cass., Sez. Prima Pen., 02.04.1986, Navarino).

A tale tesi, che risulta sfornita di qualsiasi temperamento in chiave personalistica, viene generalmente obiettato di risolversi in una forma di colpevolezza presunta (o in re ipsa) e quindi in una forma di responsabilità oggettiva occulta, sia perché la norma che punisce il reato base non ha finalità cautelari, sia perché, una volta accertato il dolo del reato base, vi sarebbe sempre l’imputazione dell’evento ulteriore, senza necessità di indagare in ordine alla concreta prevedibilità del medesimo da parte dell’agente. È inoltre evidente l’impossibilità di attribuire alla norma incriminatrice una duplice funzione, repressiva e preventiva al tempo stesso, posto che un’attività vietata in assoluto non può poi essere oggetto di un divieto o di un comando strumentale, finalizzato alla sua corretta esecuzione: sarebbe come ammettere che quella stessa disposizione, da un lato, esprima il divieto di tenere un certo comportamento, e dall’altro, faccia obbligo di dare esecuzione alla condotta criminosa con cautela.

L’orientamento ad oggi prevalente in giurisprudenza e in dottrina è dunque quello che vede una imputazione del fatto più grave (morte o lesione) a titolo di colpa generica ed in concreto, ammettendo dunque la configurabilità di doveri cautelari anche per colui che già versa in re illicita.

Più in dettaglio, tale orientamento sopperisce alla mancanza di regole cautelari ad hoc per i contesti illeciti, mediante la ricostruzione di cautele generiche mutuate dall’esperienza comune e comunque distinte dalla norma incriminatrice. Così ragionando, l’evento ulteriore sarà addebitabile all’agente soltanto laddove ricorrano gli estremi della colpa, ergo sia accertata la violazione di una regola cautelare e l’evento più grave sia prevedibile, quale conseguenza della condotta criminosa, ed evitabile, osservando la regola cautelare od astenendosi dall’attività vietata.

L’accertamento del requisito della prevedibilità dovrà essere condotto in maniera rigorosa ed avendo riguardo alla situazione fattuale oggetto del giudizio, tenendo conto di un coefficiente di prevedibilità concreta e non astratta del rischio connesso alla circolazione dello stupefacente determinato dalla commissione del reato doloso di base (si dovrà valutare. ad esempio, il grado di tossicità della sostanza, le condizioni di salute del tossicodipendente, ecc.: cfr., ad esempio, Cass. Sez. Quinta Pen., 21.04.2006, n. 14302; Cass. Sez. Prima Pen., 14.11.2002, n. 2595; Cass. Sez. Sesta Pen., 29.11.2007, n. 12129). Laddove, infatti, la prevedibilità dell’evento fosse valutata soltanto in astratto, si finirebbe per dedurre la colpa in maniera automatica dalla intrinseca pericolosità della sostanza stupefacente e dalla constatazione che, secondo la comune esperienza, la sua assunzione può provocare la morte del consumatore. In tal senso, quindi, il recupero della colpevolezza sarebbe soltanto formale ed anche la suddetta impostazione ermeneutica finirebbe per scadere nella responsabilità oggettiva.

A fronte di un sì variegato quadro interpretativo, le Sezioni Unite sono quindi chiamate a chiarire se “ai fini dell'accertamento della responsabilità penale dello spacciatore per la morte dell'acquirente, in conseguenza della cessione o di cessioni intermedie della sostanza stupefacente che risulti letale per il soggetto assuntore, sia sufficiente la prova del nesso di causalità materiale fra la precedente condotta e l'evento diverso ed ulteriore, purché non interrotto da cause sopravvenute di carattere eccezionale, ovvero debba essere dimostrata anche la sussistenza di un profilo colposo per non aver preveduto l'eventoâ€.

Osservazioni conclusive

“Al fine di individuare la soluzione preferibile, non può ovviamente prescindersi dal principio di colpevolezza e dalle sentenze della Corte costituzionale che gli hanno esplicitamente riconosciuto rango costituzionaleâ€: è da questa premessa di carattere metodologico che le Sezioni Unite muovono nel ricostruire l’elemento soggettivo della figura criminis sottoposta al loro esame.

E dal momento che, giuste le coordinate interpretative offerte dalla Consulta nei dicta del 1988, fra gli elementi della fattispecie di cui all’art. 586 c.p., che devono essere coperti almeno dalla colpa, va ricompreso anche l’evento non voluto, “in quanto esso è significativo sia rispetto all’offesa (in quanto offensivo di autonomi beni giuridici penalmente tutelati), sia rispetto alla pena (in quanto determina l’inflizione di una pena ulteriore)â€, si impone la necessità di individuare un coefficiente psicologico in grado di collegare all’agente l’evento ulteriore non voluto, in una dimensione di autentica colpevolezza; diversamente opinando si “imporrerebbe di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’istituto per contrasto con il principio di colpevolezza, secondo cui deve necessariamente postularsi la colpa dell’agente, almeno in relazione agli �«elementi più significativi della fattispecie�», fra i quali il �«complessivo ultimo risultato vietato�», se non si vuole incorrere nel divieto, ex art. 27, commi 1 e 3, Cost. della responsabilità oggettiva cd. pura o propriaâ€.

Eletta dunque la via più sopra delineata, la Suprema Corte si chiede se anche in questi casi la colpa presenti la stessa struttura che connota le “normali†fattispecie colpose, ovvero se tale coefficiente psicologico subisca delle modificazioni, specie sotto il profilo contenutistico, in conseguenza del fatto che l’agente, attraverso il delitto base doloso, si è posto in un’area di illiceità penale.

Orbene, le Sezioni Unite osservano al riguardo che la circostanza del versari in re illicita non incide affatto sulla fisionomia della colpa, rendendosi necessarie sempre e comunque sia l’individuazione di un agente modello, sia un’indagine condotta alla luce del punto di vista di quest’ultimo e finalizzata a verificare se all’agente concreto sia rimproverabile o meno la violazione della regola cautelare diretta ad evitare eventi prevedibili ed analoghi a quello di fatto verificatosi.

Per quanto attiene, nello specifico, alla individuazione della regola cautelare violata, si esclude in maniera decisa che essa possa identificarsi nella stessa norma penale che incrimina il reato base, ossia la cessione dello stupefacente, posto che la norma di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309/90 risulta sprovvista di finalità cautelari. Ed invero, la pericolosità delle condotte incriminate dalla legislazione in materia di stupefacenti è troppo “distante†rispetto alla singola condotta causativa dell’evento letale per poter imprimere alle stesse disposizioni incriminatrici uno scopo di tutela preventiva dell’individuo, in modo da giustificare anche concettualmente il ricorso alla colpa specifica. L’art. 73 d.P.R. n. 309/90 trova la sua ragion d’essere innanzitutto nell’esigenza di reprimere il mercato illegale della droga, approntando in tal modo, e seppure soltanto in via mediata, una tutela anticipata dell’incolumità dei consociati: si tratta in sostanza di uno scopo diverso da quello finalizzato alla diretta salvaguardia dell’integrità fisica del singolo individuo. Affermano infatti le Sezioni Unite: “a conferma del fatto che l’attuale legislazione in materia non ha una destinazione diretta ed immediata alla tutela dell’integrità fisica dei cittadini, sta la scelta del legislatore a favore della non punibilità del consumo personale di stupefacenti […] ed anche riconoscendo che lo scopo �«ultimo�» della sfera di protezione delle norme che vietano lo spaccio di sostanze stupefacenti sia la tutela della vita dei possibili consumatori, il disvalore di questo rischio generico si esaurisce nell’imputazione per il reato presuppostoâ€. Quel pericolo iniziale per l’incolumità insito nel commercio di sostanze stupefacenti è già ampiamente previsto e punito dalle norme speciali che sanzionano l’attività anzidetta; tale disvalore non può quindi essere riprodotto in un altro reato per il tramite dell’art. 586 c.p., soprattutto se “sganciato†dalla sussistenza di un profilo psicologico di colpa e fondato esclusivamente su una responsabilità di tipo oggettivo o su una colpa presunta per violazione della legge penale, perché in questo modo si verrebbe a sanzionare nuovamente un fatto già incluso per il suo carico di disvalore nella pena comminata per la condotta di spaccio.

Perché sussista un’autentica forma di colpevolezza sarà dunque necessario che l’agente abbia violato una regola cautelare diversa dalla legge sugli stupefacenti e che sia specificatamente diretta a prevenire la morte o le lesioni personali (ad es. non cedere sostanza drogante a chi fa uso di psicofarmaci); occorrerà inoltre una valutazione positiva in ordine alla prevedibilità ed evitabilità dell’evento, compiuta ex ante, sulla base del comportamento che sarebbe stato tenuto da un omologo agente modello, tenendo conto di tutte le circostanze della concreta e reale situazione di fatto. “Si dovrà pertanto verificare se dal punto di vista di un agente modello, nella situazione concreta, risultava prevedibile l’evento morte come conseguenza dell’assunzione, da parte di uno specifico soggetto di una determinata dose di droga. È evidente poi che per agente modello non si deve intendere uno �«spacciatore modello�», ma una persona ragionevole, fornita, al pari dell’agente reale di esperienza nel campo della cessione ed assunzione di sostanze stupefacenti e consapevole della natura e dei normali effetti della sostanza che cedeâ€.

Inoltre, trattandosi di attività già ex se pericolosa, il giudizio sulla prevedibilità ed evitabilità dell’evento si farà più stringente: lo spacciatore, in sostanza, è chiamato a valutare tutte le circostanze del caso concreto e a desistere dall’azione quando taluna di queste circostanze evidenzi un concreto pericolo per l’incolumità dell’assuntore, o comunque permanga una situazione di dubbio ed incertezza.

La colpa potrà pertanto escludersi soltanto allorquando la morte si verifichi per l’intervento di fattori non noti e non rappresentabili dal cedente, come ad esempio nel caso di cessione di una sostanza normale per quantità e qualità e di decesso dovuto alla contemporanea assunzione di sostanze alcoliche o di psicofarmaci, sempre che ovviamente lo spacciatore non fosse a conoscenza di una tale evenienza, ad esempio perché lo stupefacente è stato consegnato a soggetto che già si trovava in evidente stato di ebbrezza. Affermano infatti le Sezioni Unite: “potrà, invece, nei singoli casi concreti, ravvisarsi una responsabilità del cedente quando questi sia stato a conoscenza che il cessionario o il soggetto che di fatto avrebbe assunto lo stupefacente ceduto era dedito all’alcol o al consumo di psicofarmaci o aveva, al di là dell’apparenza, gravi difetti fisici ovvero anche quando la mancata conoscenza di uno di questi fattori sia derivata da errore o da ignoranza evitabili, e quindi inescusabili, come ad esempio nel caso in cui il soggetto abbia ceduto la sostanza ad un acquirente che denotava un alito vinoso, o che presentava caratteristiche esteriori di fragilità fisica o di consumatore di medicinali, o abbia ceduto la droga all’interno di una discoteca o di altro locale in cui solitamente si fa uso di sostanze alcoliche (essendo quindi altamente probabile una assunzione congiunta di droga e alcol), ovvero l’abbia ceduta a soggetti minorenni di cui poteva essere conoscibile la minore resistenza a quella determinata sostanza. Analogamente, la colpa in concreto potrebbe essere configurabile quando lo spacciatore abbia ceduto eroina ad un soggetto di cui conosceva i precedenti tentativi di disintossicazione e quindi la maggiore esposizione al rischio di overdose; o quando abbia ceduto sostanza micidiale come l’eroina a persona di giovanissima età, di esile costituzione fisica e che evidenziava la precedente assunzione di tranquillantiâ€.

Egualmente sarà ravvisabile la colpa nell’ipotesi in cui sia la particolare natura, quantità e qualità dello stupefacente ceduto o le modalità con cui il medesimo è stato miscelato con altre sostanze ad aumentarne la pericolosità per l’incolumità dell’assuntore.

Da: Jack x Uyter16/12/2009 13:43:01
Cerco di dare solo una mano senza fare inutili polemiche o creare nervosismo ai futuri colleghi, giusto per tua conoscenza ho già sostenuto l'esame un paio di anni fà, senza l'utilizzo di alcun aiuto e la commissione esaminatrice era Brescia, che non è rinomata per la sua benevolenza verso gli esaminandi.
Ed il parere di penale riguardava un reato avvenuto a Brescia quindi dovevamo andare contro le decisioni di 1° istanza e di appello ed appoggiare le decisioni della Corte, con il rischio che chi avrebbe corretto il compito potesse essere stato parte nei processi.

Da: carla16/12/2009 13:45:24
dove trovo il parere di alfano???????????????????''

Da: jack16/12/2009 13:45:53
l'indulto non si applica a tutti gli stupefacenti!!!!!!!! chi dice il contrario è un ignorante. in merito a qualche altro genio ch ha parlato di prescrizione sottolineo che il 5° comma dell'art. 73 dp.r. 309/90 non è una fattispecie autonoma ma circostanza attenuante, che, come tale non rileva ai fini del calcolo della prescrizione.

Da: sorella inviperita16/12/2009 13:46:53
se ti ergi in questo modo al di sopra di tutti perchè a quest'ora non sei dietro alla tua bella scrivania di radica di noce a beneficiare della tua onniscienza l'umanità intera?

Da: sarparello16/12/2009 13:47:53
ma indulto e prescrizione si applicano???

Da: pippo PER CARLA16/12/2009 13:52:57
...se non sbaglio a pag. 881

Da: nico16/12/2009 13:54:01
ma una soluzione definitiva sugli stupefacenti ??????:.............................

Da: pippo PER CARLA16/12/2009 14:00:07
882

Da: uyter X JACK16/12/2009 14:01:59
se lo facessero loro.....trovo un finto buonismo...

Da: per Smargiasso16/12/2009 14:04:29
cosa sarebbe sbagliato?
forse il tuo intervento?

Da: UYTER16/12/2009 14:05:28
MASSA DI CIUCCIONI COI PALMARI....HAHAHAHAHAHA

Da: Jimbo16/12/2009 14:07:57
uter sì proprio nù pep!

Da: aldo16/12/2009 14:09:17
dite che il parere è perfetto. Ma averte considerato la scriminante di cui all'art. 53 l. 45 del 2007?
perchè tuto ruota intorno a questo?

Da: nooooooooo16/12/2009 14:10:07
http://www.ordineavvocatims.it/attachments/174_dm-abbinamento-corti-appello.pdf

Da: nooooooooo16/12/2009 14:10:59
lecce di nuovo corretta da salernooooooo...non è giusto, salerno fa passare l'80% e lecce boccerà tutti i palermitani

Da: UYTER16/12/2009 14:12:36
JIMBO...COPIA DAI COPIA.....HAHAHAAH....ASINACCI COI PALMARIIII...NEI CESSI A COPIARE...HAHAHA

Da: aldo16/12/2009 14:16:14
fermi tutti gli sviluppi delle tracce sono sbagliati

Da: adulto16/12/2009 14:16:44
caro uyter penso proprio tu ti stia chiamando le peggiori maledizioni di questo mondo. Continua a giocare con le bambole e quando hai finito vedi di andartene a fare ...... il resto lo capisci da solo, penso...

Da: UYTER16/12/2009 14:17:49
CERCO SOLO DI FAR CAPIRE DI NON FIDARSI TROPPO....E CHE GLI SVILUPPI POSSONO ESSERE ERRATI....

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