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Da: ... | 08/01/2009 16:34:59 |
ormai sei stato sgamato | |
Da: ammesso e stanco | 08/01/2009 16:37:30 |
Qualcuno ha chiamato la ssai? Novità? | |
Da: basta stronzate! | 08/01/2009 16:37:46 |
Vogliamo parlare di cose serie, possibilmente? Quando faranno i tagli? Si è capito chi li deve fare e se stanno lavorando per farli? | |
Da: si | 08/01/2009 16:38:16 |
stanno lavorando | |
Da: George | 08/01/2009 16:40:49 |
Che stress. Voglio lavorare :( | |
Da: caro "si" | 08/01/2009 17:16:36 |
Quale ufficio sta lavorando? | |
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Da: questo | 08/01/2009 17:37:14 |
non lo so | |
Da: e allora | 08/01/2009 18:06:32 |
è meglio che taci | |
Da: !!! | 08/01/2009 18:11:48 |
amen | |
Da: per allora | 08/01/2009 18:41:26 |
sei solo un demente | |
Da: !!! | 08/01/2009 19:21:00 |
Riportiamo la discussione sui giusti binari? Io mi auguro che stiano lavorando ai tagli ma... chi ha notizie certe al riguardo? Chi si può chiamare per sapere qualcosa? | |
Da: !!! | 08/01/2009 19:25:55 |
08.01.2009 Fissate le dotazioni organiche consentite a comuni e province in condizione di dissesto finanziario Definite con un decreto del ministro Maroni, saranno valide per il triennio 2008-2010 Le province e i comuni che si trovano in condizioni di dissesto finanziario dovranno attenersi, per stabilire le dotazioni organiche su cui poter contare, al rapporto medio dipendenti-popolazione contenuto nella tabella del decreto del ministro dell'Interno 9 dicembre 2008. Tale rapporto è stato fissato dopo il censimento generale del personale in servizio presso gli enti locali, dati rilevati al 30 giugno 2007, e tenendo conto della fascia demografica di appartenenza. Ad un comune con meno di mille abitanti, ad esempio, è concesso disporre di un dipendente per ogni 110 cittadini, mentre un comune oltre i 250.000 abitanti potrà contare su un dipendente ogni 95 abitanti. I parametri resteranno in vigore per tutto il triennio 2008-2010. Potrebbe stimolare il dibattito??? :) | |
Da: !!! | 08/01/2009 19:27:48 |
Ma il sito sarannoprefetti non viene aggiornato da mesi??? I Prefettizi lavoraano davvero tanto... :) | |
Da: hihihihihihihihihihihi | 08/01/2009 19:30:47 |
Da mattina a sera! hihihihihihihihihihihihi | |
Da: !!! | 08/01/2009 19:31:39 |
Aloisius pensa a studiare!!! :) il 14 gennaio è vicino!!! | |
Da: aloisius | 08/01/2009 19:33:45 |
Ciao !!! Il 14 gennaio? | |
Da: !!! | 08/01/2009 19:40:14 |
E' una data importante... | |
Da: aloisius | 08/01/2009 19:43:28 |
Ah, vero è, mi sono ricordato che devo fare una cosa il 14 gennaio. !!!, sei davvero un amico :) | |
Da: !!! | 08/01/2009 19:43:52 |
Prego | |
Da: Per tutti i 215 | 08/01/2009 20:37:44 |
Sgueo Gianluca Le ordinanze di necessità ed urgenza. Riflessioni sullâinscrivibilità di un potere fortemente discrezionale in un sistema pubblicistico improntato al garantismo. 1. Introduzione. Le ordinanze di necessità ed urgenza nellâordinamento italiano. Il percorso della ricerca â" 2. Il sistema delle fonti - 3.1 Il principio di legalità nel rapporto con le ordinanze di necessità ed urgenza â" 3.2 Segue. Il principio di tipicità - 4.1 Un ragionamento circolare ad excludendum: gli atti necessitati â" 4.2 Segue. I bandi militari - 4.3 Segue. Gli atti aventi natura normativa - 4.4.1 Segue. Gli atti amministrativi â" 4.4.2 La tutela giurisdizionale - 4.4.3 La giurisprudenza costituzionale favorevole alla natura amministrativa delle ordinanze dâurgenza e necessità â" 4.5 Segue. La tesi intermedia dellâirriconducibilità ad una singola ipotesi â" 5. Giungendo ad una conclusione: le singole tipologie di ordinanza contingibile ed urgente ammissibili nellâordinamento - 6. Riflessioni conclusive 1. Introduzione. Le ordinanze di necessità ed urgenza nellâordinamento italiano. Il percorso della ricerca Le ordinanze di necessità ed urgenza integrano lâipotesi in cui lâAmministrazione pubblica, nellâesercizio di potere dispositivo, ed in circostanze eccezionali â" appunto, di urgenza e necessità, in ragione delle contingenze che volta per volta si verifichino â" adotta provvedimenti di contenuto atipico[1]. Si tratta, con tutta evidenza, di ipotesi la cui particolarità induce ad una trattazione articolata, che va svolta seguendo quattro passaggi logici. Anzitutto, offrendo una breve disamina del sistema delle fonti del diritto amministrativo. In particolare, del rapporto tra fonte primaria, la legge, e le fonti secondarie, nel cui novero, secondo alcuni, si inseriscono tali ordinanze. Elaborando, poi, una migliore definizione del principio di tipicità, rispetto al quale tali fonti operano una significativa deroga. Ammettendosi, infatti, la possibilità di tutelare il pubblico interesse attraverso un atto non riconducibile alla legge ed ai vincoli da questa imposti, viene meno uno dei corollari più importanti del principio di legalità. Appunto, quello che impone la tipicità degli atti amministrativi. Si snatura inoltre il sistema gerarchico delle fonti, dacché, almeno in apparenza, un atto secondario prevale su uno primario. Dalla definizione e trattazione della legalità e tipicità il passaggio successivo, il terzo, è automatico. Si vuole, per il tramite di questo, ricavare un duplice risultato. Confermare, anzitutto, la portata eccezionale di questa fonte normativa. In secondo luogo, appurare i limiti entro i quali è possibile ammetterne la legittimità. Lâobiettivo è quello dellâesaustività: dallâesame della dottrina e della giurisprudenza si vuole ottenere una piena padronanza concettuale del problema. Infine, comâè logico, la ricerca si premura di offrire un ventaglio di possibili soluzioni pratiche, mutuandole dalle riflessioni già evidenziate dallâinterpretazione dottrinaria e giurisprudenziale. Le ordinanze di necessità ed urgenza costituiscono un unicum difficilmente giustificabile se poste a confronto con un sistema normativo di stampo garantista, non avvezzo, dunque, alla generica ammissibilità di ipotesi derogatorie. Il compito dellâinterprete si fa arduo: giustificare la loro esistenza allâinterno o al di fuori di quello. 2. Il sistema delle fonti Un discorso che intendesse approfondire le problematiche connesse al sistema delle fonti occuperebbe uno spazio ben maggiore di quello concesso da questa ricerca. Lo scopo non è, allora, intrattenere il lettore nella disamina concettuale delle fonti dellâordinamento italiano e dei rapporti che queste intessono tra loro. Piuttosto, di questi concetti si offrirà una breve esposizione finalizzata a comprendere in quale grado gerarchico si collocano le ordinanze di necessità ed urgenza. Comâè noto infatti le fonti vengono strutturate secondo una gerarchia che vede, al vertice, la Costituzione, ed alla base la consuetudine, o prassi, o uso normativo[2]. Ebbene, in questo sistema di tipo verticale, le ordinanze vengono collocate tradizionalmente tra le fonti di natura secondaria. Rispondono infatti alla definizione coniata per tali fonti: atti o fatti che esprimono potere normativo da parte della pubblica Amministrazione statale o di altri enti pubblici[3]. Che tuttavia, in ragione della subordinazione alle fonti di rango costituzionale e primario, operano alla presenza di una serie di vincoli. In particolare, si trovano nellâimpossibilità di derogare o contrastare le fonti gerarchicamente sovraordinate. Ciò, si aggiunge, poiché posseggono non forza di legge, ma solo forza normativa. Una forza cioè pur sempre di tipo giuridico, che permette loro di disciplinare e tutelare i pubblici interessi ed incidere sulle posizioni giuridiche soggettive, ma, appunto, nel rispetto dei dettami delle fonti primarie. Câè inoltre da dire che, benché con le modifiche introdotte dal legislatore al Titolo V della Costituzione italiana, per il tramite della Legge costituzionale n. 3 del 2001, si sia ampliata lâimportanza delle fonti secondarie del diritto, tale circostanza non ha inciso specificamente sulle ordinanze. Infatti, nellâottica del decentramento delle funzioni, il legislatore della riforma ha inteso offrire agli Enti locali strumenti normativi di maggiore spessore rispetto al passato. Di conseguenza, ha rimodellato, ampliandoli, i poteri regolamentari e statutari. Non è invece intervenuto sullâanaloga possibilità regolatoria delle Amministrazioni, contenendone, semmai, i poteri, qualora intervengano in materie di spettanza delle autonomie locali. Ebbene, le considerazioni brevemente svolte inducono ad una prima riflessione. Se esiste un sistema gerarchicamente strutturato, le cui regole sovrintendono ai rapporti tra atti e fatti che producono diritto, di questo sistema è opportuno studiare la struttura. Lâanalisi del vincolo della gerarchia indotto (e giustificato) dalla presenza del principio di legalità costituisce, allora, il passaggio successivo della ricerca. Alle risultanze che emergeranno dallo studio di questo è affidata la definitiva dimostrazione delle peculiarità della fonte normativa in esame. 3.1 Il principio di legalità nel rapporto con le ordinanze di necessità ed urgenza Il secondo aspetto problematico, dunque, è quello inerente il rapporto di queste â" le ordinanze di necessità ed urgenza â" con il principio di legalità (e di tipicità) degli atti amministrativi. Se, e nella misura in cui, il principio di legalità[4] â" nella sua accezione più generale â" impone allâattività amministrativa di seguire i fini determinati dalla legge, esso si concreta nellâesigenza che quegli stessi atti amministrativi siano tipici e nominati. Tipici, in quanto espressamente previsti dalla legge. Nominati, poiché ammissibili solamente in presenza dei presupposti e dei motivi che la legge stessa si premuri di indicare[5]. La ragione del vincolo si spiega facilmente. Assicura che gli organi cui si demanda la tutela dellâinteresse pubblico operino nel rispetto del volere comune. Perché in un ordinamento moderno è il Parlamento ad essere depositario del potere di rappresentare la volontà generale. Perché, allora, la legge, ed il principio di legalità, informano lâesercizio dei poteri normativi secondari, permettendo al detto interesse comune di prevalere su quelli politici, settoriali e contingenti. Di conseguenza, ed almeno in teoria, nessun atto normativo secondario potrebbe evadere da questo vincolo, pena lâinammissibilità dello stesso. 3.2 Segue. Il principio di tipicità La tipicità in particolare, corollario del principio di legalità, opera riguardo al contenuto ed alla funzione del provvedimento. Al contenuto, perché ogni provvedimento deve essere previsto espressamente dalla legge, rispondendo alla figura che questa struttura. Alla funzione, perché ciascun provvedimento deve estrinsecare un potere che la legge attribuisce già alla pubblica Amministrazione. Deve cioè corredarsi di una causa tipica, come accade nel diritto privato per il negozio giuridico[6]. Le considerazioni di merito sono, allora, le medesime di quelle svolte per il principio di legalità, le conseguenze anche. Ove si intendesse privilegiare unâapplicazione rigida del principio si dovrebbe concludere per lâassoluta inammissibilità delle ordinanze dâurgenza e necessità. Quale, allora, la soluzione? Se si parte dal presupposto che è la legge stessa ad offrire alle Amministrazioni questo potere, è attraverso lo sviluppo del terzo aspetto della ricerca, quello attento ad una migliore configurazione delle tipologie di ordinanza (e dei problemi connessi) che si offrirà una (possibile) soluzione al quesito[7]. Ad emergere, tuttavia, non saranno solo gli aspetti definitori. Si giungerà invece a porre in discussione lâassioma dal quale si è partiti. La qualificazione delle ordinanze, ora esplicitata per il tramite delle riflessioni compiute â" e da compiersi â" giungerà ad identificare una tipologia normativa eclettica, o meglio: extra ordinem. Cadrà la certezza dellâinserimento tra le fonti del diritto, e si avanzerà una nuova ipotesi: la riconducibilità di queste al genus degli atti amministrativi. 4.1 Per una migliore comprensione della portata derogatoria delle ordinanze dâurgenza. Un ragionamento circolare ad excludendum: gli atti necessitati Il terzo punto di riflessione, che si va svolgendo nelle pagine che seguono, è dei primi due diretta conseguenza. Quali, con esso ci si interroga, le ipotesi in cui è dato ammettere ordinanze dâurgenza? Meglio: esistono, e quali sono, le ipotesi nelle quali lâordinamento deroga alla rigida strutturazione gerarchica delle fonti, ed ai presupposti operativi del principio di legalità? Una risposta corretta ad un simile quesito non può che operare una progressiva circoscrizione delle ipotesi ritenute rilevanti. Escludendo, volta per volta, quelle che non paiono ammissibili e contribuendo, al tempo medesimo, a connotare le problematiche che a ciascuna di queste si accompagna. Un caso che merita menzione è sicuramente quello costituito dagli atti che si definiscono ânecessitatiâ. Quelli che si ravvisano in quelle ipotesi in cui sussistono le circostanze dellâurgenza e della necessità ma che, a differenza delle ordinanze di cui si tratta, non hanno contenuto atipico. Sono, anzi, riconducibili alle ipotesi che la legge ammette e disciplina, con la sola differenza che lâAmministrazione vi ricorre in circostanze contingenti di urgenza[8]. Ovvio allora che gli atti necessitati non determinano alcuna deroga al principio di tipicità né tanto meno a quello gerarchico, essendo la fonte primaria che ammette la deroga, per ragioni di necessità[9]. Altrettanto scontata è la loro diversità concettuale dallâoggetto dellâindagine. Valga, in qualità di chiarimento, un esempio pratico di atto necessitato. Tale potrebbe essere quello che il Sindaco, a fronte di un rischio concreto di diffusione di una malattia epidemica nel proprio Comune, si avvalga delle facoltà concesse dallâart. 258 del R.D. 27 luglio 1934, n. 1265 (Testo Unico delle leggi sanitarie) imponendo âprestazioni di servizi nei confronti di qualsiasi cittadino dimorante nella Comunità in conformità alla sua condizione, arte o professioneâ. Si tratterebbe, con tutta evidenza, di un potere che pur eccedendo il normale assetto previsionale, dacché si concede al Sindaco la possibilità di imporre prestazioni, è pur sempre la legge medesima a disciplinare, giustificandone lâeccezionalità in ragione della necessità. Ed anzi, stabilendo implicitamente che il venir meno delle circostanze di necessità farebbero venir meno i presupposti di legittimità nellâemanazione di un tale atto. 4.2 Segue. I bandi militari Analogo ragionamento va compiuto per i bandi militari. Anchâessi, come gli atti necessitati, ed al pari delle ordinanze in esame, si ispirano alla necessità di fronteggiare situazioni eccezionali e non completamente prevedibili in sede di regolazione originaria. Tuttavia, essendo espressamente contemplati dalla legge quali atti che, in tempo di guerra, e limitatamente a porzioni di territorio delimitate, acquistano una forza normativa equiparabile alla legge stessa, non è possibile equipararne la natura alle ordinanze di necessità ed urgenza[10]. La discussione dottrinaria verte, semmai, sulla loro attuale configurabilità nellâordinamento italiano, e sulla loro giustificabilità allâinterno della Costituzione vigente. Minoritarie â" e, dunque, trascurabili â" sono le opinioni di quegli autori che li assimilano, mutatis mutandis, alla categoria degli atti extra ordinem. Si tratta di discussioni che esulano dal percorso di ricerca intrapreso e che, di conseguenza, si ritiene opportuno omettere[11]. 4.3 Segue. Gli atti aventi natura normativa Appurata la diversità che sussiste rispetto agli atti necessitati ed ai bandi militari, si è tentato di ricondurre la fattispecie in esame alla categoria degli atti normativi. Tali sono quegli atti che presentano la possibilità di innovare lâordinamento e che pertanto, si ritiene, abrogano tacitamente le disposizioni vigenti nella stessa materia che siano con essi incompatibili. Ebbene, dal momento che le ordinanze di necessità ed urgenza, al pari di quelli, hanno contenuto astratto e generale, trovano cioè applicazione in un numero di casi non predeterminato, ma ipoteticamente infinito, e si rivolgono alla generalità dei consociati. In ragione, soprattutto, della loro portata derogatoria rispetto alla legge, si è sostenuta a più riprese la sostanziale uniformità con atti aventi natura normativa[12]. Si tratta, a ben vedere, dello stesso corredo motivazionale già evidenziato con riguardo al primo punto affrontato dalla ricerca: quello inerente le fonti dellâordinamento. Giungendo infatti ad offrire una giustificazione alle peculiarità presentate dalle ordinanze in esame, tali, in ultima istanza, da escluderne la natura amministrativa ed invece configurarne una, diversa, di tipo normativo, gli autori vi conciliano â" si direbbe forzatamente â" il concetto di gerarchia. Risolvendo, in altre parole, il problema della legalità con la riconduzione ad un diverso ambito, non amministrativo ma normativo, di dette ordinanze. Dalla sussistenza di un legame con la gerarchia delle fonti si farebbe discendere una ulteriore, e non trascurabile, conseguenza. In ragione della natura normativa infatti, tali ordinanze sarebbero legittimamente impugnabili in Cassazione laddove poste in violazione della legge. Ciò perché, in qualità di atti normativi secondari, rinverrebbero comunque la loro legittimazione in una norma primaria, sarebbero pertanto conoscibili dal giudice in virtù del principio iura novit curia[13]. 4.4.1 Segue. Gli atti amministrativi Alla tesi della natura normativa di tali ordinanze si è opposta quella che le riporta alla categoria concettuale degli atti amministrativi[14]. Una differenza tuttâaltro che marginale se si pensa alle conseguenze che può comportare dal punto di vista della valenza giuridica di queste. Le ragioni a fondamento di questa teoria si articolano lâungo lâarco di due distinte riflessioni. Anzitutto, sottolineano il fatto che tali ordinanze presentano per lo più il carattere della concretezza. Incidendo frequentemente su situazioni giuridiche soggettive, la scelta di qualificarne il genus secondo il paradigma della normatività finirebbe per rendere eccessivamente gravosa per i consociati la fruibilità di adeguati mezzi di tutela. Al contrario, la natura amministrativa di questi atti, benché discrezionale, permetterebbe al giudice di sindacarne gli aspetti che eccedano i profili di legittimità. In secondo luogo, ed a conferma di quanto appena sostenuto, si aggiunge che non basterebbe il requisito della innovatività, da solo, a derogare alle disposizioni di legge. Piuttosto, la loro finalità sarebbe quella di provvedere limitatamente a situazioni soggettive concrete specifiche, comâè appunto nella natura di qualsiasi atto amministrativo. Circostanza questa avvalorata dalle situazioni che, in concreto, tali poteri permettono di affrontare. Difficilmente, da sole, in grado di protrarsi per un tempo eccessivo. 4.4.2 La tutela giurisdizionale, il termine, la motivazione Quanto detto merita un approfondimento. Riconducendo le ordinanze di necessità ed urgenza al novero degli atti amministrativi si finisce infatti per dover affrontare una serie di questioni che si legano alla natura degli atti posti in essere dalla pubblica Amministrazione. Tre in particolare. In primis: a chi la spettanza della competenza giurisdizionale? La risposta è quella più logica: al Giudice Amministrativo, in qualità di organo giurisdizionale competente alla valutazione degli interessi legittimi. Non è da dubitare, infatti, che non solo le posizioni dei consociati a fronte di un potere massimamente discrezionale degradano ad interesse, pur legittimo, anziché assumere la qualificazione di diritto soggettivo, ma anche lâipotesi di illegittimo esercizio del potere di ordinanza suggerisce una soluzione analoga. Laddove, infatti, lâAmministrazione travisasse le circostanze e ritenesse un atto necessario, poiché urgente, non potrebbe che incorrere nella sanzione di eccesso di potere per erronea valutazione o travisamento dei fatti. Si prenda, a titolo esemplificativo, lâipotesi in cui lâesigenza sia prevedibile e permanente. Detta circostanza â" benché presumibilmente risolvibile per il tramite di un uso discrezionale di potere amministrativo â" risulterebbe difficilmente giustificabile nei confronti di unâordinanza i cui presupposti fossero lâassoluta urgenza e necessità. Così come accadrebbe qualora di urgenza fosse possibile parlare, ma circostanziatamente ad un periodo di tempo già trascorso. Tale cioè da rendere ridondante (recte: eccessivo in quanto allâutilizzo) il potere di ordinanza[15]. In secondo luogo, si rende necessaria â" ed, anzi, indispensabile â" la certezza temporale dellâefficacia di questi atti[16]. Se infatti partiamo dallâassunto che si tratta di potere amministrativo atipico, non si può che concludere ribadendo lâopportunità per cui, al pari della situazione urgente ed imprevedibile che si propone di âarginareâ, si offrano le migliori garanzie in ordine alla riconducibilità della situazione alla normalità nel minor tempo possibile. Lo strumento deputato a tal fine è, appunto, lâindicazione di un termine preciso oltre il quale il provvedimento cesserà di produrre effetti. Resta ferma, evidentemente, la possibilità di derogarvi qualora si reiterino le contingenze, purché non assumano il carattere della periodicità o, addirittura, della permanente sussistenza. In quel caso infatti verrebbe meno lâimprevedibilità, e si renderebbe necessario il ricorso a diversa tipologia provvedimentale. Infine, ma non meno importante, si chiede allâAmministrazione di motivare adeguatamente lâatto che produce. Questo significa che non solo lâatto dovrà avere forma scritta, perché chiunque possa verificare le ragioni seguite dallâorgano emanante. Ma che, inoltre, queste ragioni vengano esposte in modo chiaro, tali da risultare perfettamente comprensibili. 4.4.3 La giurisprudenza costituzionale favorevole alla natura amministrativa delle ordinanze dâurgenza e necessità Le ragioni a corredo della natura amministrativa delle ordinanze in esame permettono di superare in modo accettabile entrambi i vincoli evidenziati in premessa. Questa è la ragione per cui la giurisprudenza della Corte costituzionale ha dato avallo alla teoria appena esposta, premurandosi di ribadire che, al pari di qualsiasi atto amministrativo, anche in questo caso si rende necessaria una specifica motivazione e unâadeguata pubblicizzazione[17]. In particolare, nella sentenza n. 127 dellâaprile del 1995 la Corte ribadiva, con riferimento ad unâordinanza Presidenziale governativa impugnata dalla Regione Puglia, la rilevanza dellâelemento tempo e della contingibilità dellâurgenza. Specificava cioè che lâassenza di un vincolo allâesercizio di un potere di urgenza, determinato dalle contingenze concrete del caso, avrebbe comportato il conferimento di una eccessiva (dunque, ingiustificata) discrezionalità allâorgano emanante. Detta circostanza, unitamente alle considerazioni già svolte sui limiti ulteriori che gravano sullâesercizio del potere di ordinananza, avrebbe giustificato lâiscrivibilità di questi atti tra quelli di natura amministrativa. 4.5 Segue. La tesi intermedia e la funzione di completamento dellâordinamento In parziale disaccordo con quanto sostenuto dallâorientamento interpretativo appena riportato sta una posizione che è possibile definire âintermediaâ[18]. Essa si fonda sul presupposto dellâimpossibilità di operare una generalizzazione atta a ricomprendere e giustificare tutte le ipotesi di ordinanza. Piuttosto, è unâanalisi fattuale, da operarsi volta per volta, che deve verificare se, ed entro quale limite, lâobiettivo dellâordinanza sia quello di fissare regole generali ed astratte che deroghino alla legge. Oppure, essendo destinate alla regolazione di un singolo caso concreto, pur se in deroga al principio di tipicità, permanga in capo ad esse la natura di atto amministrativo. Tale duplice natura, secondo gli autori della teoria intermedia[19], svolgerebbe unâimportante funzione nellâordinamento: ne favorirebbe la completezza. Accanto al più tradizionale strumento dellâauto-integrazione, concesso al giudice che si trovi a dover sviluppare un ragionamento analogico, ricorrendo alle leggi in vigore o anche ai principi dellâordinamento, starebbe uno strumento di etero-integrazione. Con questo, come per lâammissibilità del ricorso allâanalogia, si ammetterebbe la possibilità di colmare le lacune giuridiche per il tramite dellâattività della pubblica Amministrazione, chiamata a risolvere conflitti di interessi che la norma di legge non ha voluto, o potuto, dirimere. Dunque, in questo caso eccezionale, lâattività amministrativa assurgerebbe al valore di attività (si badi, non normativa, ma) dispositiva. Lâorgano amministrativo disporrebbe, dirimendo il conflitto di interessi, sulla base di presupposti necessariamente diversi da quelli della norma di legge, che quel conflitto non ha previsto. Si pensi, per esemplificare, allâipotesi in cui scoppi unâepidemia improvvisa e lâAmministrazione locale sia chiamata a contenere il rischio. In questo caso si renderebbero necessarie una serie di misure urgenti non predeterminabili in anticipo: la vaccinazione obbligatoria di tutti i soggetti a rischio, il ricovero in quarantena dei possibili portatori, la distruzione delle derrate alimentari infette, lâabbattimento dei capi di bestiame malati. Nellâassenza di una disciplina normativa che contempli tutte queste ipotesi contemporaneamente la lacuna dellâordinamento verrebbe temporaneamente colmata dal potere dispositivo dellâAmministrazione, in attesa che il legislatore intervenga, emanando una disciplina organica. 5. Giungendo ad una conclusione: le singole tipologie di ordinanza contingibile ed urgente ammissibili nellâordinamento Giunti a questo punto, enunciati alcuni dei limiti che vengono imposti al potere di ordinanza ed analizzata la giurisprudenza costituzionale diventa possibile chiarire quali siano le tipologie di ordinanze dâurgenza ammesse nel nostro ordinamento e, dallâesame di queste, ricavare le opportune conclusioni. Si sono individuate, in particolare, otto ipotesi. Anzitutto, la facoltà del Prefetto di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dellâordine pubblico e della sicurezza pubblica, qualora ricorrano gravi circostanze di necessità, ai sensi dellâarticolo 2 del T.U.P.S. 1931, n. 773. Poi, lâart. 122 del D.P.R. 13 febbraio 1964, n. 185, relativo alla sicurezza degli impianti e protezione sanitaria dei lavoratori e delle popolazioni contro i pericoli delle radiazioni ionizzanti derivanti dallâimpiego pacifico dellâenergia nucleare, in virtù del quale spetta sempre al Prefetto determinare, con ordinanza, la zona di pericolo, stabilendo le modalità di accesso ad essa, sovrintendendo i soccorsi e, soprattutto, adottando tutte le misure che la gravità del caso impone. Analogo contenuto è quello dellâart. 1 del D.L. 26 novembre 1980, n. 776 (successivamente convertito nella L. 22 dicembre 1980, n. 874) relativamente agli interventi urgenti a favore delle popolazioni colpite dal terremoto del 1980. Ancora, lâart. 261 del T.U. sanitario che attribuisce al Ministro della Sanità, qualora sussista il rischio conclamato di diffusione di malattie gravi ed epidemiche, di emettere ordinanze destinate ad operare la disinfezione delle case ed organizzare i servizi medici necessari. Di medesima portata è la legge n. 833 del 1978, il cui art. 32 istituiva il Servizio sanitario nazionale, attribuendo al Ministero della Sanità il potere di ordinanza contingibile ed urgente con riguardo alle materie di igiene e sanità pubblica, aventi efficacia sullâintero territorio nazionale o limitatamente ad alcune Regioni. Risalente nel tempo è, invece, lâart. 7 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, in merito al contenzioso amministrativo che consente allâautorità amministrativa per grave necessità pubblica di disporre della proprietà privata. Così come, lâart. 19 del T.U.L.C.P. del 1934 (successivamente modificato nel 1949, dalla legge n. 277) che sanciva il potere del Prefetto a vigilare sullâandamento di tutte le amministrazioni e adottare, nel caso di urgente necessità, i provvedimenti indispensabili nel pubblico interesse nei diversi rami di servizio. Infine, ma non meno importante, câè lâipotesi contemplata dal secondo comma dellâart. 38 della legge n. 142 del 1990, la quale prevede la possibilità per il Sindaco di adottare con atto motivato, e nel rispetto dei principi generali dellâordinamento giuridico, tutti i provvedimenti contingibili ed urgenti in materia di pubblica igiene e sanità, edilizia e polizia locale, qualora siano messe a rischio lâincolumità e la salute dei cittadini. 6. Riflessioni conclusive Lâelencazione appena svolta conduce la ricerca alla sua logica conclusione, con due considerazioni finali a sostegno. Anzitutto, sullâeterogeneità delle fattispecie di ordinanza. Dallâesame delle diverse ipotesi infatti non emerge un dato unitario. Al contrario, ciascuna ipotesi si giustifica ed inscrive nei margini operativi previsti per i singoli poteri. Né, va aggiunto, potrebbe essere diversamente. A prescindere infatti dalla natura giuridica dellâordinanza, sia essa atto normativo, o amministrativo, o entrambi a seconda delle esigenze, resta inoppugnabile la necessità di vincolarne lâoperato allâeccezionalità delle situazioni affrontate. Diversamente, si correrebbe il rischio paventato dalla Corte costituzionale: la concessione di margini di discrezionalità talmente ampi da risultare inammissibili ed anti-costituzionali. Dunque, non esiste un comune denominatore tra le ipotesi di ordinanza che non sia quello determinato dallâurgenza e dalla necessità. Ma allora, ed è questa la seconda riflessione conclusiva, non è dato individuare nemmeno un vincolo generale che operi con riferimento alle stesse? La risposta al quesito non può che rimandare alle teorie interpretative già esposte, dovendosi fronteggiare obiezioni differenti a seconda che si considerino questi atti quali fonti o quali atti amministrativi. Chi scrive, tuttavia, è convinto della bontà della seconda tesi, piuttosto che della prima. Ricava infatti la soluzione dalle linee di sviluppo dellâordinamento pubblico degli ultimi anni, e ne discende lâinopportunità di una fonte fatto che derogasse al sistema gerarchico delle fonti, ponendo problemi di difficile risoluzione. La soluzione che riconduce le ordinanze contingibili ed urgenti alla figura degli atti amministrativi sarebbe, invece, pregevole proprio perché in grado di operare una migliore controllabilità delle stesse. La motivazione, la persistenza dellâurgenza, i limiti temporali, soprattutto: il rispetto dei principi generali dellâordinamento, consentirebbero di conciliare lâesigenza di operare tempestivamente con poteri atipici, ma, anche, rispettare le esigenze di garanzia di cui un ordinamento moderno non può mai fare a meno. Gianluca Sgueo -------------------------------------------------------------------------------- [1] Vasta è la produzione interpretativa sul concetto di ordinanza. Premesso che di questa si darà conto nelle pagine che seguono, si intende offrire qui una breve panoramica sulle definizioni che offrono i diversi manuali giuridici. Si vedano, dunque, R. Galli, D. Galli, Corso di diritto amministrativo, I, Padova, 2004, pag. 35: ââtali sarebbero quegli atti extra-ordinem con cui, in caso di situazioni di urgente necessità (individuate nei medesimi atti e non preventivamente dalla legge), la P.A. può adottare provvedimenti di contenuto non predeterminato e porvi rimedioâ; Mazzaroli L., PEricu G., Romano A., Roversi Monaco F.A., Scoca F.G. (a cura di), Diritto amministrativo, I, 2002, pag. 57: ââconsistono in una particolare categoria di ordini che talune autorità amministrative sono autorizzate ad emanare, sul presupposto della necessità e dellâurgenza di provvedere, con contenuto non predeterminato, appunto per poterlo adattare a quanto le circostanze volta in volta richiedonoâ; Cerase M., Ordinanze di urgenza e necessità, in Cassese S. (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, pag. 3985: âCon il vocabolo ordinanza nei tempi più recenti si indica generalmente una decisione di un pubblico potere non preceduta da unâesaustiva conoscenza dei fatti. (â) Lâordinanza invece è generalmente un provvedimento ora provvisorio e revocabile da parte della stessa autorità che lâha emanato, ora urgente e caratterizzato da flessibilità proceduraleâ ; Sorace D., Diritto delle amministrazioni pubbliche, una introduzione, Bologna, 2004, pag. 78: ââoccorre ricordare che lâordinamento ammette esplicitamente la possibilità di emanazione di provvedimenti autoritari atipici, per i quali si richiede il rispetto dei principi generali dellâordinamento giuridico ma che possono invece derogare a norme specifica. Si tratta delle c.d. ordinanze contingibili ed urgenti (che cioè possono essere emanate solo in caso di urgenza e possono disporre solo in relazione alla situazione contingente)ââ; Casetta E., Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2005, pag. 333: âIl potere di ordinanza esercitabile nelle situazioni di necessità ed urgenza, è caratterizzato dal fatto che la legge non predetermina in modo compiuto il contenuto della situazione in cui il potere può concretarsi, oppure ancora consente allâamministrazione stessa di esercitare un potere tipico in presenza di situazioni diverse da quelle previste in via ordinaria o seguendo procedure differentiâ; Galateria L, Stipo M., Manuale di diritto amministrativo â" principi generali, Torino, 1993, pag. 52: âNellâambito degli atti emanati in situazioni di necessità ed urgenza rilevano le ordinanze straordinarie (extra ordinem). Esse â" inteso il termine nel più rigoroso significato tecnico-giuridico â" sono quegli atti aventi il carattere di atti normativi o di provvedimenti amministrativi, emessi da autorità governative (Ministro, Presidente della Giunta regionale, ecc.) o da autorità amministrative (Prefetti, Sindaco, ecc.), sul presupposto della necessità e della urgenza, senza predeterminazione del contenuto, ed anche in deroga alle norme vigenti al fine di consentire alla pubblica amministrazione di attuare i fini di pubblico interesse in fattispecie non previste da norme di diritto positivoâ ; Cassese S., Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 2004, pag. 247: ââin altre ipotesi, anche il contenuto del provvedimento è generico, perché le norme attribuiscono alle autorità amministrative il potere di adottare, in caso di urgenza, i provvedimenti più opportuni, le misure adeguate e via dicendo. Si tratta di previsioni volte a far fronte a situazioni non prevedibili né tipizzabili, come quelle determinate da catastrofi naturali. Si parla, in questi casi, di ordinanze dâurgenza e necessitàâ ; Virga P., Diritto amministrativo, Milano, 1997, pag. 19: âTalora, specie quando gli ordini si dirigono a più persone, gli ordini prendono il nome di ordinanzeâ. [2] Seguendo ovviamente un ragionamento estremamente semplificato, e basandosi sulle riflessioni svolte dai principali manuali giuridici, Si debbono distinguere le fonti di rango costituzionale, che comprendono la Costituzione ma anche i principi generali che da questa promanano, nonché gli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale. Poi, vi sono le fonti di rango primario, che comprendono le norme comunitarie, le leggi dello Stato, gli atti del Governo che a queste si equiparano (Decreti-legge e Decreti-legislativi) nonché gli Statuti delle Regioni ordinarie. Vi sono poi le fonti secondarie, tra le quali si ricomprendono i regolamenti del Governo e quelli ministeriali, gli Statuti degli Enti locali ed i loro regolamenti, e, appunto, le ordinanze. Giungono, ultimi, gli usi normativi. Per maggiori approfondimenti sul tema, e per una elaborazione espositiva senzâaltro illuminante in merito alle molteplici circostanze problematiche che al sistema delle fonti si legano, si suggerisce la lettura di Paladin L., Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996; Kelsen H., Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1999. [3] Tale è la definizione offerta da Caringella F., Il diritto amministrativo, Napoli, 2004, pagg. 82 ss. [4] Così come nel caso delle fonti del diritto, anche per il principio di legalità la produzione interpretativa è notevole. Qui, tuttavia, interessa esclusivamente averne una concezione generale, attenta ai profili garantisti dello stesso. Per approfondimenti si suggerisce la lettura di Caringella F., Il diritto amministrativo, Napoli, 2004, pagg. 560 ss. [5] Cfr. sul principio di tipicità Cassese S., Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 2004, pag. 9: âNella sua accezione più ampia, il principio di legalità comporta il rispetto della tipicità e nominatività degli atti (possono essere emanati solo gli atti espressamente previsti dalla legge e solo in presenza dei presupposti e per i motivi da questa indicati, per cui non sono ammessi atti misti o innominati)â. [6] La causa di un atto amministrativo costituisce una spetto controverso in dottrina. Non tutti gli autori infatti concordano nel considerare la causa come un requisito del provvedimento. Su tutti, si veda Virga P., 2001, ove sostiene che la causa costituirebbe in realtà un elemento caratterizzante lo stesso potere amministrativo, in ragione del quale quello dovrebbe essere esercitato. In particolare lâesercizio di potere discrezionale dovrebbe rispondere, secondo lâautore, alla causa per cui il legislatore ha attribuito quella facoltà di scelta allâamministrazione. [7] Brevi cenni anticipatori rispetto ai problemi che dovranno affrontarsi, ma con stretta connessione al principio di tipicità, li svolge Cassese S., Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 2004, pag. 247: âEsse costituiscono, evidentemente, una deviazione rispetto al principio di tipicità, accentuata dal fatto che spesso i provvedimenti in questione possono derogare alla disciplina vigente e che essi sono normalmente suscettibili di esecuzione forzata. La deviazione è temperata dalle norme attribuendo simili poteri solo a determinate autorità (il ministro, il sindaco, il prefetto) e prevedendo varie garanzie procedurali; dalla giurisprudenza con un controllo molto rigoroso della legittimità di questi attiâ. Si veda anche quanto sostenuto da Casetta E., Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2005, pag. 333: âIl potere di ordinanza, il cui esercizio dà luogo alla emanazione delle ordinanze di necessità ed urgenza, pare dunque non rispettare il principio di tipicità dei poteri amministrativi che, in applicazione del principio di legalità, almeno se inteso nel senso di conformità sostanziale rispetto alla legge, impone la previa individuazione degli elementi essenziali dei poteri a garanzia dei destinatari degli stessiâ. Si confronti poi Sorace D., Diritto delle amministrazioni pubbliche, una introduzione, Bologna, 2004, pag. 77: ââa queste regole poste dalla Costituzione si ricollega la legalità-garanzia da cui discende quello che viene chiamato il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi autoritari, secondo il quale, nel senso più rigoroso, spetta ordinariamente alla legge individuare gli atti che possono avere effetti autoritari, stabilire quali siano questi effetti, prevedere in presenza di quali presupposti possano essere presi, quali organi abbiano la competenza ad emanarli e seguendo quale procedimentoâ. [8] V. R. Galli, D. Galli, Corso di diritto amministrativo, I, Padova, 2004, pag. 35: âComportando una deroga al principio di tipicità degli atti amministrativi, esse non vanno confuse con i cd. atti necessitati i quali, pur se caratterizzati dalla necessità e dalla urgenza, sono tutti tipizzati e doppiano, in genere, provvedimenti ordinari (occupazioni/occupazioni dâurgenza, requisizioni/requisizioni dâurgenza)â. Sul merito anche Casetta E., Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2005, pag. 334: âLe ordinanze ora esaminate vanno distinte dai provvedimenti dâurgenza, atti tipici e nominati suscettibili di essere emanati sul presupposto dellâurgenza, ma che, tuttavia, sono di contenuto predeterminato dal legislatore (ad esempio: requisizione in uso)â. [9] Cfr. in merito Galateria L, Stipo M., Manuale di diritto amministrativo â" principi generali, Torino, 1993, pag. 53: âLe suddette ordinanze straordinarie, proprio perché extra ordinem, vanno tenute nettamente distinte dai c.d. attinecessitati ordinari, secondo una locuzione ormai generalmente adottata dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Questi, trovando il loro paradigma di riferimento in previe norme di diritto positivo, rientrano nei comuni provvedimenti amministrativi, salvo, sâintende, il presupposto della necessità ed urgenza. Si presentano, pertanto, strutturalmente e funzionalmente simili a tutti gli altri provvedimenti amministrativi sia perché costituiscono manifestazione di un potere ordinario attribuito a vari soggetti della P.A. e sia perché si risolvono appunto nellâattuazione di fattispecie previste e disciplinate dalla legge anche nel contenutoâ. [10] Cfr. Mazzaroli L., PEricu G., Romano A., Roversi Monaco F.A., Scoca F.G. (a cura di), Diritto amministrativo, I, 2002, pag. 61: âAd unâispirazione in fondo analoga a quella che impone la conservazione del potere di ordinanza (necessità di fronteggiare situazioni di pericolo non prevedibili, dunque non disciplinabili a priori), rispondono i bandi militari, provvedimenti normativi che le autorità militari sono autorizzate ad emanare in tempo di guerra; essi valgono limitatamente alla zona dâoperazioni, alla parte del territorio dello Stato soggetto ad un pericolo esterno, alla porzione di territorio di altro Stato eventualmente occupata da truppe italianeâ. [11] Per un approfondimento si veda Mazzaroli L., PEricu G., Romano A., Roversi Monaco F.A., Scoca F.G. (a cura di), Diritto amministrativo, I, 2002, pagg. 61 ss. ; . Galli, D. Galli, Corso di diritto amministrativo, I, Padova, 2004, pag. 41: âI bandi militari costituiscono, secondo lâopinione di taluni autori, ordinanze extra ordinem che si inseriscono nella gerarchia delle fonti a livello primario. (â) Le fonti normative in materia (la legge di guerra, il codice penale militare di guerra ed il codice penale militare di pace) sono cronologicamente anteriori alla Carta costituzionale e ciò ha posto il problema della loro vigenza attuale nel nostro ordinamento. I sostenitori della tesi negativa argomentano il loro assunto dalla mancata previsione di tale tipo di normazione nella Costituzioneâ. [12] Le motivazioni a supporto sono sottili e non del tutto pertinenti con il discorso principale che va svolgendosi nel testo. Si suggerisce tuttavia un approfondimento attraverso la lettura di Paladin L., Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, pag. 459: âAncor meno accettabile è la tesi che di fonti extra ordinem si possa e si debba ragionare, ogniqualvolta un singolo fatto o atto normativo riesca in concreto a imporsi, malgrado la sua difformità dal corrispondente schema legale. Così ricostruita, la presenza delle fonti stesse finisce per dipendere da circostanze del tutto accidentali: vale a dire da ciò che i rimedi predisposti per assicurare lâosservanza delle regole sulla creazione del diritto vengano o meno utilizzati da quanti ne abbiano il diritto o il potereâ. [13] In merito, R. Galli, D. Galli, Corso di diritto amministrativo, I, Padova, 2004, pag. 36: âLa soluzione prospettata consente di affermare che le ordinanze, inserendosi nella gerarchia delle fonti a livello secondario, in quanto rinvengono la loro legittimazione in una norma primaria, sono ricorribili in Cassazione per violazione di legge e devono essere conosciute dal giudice in virtù del principio iura novit curia. [14] In merito, , R. Galli, D. Galli, Corso di diritto amministrativo, I, Padova, 2004, pag. 36: âSecondo la tesi preferibile della loro natura provvedimentale, le ordinanze sono, quindi, atti formalmente e sostanzialmente amministrativi, atipici, suscettibili di derogare a norme dispositive di leggeâ. [15] Si tratta di casi affrontati dalla giurisprudenza amministrativa. In particolare si suggerisce la lettura delle motivazioni apportate da T.A.R. Toscana, 30 giugno 1987, n. 513, in T.A.R., 1987, I, pagg. 2926 ss. Sporadiche, invece, le opinioni contrarie. Ad esempio la V° sez. del Consiglio di Stato, nella sentenza n. 125 del 1998, ha sostenuto che il potere di ordinanza possa considerarsi legittimamente esercitato anche qualora la situazione di pericolo duri nel tempo. Motivando la circostanza con un ragionamento discutibile: se, si sostiene nella sentenza, lâevento dannoso è ragionevolmente derivabile da una situazione di pericolo, nulla impedisce che questâultima abbia una durata più lunga del previsto. In tal circostanze, lâAmministrazione sarebbe legittimata comunque allâemanazione di ordinanze dâurgenza. Più recentemente invece, la IV° sez. del Consiglio di Stato (decisione n. 6169 del 2003) ha ribadito che i presupposti necessari per lâadozione di provvedimenti contingibili ed urgenti non possono che essere lâimpossibilità di differire lâintervento se non rischiando un danno ingente ed ovviamente lâimpossibilità di agire con i mezzi comunemente previsti dal legislatore. Dal che, è legittimo dedurre che lo stato di pericolo devâessere attuale e non prolungato nel tempo, potendosi altrimenti escogitare misure dotate di minor grado di eccezionalità ma egualmente efficaci. [16] Del resto la certezza temporale di ciascun atto amministrativo è oggi un assunto consolidato tanto nella legge sul procedimento, quanto nella prassi applicativa. Lâart. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modifiche, impone una serie di rigide scadenze allâagire dellâamministrazione. Non solo, ma al fine precipuo di evitare che lâelusione di detti termini si traduca in una lesione agli interessi dei consociati, la stessa legge predispone una completa regolazione degli effetti che conseguono allâomissione dellâAmministrazione nellâemanazione del provvedimento richiesto. Operando, ove possibile, attraverso lâipotesi del silenzio significativo. Ovvero, introducendo procedure accelerate per sanzionare lâinadempimento. [17] Cfr. Casetta E., Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2005, pag. 333: âLa Corte costituzionale ha peraltro fissato alcuni limiti nel rispetto dei quali la legge che riconosce il potere di ordinanza è compatibile con la Costituzione: (â), necessità di una adeguata motivazione e di efficace pubblicazione, efficacia limitata nel tempo. [18] Lâelaborazione di questa è dovuta a Galateria L, Stipo M., Manuale di diritto amministrativo â" principi generali, Torino, 1993, pagg. 52 ss., i quali si concentrano sulla funzione delle ordinanze, più che sulla loro natura. Ribadiscono infatti che: âLe ordinanze straordinarie assolvono alla funzione essenziale dâintegrare lâordinamento giuridico, colmando le lacune dello stessoâ. [19] Cfr. Galateria L, Stipo M., Manuale di diritto amministrativo â" principi generali, Torino, 1993, pag. 53 ss.; ma anche Mazzaroli L., PEricu G., Romano A., Roversi Monaco F.A., Scoca F.G. (a cura di), Diritto amministrativo, I, 2002, pag. 59: âLe ordinanze in questione possono avere contenuto generale ed astratto ovvero particolare e concreto; nel primo caso, adottando il criterio materiale di individuazione degli atti normativi, si afferma che esse hanno appunto il carattere di normeâ; Sandulli A., Fonti del diritto, in Novissimo digesto italiano, VII, Torino, 1965, pagg. 531 ss.; Bartolomei M., Ordinanza (diritto amministrativo), in Enciclopedia del diritto, XXX, Milano, 1986, pagg. 976 ss. | |
Da: Per tutti i 215 | 08/01/2009 20:38:27 |
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Non profit Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Vai a: Navigazione, cerca Non profit è una locuzione giuridica di derivazione inglese a sua volta derivata dal latino che significa senza scopo di lucro e si applica ad organizzazioni i cui avanzi di gestione utili sono interamente reinvestiti per gli scopi organizzativi. In italiano si traduce generalmente con non lucrativo o non a scopo di lucro. Indice [nascondi] 1 Definizione ed evoluzione storica 1.1 Non profit o no profit? 1.2 Organizzazioni non profit 1.2.1 Organizzazioni di volontariato 1.2.2 Associazioni di promozione sociale 1.2.3 Cooperative sociali 1.2.4 Fondazioni di diritto civile e di origine bancaria 1.2.5 Organizzazioni non governative (ONG) 1.2.6 ONLUS 1.2.7 Impresa sociale 2 Esempi per aree di intervento 2.1 Ambiente 2.2 Cultura e Informazione 2.3 Economia 2.3.1 Commercio equo e solidale 2.3.2 Finanza etica 2.4 Salute e ricerca 2.5 Sviluppo 2.5.1 Cooperazione 2.5.2 Volontariato 2.6 Tutela dei diritti e della pace 3 Note 4 Voci correlate 5 Collegamenti esterni Definizione ed evoluzione storica [modifica] Il concetto si è sviluppato nella seconda metà del XX secolo, principalmente nei paesi economicamente più progrediti, insieme ad una notabilmente accresciuta attenzione sociale per le attività di solidarietà, favorita sia dal miglioramento delle condizioni economiche generali (e, per riflesso, individuali), sia dalla diffusione dell'informazione, che ha agevolato la conoscenza di particolari situazioni di disagio, bisogno, sofferenza di natura economica, sanitaria, sociale, politica o di altri tipi di contingenze anche a distanza. Parallelamente, una percezione di inadeguatezza dei sistemi di solidarietà sociale provveduti dai grandi stati nazionali o il riscontro dell'assenza (o dell'impraticabilità) di strumenti di assistenza e solidarietà in paesi meno fortunati, ha indotto molti, in forma per lo più volontaristica, a perseguire operativamente obiettivi di soluzione (o più spesso, realisticamente, di attenuazione) di situazioni di bisogno di altri individui o categorie o gruppi sociali (diversi in genere dal proprio). Ciò ha dato luogo allo spontaneo e copioso proliferare di organizzazioni di natura originariamente privata che in genere perseguono obiettivi di solidarietà rivolti quando in patria a soddisfare bisogni di estrema specialità (ad esempio le numerose associazioni per l'assistenza ai malati di malattie rare) o quando all'estero al soddisfacimento di fabbisogni primari (ad esempio, ma non solo, le altrettanto numerose organizzazioni per la fornitura di cibo e medicinali). La rilevanza del fenomeno, la cui crescita è stata accelerata dall'attenzione prestata dagli organi di informazione, ha in breve tempo raggiunto proporzioni tali da costituire una realtà della quale anche gli ordinamenti giuridici hanno presto dovuto prender atto, anche (e forse in primissima istanza) per poter consentire agevolazioni di natura fiscale a simili attività; in genere, la sottoposizione di organizzazioni non profit a regimi fiscali blandi, con ampie opportunità di esenzione, è vista con favore dall'opinione pubblica in ragione del solitamente elevato contenuto etico degli obiettivi perseguiti, quantunque un simile consenso sia nettamente inferiore per il caso di organizzazioni perseguenti obiettivi a più marcata impronta giuridico-politica. In diritto, il problema affrontato dalla dottrina si è fondamentalmente incentrato sulla corretta definizione dell'ente non profit. Rispetto al tradizionale concetto di assenza di fini di lucro, già in rodato uso ad esempio per alcune persone giuridiche come la società cooperativa o l'associazione (casi nei quali residua, legittimamente, un almeno indiretto interesse personale dei soci o comunque dei sodali), la locuzione sottintende (nell'accezione più comune in Italia) che l'organizzazione abbia finalità vocatamente solidaristiche, che non vi sia distribuzione di utili ai soci, che anzi qualsiasi utilità prodotta (anche nella forma di beni o servizi) sia destinata con carattere di esclusività in favore di terzi, e che non svolga attività commerciali se non limitatamente ad azioni meramente strumentali al conseguimento degli scopi sociali. Non profit o no profit? [modifica] Profit è un termine latino, forma contratta della terza persona singolare (modo indicativo, tempo presente) del verbo proficere, che significa avvantaggiare. La parola confluì nel vocabolario anglosassone, tra il Cinquecento e il Seicento, ad opera di alcuni monaci.[senza fonte] Non profit, termine d'origine statunitense più che anglosassone, sta per non profit organizations, e indica quegli enti che operano senza avere per fine primario il conseguimento del profitto (il termine scientificamente più usato è, infatti, Not for Profit). Pertanto è corretto scrivere non profit, improprio e impreciso no profit. Organizzazioni non profit [modifica] Rientrano pertanto propriamente nella categoria "non profit" quelle organizzazioni cui sia applicabile la recente disciplina riservata alle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS), ma anche quelle che, sia pure in progetto o in corso di formazione o di consolidamento, potrebbero una volta a regime presentare caratteristiche affini; va detto peraltro che la previsione normativa potrebbe non essere esaustiva di tutte le possibili configurazioni organizzative che avrebbero titolo ad essere definite come non profit, stante la vastità della gamma dei loro possibili obiettivi. Gli enti che compongono il mondo del non profit si differenziano sostanzialmente nella loro struttura, distinguendosi per tipologia e status giuridico. In particolare, fino ad ora la nostra legislazione italiana ha disciplinato cinque differenti tipi di organizzazioni private che operano senza fini economici con finalità solidaristiche: le organizzazioni non governative (leg. 49/1987), le organizzazioni di volontariato (leg. 266/1991), le cooperative sociali (leg. 381/1991), le fondazioni ex bancarie (leg. 461/1998) e le associazioni di promozione sociale (leg. 383/2000). Le principali categorie possono essere così suddivise: Organizzazioni di volontariato [modifica] Per approfondire, vedi la voce Volontariato. Secondo gli Artt. 2-3 della legge 266 dellâ11 agosto 1991 per organizzazioni di volontario si intende âogni organismo liberamente costituitoâ che si avvale dellâattività di volontariato che âdeve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietàâ. Tale dimensione organizzata si configura a partire dagli anni settanta, ma la sua importanza è cresciuta in modo particolare durante questâultimo decennio; se guardiamo infatti allâanzianità delle organizzazioni di volontariato presenti sul territorio, possiamo vedere come la maggior parte sia di recente costituzione (Rapporto Biennale sul Volontariato, 2005): delle più di 21.000 (21.021 nel 2005) associazioni esistenti in Italia il 61, per cento è nato dopo il 1999. Accanto a questa crescente rilevanza, si è assistito nel tempo anche ad una maturazione delle organizzazioni stesse. Esempio di tale evoluzione sono i profili dei servizi forniti: accanto a quelli di più classica valenza assistenziale, si affiancano oggi pratiche di prevenzione e promozione sociale, con lâobbiettivo non solo di curare il âsintomoâ ma anche di eliminare le cause che producono emarginazione e degrado degli individui. Associazioni di promozione sociale [modifica] Per approfondire, vedi la voce Associazione di promozione sociale. Le associazioni di promozione sociale possono essere definite quelle organizzazioni in cui individui si associano per perseguire un fine comune non di natura commerciale. La loro valenza âsocialeâ deriva dal fatto che esse non sono assimilabili a quelle associazioni che hanno come finalità la tutela esclusiva di interessi economici dei membri (come ad esempio avviene per associazioni sindacali, di partito o di categoria). Le caratteristiche e il ruolo svolto dalle associazioni di promozione sociale sono molto vicine a quelle delle organizzazioni di volontariato, le differenze risiedono nella possibilità di remunerare i propri soci e nella valenza mutualistica dei servizi, anche se è indubbio che oggi le associazioni non si limitino solamente alla mera soddisfazione degli interessi e dei bisogni degli associati, ma abbiano sviluppato una forte apertura al sociale operando promozioni della partecipazione e della solidarietà attiva. Cooperative sociali [modifica] Per approfondire, vedi la voce Cooperativa sociale. In Italia sono presentii 7.363 cooperative sociali: 4.345 di tipo A, 2.419 di tipo B, 315 di tipo misto (A+B), 284 sono infine i consorzi (Istat, Rilevazione sulle cooperative sociali, 2006); esse possono essere sono definite dallâArt. 1, legge 381 dellâ8 novembre del 1991 âcooperative aventi come scopo il perseguimento generale della comunità alla promozione umana e allâintegrazione sociale dei cittadiniâ. Esistono quattro tipologie di cooperative: le cooperative di tipo A che svolgono attività finalizzate allâofferta di servizi socio-sanitari ed educativi, le cooperative di tipo B che forniscono attività di inserimento lavorativo di persone svantaggiate, le cooperative di tipo misto che svolgono attività tipiche delle cooperative di tipo A, sia di tipo B ed infine i consorzi sociali, società cooperative aventi la base sociale formata in misura non inferiore al settanta per cento da cooperative sociali. Allâorigine di questa forma organizzativa vi è la convinzione che lâattività solidaristica si possa realizzare anche attraverso la forma di unâimpresa economica, coniugando interesse privato e interesse generale. Fondazioni di diritto civile e di origine bancaria [modifica] Oggi le circa 3.000 fondazioni presenti in Italia rappresentano un importante attore nel panorama del non profit. Le fondazioni sono enti senza fini di lucro con una propria sorgente di reddito che viene impiegata per scopi di utilità sociale. A differenza delle associazioni infatti, le fondazioni non trovano il loro fondamento nei soci e nelle attività da loro svolte, ma piuttosto nella possibilità di beneficiare di un patrimonio (che per legge deve essere non inferiore ai 100.000 euro) che dà loro un'ampia capacità finanziatrice. Le fondazioni distribuiscono le proprie risorse con una strategia orientata alla scelta degli interlocutori per valutare i progetti da finanziare e in particolare, le aree in cui maggiormente le fondazioni operano sono lâistruzione, lâarte e la cultura, la sanità, lâassistenza sociale e la ricerca. Le fondazioni svolgono spesso anche una funzione attrattiva di nuove risorse, di lasciti, di donazioni di privati e imprese. Organizzazioni non governative (ONG) [modifica] Per approfondire, vedi la voce Organizzazione non governativa. In seno alla categoria delle organizzazioni "non profit" rientrano anche quelle organizzazioni che di fatto, in genere in ragione di particolari principî ispiratori o di particolari modalità o luoghi di attività, costituiscono soggetti di rilevanza inevitabilmente politica e che vengono a loro volta classificate come ONG quando appunto il loro operato sia svincolato da quello del governo dello stato di appartenenza. Le prime Ong nate intorno agli anni settanta svolgevano unâattività di sostegno del mondo missionario presente nei paesi in via di sviluppo. Oggi le organizzazioni non governative sono espressioni organizzate della società civile di ispirazione anche laica, impegnate sul più ampio fronte della cooperazione, intessendo rapporti con le istituzioni nazionali, europee ed internazionali e contribuendo allâelaborazione di strategie politiche. I tre principali organismi di coordinamento a cui aderiscono la maggior parte delle Ong italiane sono: i Volontari nel mondo - federazione di organismi cristiani di servizio internazionale, che riunisce 56 Ong di ispirazione cristiana; il Coordinamento delle Ong per la cooperazione internazionale allo sviluppo, che riunisce 35 Ong di matrice laica e il Coordinamento di iniziative popolari di solidarietà internazionale che conta 28 Ong di ispirazione cristiana. ONLUS [modifica] Per approfondire, vedi la voce Organizzazione non lucrativa di utilità sociale. La disciplina delle ONLUS, che nell'acronimo ben segnalano la compresenza dei requisiti di assenza di lucro e di utilità sociale, resta pertanto ben indicativa di alcuni dei possibili campi di intervento, sebbene in tale inquadramento - è stato da molti eccepito - siano eterogeneamente parificati obiettivi di emergenza vitale e scopi di potenziale fatuità: assistenza sociale e socio sanitaria assistenza sanitaria beneficenza istruzione formazione sport dilettantistico tutela, promozione e valorizzazione delle cose di interesse artistico e storico tutela e valorizzazione dell'ambiente promozione della cultura e dell'arte tutela dei diritti civili ricerca scientifica di particolare interesse sociale Per quanto infatti il concetto di non profit sia in genere, nella sua più immediata accezione, prontamente riferito a importanti e lodevoli iniziative di grande spessore, esso purtuttavia comprende qualsiasi attività dalle caratteristiche sopra abbozzate, riguardando pertanto la bocciofila di quartiere come le associazioni per le emergenze alimentari del Terzo Mondo; ciò ha dato luogo ad eccezioni ideali ed a proposte per una più rigorosa verifica della corretta applicazione della disciplina, soprattutto onde salvaguardare la necessaria terzietà degli effettivi beneficiari delle iniziative di questo genere, vista la potenziale facilità di maliziosa interpretazione del testo normativo. Impresa sociale [modifica] Sempre di più a partire dagli anni 80 si sono venute affermando forme imprenditoriali e organizzative create per perseguire finalità sociali operando all'interno del mercato concorrenziale. La forma giuridica che risponde a queste esigenze è quella dell'impresa sociale, che comprende tutte quelle imprese private, comprese le cooperative, in cui l'attività economica d'impresa principale è stabile e ha per oggetto la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale e di interesse generale. Si distingue così per la prima volta il concetto di imprenditoria da quello di finalità lucrativa: si riconosce l'esistenza di imprese con finalità diverse dal profitto. Il valore aggiunto rispetto a un'impresa tradizionale sta nel tentativo di produrre servizi ad alto contenuto relazionale, nel cercare di fare "rete" con esperienze del terzo settore, nel produrre esternalità positive per la comunità; fondamentali sono la promozione dello sviluppo locale, la garanzia di democraticità dell'organizzazione e di un coinvolgimento diretto dei lavoratori nella gestione, l'adozione di valori quali la giustizia sociale, le pari opportunità e la riduzione delle diseguaglianze. La disciplina di questi enti contenuta nella l.118/05 è stata resa organica e attuale tramite il d.lgs.155/06 . L'impresa sociale può operare nei seguenti ambiti di attività: assistenza sociale assistenza sanitaria e socio sanitaria educazione istruzione tutela ambientale tutela dei beni culturali formazione universitaria formazione extrascolastica turismo sociale Esempi per aree di intervento [modifica] Nel 1999 l'ISTAT ha censito 221.412 istituzioni non profit, di cui il 55 % nate dopo gli anni '90. La recente costituzione delle organizzazione non profit italiane è attribuibile alla crisi politico-istituzionale, alla politica di contenimento della spesa pubblica attuata per rientrare nei parametri di Maastricht e all'aumento di fenomeni razzisti e discriminatori a fronte della crescente immigrazione. Il fatturato totale del settore ammonta a 36 miliardi di euro, vengono impiegati 630.000 lavoratori retribuiti (pari al 3 % della forza lavoro totale) e più di 3 milioni di volontari. La maggioranza delle organizzazioni non profit in Italia è attiva nel settore della cultura, sport e ricreazione e solo il 20% del totale è impegnato nell'erogazione di servizi (assistenza, istruzione e sanità). Le organizzazioni che si occupano di welfare rappresentano la parte più ricca del settore in termini di fatturato e di impiego di lavoratori. Qui di seguito sono descritte le organizzazioni più rappresentative, classificate in base all'attività prevalente. Ambiente [modifica] Per approfondire, vedi la voce Ambientalismo. La protezione dell'ambiente è essenziale per la qualità della vita delle generazioni presenti e future e un aumento della qualità della vita implica la crescita del benessere della popolazione. È per tale motivo che fin dagli anni settanta sono nate a livello internazionale, ma anche italiano, numerose associazioni sensibili alle problematiche ambientali ambientalismo. Il World Wide Fund For Nature (WWF) è la più grande associazione ambientalista al mondo, con obiettivi di tutela dell'ambiente naturale e di salvaguardia di specie animali a rischio di estinzione; è attiva da più di 40 anni e grazie al supporto di 5 milioni di persone lavora in circa 100 paesi a fianco delle comunità locali. Finanziariamente è supportata da cittadini, imprese e istituzioni. Uno dei più grandi movimenti ambientalisti del mondo è rappresentato da Greenpeace; esso si ispira ai principî della non violenza, è apolitico e si finanzia esclusivamente con i contributi dei singoli individui. Le attività di Greenpeace consistono nel coordinamento di programmi e attività di campagna e investe in ricerca scientifica ed innovazione tecnologica. L'associazione Italia Nostra, attiva dal 1955, ha contribuito a diffondere nel paese la cultura della conservazione del paesaggio urbano e rurale, dei movimenti, del carattere ambientale della città attraverso attività di volontariato culturale. Cultura e Informazione [modifica] Alcune organizzazioni si impegnano nella promozione sociale e la diffusione di forme espressive come la musica, la letteratura, il teatro e l' arte. Altre promuovono discipline sportive con l'obiettivo di creare un'identià locale coesa e collaborativa. Anche la storia e gli studi sociali sono considerati un bene comune da diffondere attraverso iniziative quali convegni, pubblicazioni ed eventi per la cittadinanza. Economia [modifica] Commercio equo e solidale [modifica] Per approfondire, vedi la voce Commercio equo e solidale. Le organizzazioni di commercio equo si propongono di creare opportunità di autosviluppo sostenibile per le comunità escluse e svantaggiate dei paesi del sud del mondo. Il perseguimento di tale obiettivo avviene attraverso l'utilizzo di strumenti operativi come la vendita dei prodotti nella rete di Botteghe del Mondo, la crescita della consapevolezza dei consumatori, attuata attraverso un'adeguata informazione, l'educazione e l'azione politica che consiste nell'attività di pressione sulle istituzioni pubbliche e nell'adesione a campagne. Le organizzazioni si dividono in centrali di commercio alternativo (ATOS, Alternative Trade Organizations), botteghe importatrici e botteghe del mondo; le centrali hanno un più forte potere di coordinamento della filiera equa e solidale, essendo l'anello di congiunzione tra le organizzazioni di produttori del sud del mondo e le botteghe del mondo dove vengono commercializzati i prodotti. L'importatore di maggiori dimensioni è rappresentato dal Consorzio Ctm Altromercato che è il maggiore importatore italiano e il secondo a livello mondiale con un fatturato di 37 milioni di â e 102 dipendenti full time. Seppur di dimensioni più modeste giocano un ruolo importante nel panorama del commercio equo la centrale Commercio Alternativo con quasi 5 milioni di â di fatturato e la centrale Libero Mondo che ha circa 60 dipendenti e per scelte politiche vende esclusivamente attraverso la rete di Botteghe Del Mondo. Gli importatori hanno sviluppato dei marchi commerciali, a cui spesso erronamente si contrappone il marchio di Transfair, che è invece un organismo di certificazione di prodotti equosolidali nato nel 1997 per garantire che un prodotto rispetta gli standard definiti da FLO (Fairtrade Labelling Organization). La presenza del marchio di IFAT, che garantisce le organizzazioni di commercio equo e solidale invece che i prodotti equosolidali non rende semplice la conoscenza del consumatore. Le Botteghe importatrici sono dei coordinamenti di botteghe, per lo più di medie dimensioni e abbastanza strutturate che intraprendono rapporti diretti con i produttori del Sud del mondo eliminando il passaggio effettuato dagli importatori. Le Botteghe del Mondo', infine, costituiscono il punto vendita per i prodotti equi ma anche e soprattutto un luogo di sensibilizzazione, di scambio culturale e di azione politica. In Italia sono circa 300 e aderiscono all'Associazione Botteghe del Mondo costituitasi nel 1991. Finanza etica [modifica] Per approfondire, vedi la voce Finanza etica. La finanza etica nasce per sostenere le attività di promozione umana e socio ambientale, pone al centro della sua attività la persona e non il capitale, l'idea e non il patrimonio, la giusta remunerazione dell'investimento e non la speculazione; tale sistema garantisce credito ai soggetti che hanno un progetto economicamente sostenibile e socialmente importante ma che non ottengono finanziamenti dagli istituti bancari tradizionali perché sprovvisti di garanzie patrimoniali. La finanza etica risponde alla necessità di riportare la finanza a svolgere la funzione originaria di garante del risparmio evitando gli impieghi puramente speculativi. Tra le organizzazioni fondatrici, la più rilevante è l'Associazione Finanza Etica, attiva sin dalla fine degli anni settanta. È un'associazione di secondo livello che si propone di far crescere la cultura della finanza etica, comprende un osservatorio di ricerca e confronto tra gli attori della finanza etica italiana ed attua attività di monitoraggio del mercato dei prodotti finanziari etici italiani. L'istituzione creditizia più importante è costituita da Banca Etica che è una banca popolare, opera a livello nazionale e ha caratteristiche che favoriscono l'azionariato diffuso in modo da favorire processi democratici ai quali corrispondono "una testa un voto". Il consorzio finanziario Etimos raccoglie risparmio a sostegno di esperienze microimprenditoriali e programmi di microfinanza nel Sud del Mondo. Infine l'attività di raccolta credito viene effettuata in larga misura anche dalle cooperative di Commercio Equo, sia in veste di singole botteghe, sia facendo parte di sistemi più strutturati come le cooperative socie al consorzio Ctm altromercato che utilizzano il risparmio raccolto per finanziarie progetti nel Sud del mondo (concedendo quindi microcredito ai produttori) oppure per i lavori di ampliamento e/o manutenzione delle botteghe stesse. Queste forme di deposito tecnicamente sono concorrenti alle istituzioni di credito come Banca Etica. Salute e ricerca [modifica] Il settore della sanità nel mondo non profit è al quarto posto dal punto di vista della concentrazione numerica, corrisponde cioè al 4,4% (9.676 su 221.412 dati Istat) delle organizzazioni presenti nel territorio italiano. Rimane al primo posto invece per numero di dipendenti assunti (22,8%) ed entrate raggiunte (18,8% delle entrate del complessivo settore). Si caratterizza dallâestrema varietà dimensionale delle organizzazioni: grandi associazioni private come l'ANFFAS che si avvalgono di ospedali e strutture sanitarie private altamente professionalizzate, insieme a piccole e numerose organizzazioni con prevalenza di lavoro volontario che offrono servizi di assistenza sanitaria e un servizio relazionale aggiuntivo come lâassistenza ai malati terminali, lâassistenza ospedaliera. Il settore dell'istruzione e della ricerca invece occupa il terzo posto raggiungendo il 5,3%. Si avvale di pochi volontari, quindi si basa prevalentemente su attività remunerata, e la provenienza dei suoi ricavi è soprattutto privata (consistente lâerogazione delle fondazioni bancarie). Recentemente è stata proposta dal Governo la trasformazione dei 15 Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico [1] pubblici in fondazioni "non profit" (il "Policlinico Francesco Sforza" di Milano rappresenta la prima esperienza di questo tipo). La Fondazione Telethon rappresenta una importante realtà nel campo della ricerca. Le sue azioni: individuare tematiche e assegnare fondi per progetti di ricerca, per borse di dottorato di ricerca e scuole di specializzazione, costituire proprie unità di ricerca, anche in collaborazione con università, enti pubblici di ricerca. Altre associazioni di particolare rilievo sono l'Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC), la Fondazione italiana per la ricerca sul cancro (FIRC), l'Associazione italiana sclerosi multipla (AISM). Sviluppo [modifica] Cooperazione [modifica] Per approfondire, vedi le voci Cooperazione internazionale e Organizzazione non governativa. La cooperazione internazionale nasce governativa dopo il secondo conflitto mondiale con le prime conferenze delle Nazioni Unite (es. Bandug 1955); dalla fine del XX secolo viene affiancata e sostenuta grazie a un forte sistema di valori, da quella non governativa, legittima rappresentanza della società civile. La cooperazione governativa si occupa del trasferimento di risorse finanziarie, assistenza tecnica, servizi e beni da un governo o da un organo pubblico di un Paese sviluppato a favore di un paese in via di sviluppo (PVS), mentre la cooperazione non governativa è maggiormente slegata da interessi politico-economici particolari e rappresenta il canale privilegiato delle istanze provenienti dalla società civile. Recentemente nuovi soggetti associativi hanno configurato una forma di cooperazione detta decentrata, che si basa sul contatto diretto tra due comunità con obiettivi comuni, e che quindi collabora con la tradizionale forma di cooperazione. In Italia le ONG che si occupano di cooperazione con i PVS hanno ottenuto un riconoscimento nel 1979 (legge 38 sulla cooperazione) e, in particolare con la nuova legge di riforma (49/87 [1]), hanno conosciuto un periodo di moltiplicazione numerica. Oggi sono 154 le ONG che lavorano in questo settore, e complessivamente le organizzazioni che si occupano di cooperazione e solidarietà superano i 1400 (fonte ISTAT [2]). Le Ong si basano prevalentemente su finanziamenti pubblici, mentre il 90% delle restanti organizzazioni agiscono con volontari e forme di autofinanziamento. Le storiche organizzazioni internazionali attive in tutto il mondo in progetti di cooperazione allo sviluppo: Save the Children [3] e Oxfam (già nel 1942). Esempi di organizzazioni nazionali: l'Associazione delle ONG Italiane [4] raccoglie il panorama non governativo nazionale più ampio e rappresentativo (nata nel 2000, è composta da quasi 160 ONG impegnate in attività di cooperazione internazionale da almeno tre anni). Esistono numerose organizzazioni di sviluppo e cooperazione internazionale che operano nel settore nonostante non siano ONG, promuovendo progetti in tutto il mondo. Tra queste AVEC-ONLUS [5] è un'associazione che opera, in partenariato con organizzazioni locali, in Repubblica del Congo. Un altro esempio è Sunugal [6], associazione di immigrati senegalesi che da molti anni segue progetti di cooperazione tra Italia-Senegal. Volontariato [modifica] Per approfondire, vedi la voce Volontariato. Secondo un'indagine ISTAT relativa all'anno 2004 in Italia sono circa 11 milioni (il 22,2 % degli abitanti con più di 14 anni) i cittadini che hanno partecipato almeno una volta nell'anno ad attività di volontariato. Di questi, però, solo poco più della metà (circa 6 milioni) sono andati oltre la partecipazione ad episodiche riunioni. Si tratta, comunque, di un numero consistente di volontari, che in genere dedicano parte del proprio tempo libero ad una singola organizzazione in modo identitario. La crescita del numero delle istituzioni non profit è stata particolarmente intensa dai primi anni novanta, mentre la crescita del numero dei volontari è stata più contenuta. La crisi del fordismo (già annunciata nella metà degli anni sessanta ma ancora non del tutto conclusa) e del welfare state tradizionale ha aperto enormi spazi di azione per il terzo settore, che nei primi anni novanta ha cercato di inserirsi nel panorama italiano come soggetto politico non partitico proprio mentre i partiti politici vivevano una stagione di delegittimazione dovuta anche a tangentopoli. All'indomani del sostanziale fallimento di intervento politico in senso stretto del mondo dell'associazionismo nasce alla fine del 1993 il Forum del Terzo Settore, coordinamento informale di associazioni, cooperative sociali ed organizzazioni di volontariato. Nel giugno del 1997 il Forum si costituisce formalmente escludendo per statuto le organizzazioni piccole e favorendo l'ingresso di quelle più tradizionali, strutturate e con bilanci maggiori. Pur rappresentando oltre 100 organizzazioni, il Forum sembra vivere una fase di minore vitalità negli ultimi anni. Nonostante l'esigenza di coordinare l'attività di un mondo del volontariato piuttosto frammentato (importanti sono i Centri di Servizio per il Volontariato su base regionale e talvolta provinciale e la FIVOL), le istituzioni che hanno come attività prevalente la filantropia e la promozione del volontariato sono soltanto lo 0,6 % del totale e possono contare solo sul 10 % di personale dipendente. Tutela dei diritti e della pace [modifica] Le organizzazioni che si occupano prevalentemente della tutela dei diritti sono intorno alle 6500, corrispondenti al 3 % circa del totale. (Fonte ISTAT relativa all'anno 2003). L'attività è svolta prevalentemente (circa l'80 %) da volontari, pur contando un buon 20 % di dipendenti. Una tra le organizzazioni più autorevoli e radicate che si batte per la tutela dei diritti umani in tutto il mondo è Amnesty International. Indipendente da ogni gruppo politico o confessione religiosa, nasce nel 1961 in Inghilterra ed ha vinto il premio Nobel per la pace nel 1977. Presente in Italia dal 1975, conta sul sostegno di 80000 soci. Il pacifismo italiano ha una lunga tradizione (nel secondo dopoguerra vanno ricordati i Partigiani della pace che raccolsero 10 milioni di firme per il disarmo nucleare ed il Movimento Nonviolento per la pace animato da Aldo Capitini) ed una grande presa tra i cittadini, testimoniata dalla grande manifestazione del 15 febbraio 2003 a Roma contro la guerra in Iraq. Sono numerose le organizzazioni che si adoperano per diffondere una cultura pacifista, di orientamento laico o cattolico, come Pax Christi: movimento internazionale presente in Italia dal 1954, nel 1983 Pax Christi Internazionale ha ricevuto il Premio Unesco per l'educazione alla pace. | |
Da: Per tutti i 215 | 08/01/2009 20:41:45 |
POTERI DELLO STATO, CHIESA CATTOLICA E CONFESSIONI RELIGIOSE NELLA COSTITUZIONE ITALIANA RAFFAELE COPPOLA Università di Bari Sommario: 1.Impostazione costituzionalistica e prospettiva interordinamentale nello studio del diritto ecclesiastico; lâinfluenza degli ordinamenti religiosi sulle famiglie giuridiche dei diritti laici. - 2. Sfera politica e sfera religiosa: due mondi a confronto; lâImperatore Costantino ed il cristianesimo; sviluppi e obiettivo della relazione. 2. Poteri dello Stato, libertà ed eguaglianza delle confessioni religiose. - 3. Parallelismo fra lâart. 7, 2° comma e lâart. 8, 3° comma, della Costituzione italiana. - 4. Ordinamenti confessionali e consolidamento del principio pattizio. Limiti ai poteri dello Stato discendenti dallâart. 20 Cost. 1. Impostazione costituzionalistica e prospettiva interordinamentale nello studio del diritto ecclesiastico; lâinfluenza degli ordinamenti religiosi sulle famiglie giuridiche dei diritti laici Lo svolgimento della relazione comporta un ridimensionamento di alcuni orientamenti (anche autorevoli), emergenti nel quadro della dottrina italiana, che portano al centro del diritto ecclesiastico i principi della libertà religiosa, dellâuguaglianza e del pluralismo, mortificando la prospettiva interordinamentale. Tali orientamenti, il cui peso non va misconosciuto per il deciso impulso a riconsiderare lâintero ambito della disciplina alla luce delle norme costituzionali concernenti i diritti di libertà[1], non pongono nel giusto rilievo il valore del sistema che fa capo allâart. 7 della Carta, frutto di approfonditi ed eloquenti dibattiti in seno allâAssemblea costituente[2], nonché lâinflusso da esso esercitato sullâinterpretazione giuridica concernente il fattore religioso[3], a prescindere dallâindirizzo volto a collocare i negoziati con le confessioni diverse dalla cattolica sul piano degli accordi politici esterni[4]. Lâesame del quadro costituzionale rilevante dimostra ad oculos come sia impossibile non tenere in debito conto, salvo modificazioni radicali (che non trovano riscontro nella maggioranza delle forze politiche né del Paese reale), la concreta disciplina costituzionale della libertà religiosa nel suo profilo collettivo, con le varie conseguenze che ne discendono in sede di accordi o di rapporti inter potestates, prima fra tutte la delimitazione dei poteri dello Stato, titolare della sovranità nel proprio ordine, a fronte del parallelo riconoscimento della sovranità della Chiesa e, mutatis mutandis, dellâautonomia istituzionale delle confessioni di minoranza. Dâaltra parte, non è possibile omettere che la classica distinzione del Ruffini fra libertà religiosa e libertà delle confessioni religiose, invero non trascurata dalla Costituzione (artt. 2, 3, 19 â" 7, 8, 20), è posta in crisi dalle articolazioni concrete della libertà religiosa individuale, effettivamente regolate dal concordato e dalle intese con le confessioni diverse dalla cattolica[5]. Del pari, non è da passare sotto silenzio, nella cornice dellâattuale sistema di rapporti fra Stato e confessioni (in linea di continuità con la storia delle relazioni fra Stato e Chiesa in Italia ed in genere nellâOccidente cristiano), la motivata ed originale concezione di un chiaro autore, la cui importanza è di immediata evidenza non meno delle sue implicazioni[6]. Essa, formulata due anni avanti lâinizio dellâattività della Corte costituzionale (quindi risalente nel tempo), individua per i diritti di libertà, accanto ad un contenuto negativo, un contenuto positivo, «che per quanto riguarda la libertà di coscienza consisterebbe in una forma speciale di collegamento tra lâordinamento confessionale e lâordinamento statuale, determinato dal volontario comportamento dei soggetti titolari del diritto di libertà religiosa. Il concreto esercizio di tale diritto opererebbe â al centro della vita giuridica individuale un collegamento fra ordinamenti giuridici»[7]. Indipendentemente dalle osservazioni in contrario formulabili specie nella nostra epoca, che registra un progresso nella valorizzazione delle pertinenze individuali, appare da quanto complessivamente esposto che la vigenza del tradizionale assetto istituzionalistico, la prospettiva interordinamentale (i cui antecedenti si fanno risalire alla teoria del dualismo giurisdizionale) non escludono lâimpostazione costituzionalistica, tesa alla valorizzazione della persona e dei suoi diritti fondamentali, fermo restando il problema naturale dei contorni della tutela predisposta, nella comune ricerca della funzione propria delle norme di diritto ecclesiastico, da inquadrare nella salvaguardia di quel sentimento religioso che la Corte costituzionale ha elevato fra i beni protetti dalla nostra legge fondamentale ed inteso quale sentimento che «vive nella coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della stessa fede»[8]. In ciò, nella possibilità di conciliare i due orientamenti, in un contesto volto a ridimensionare lâipotesi separatista a vantaggio del regime convenzionale ecclesiastico-statale (espressamente valorizzato da un grande uomo politico della Sardegna contemporanea, lâex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, nel discorso pronunciato dopo il giuramento di fedeltà alla Costituzione), il contributo di questa comunicazione al presente seminario sassarese. Detto contributo non sottovaluta lâinfluenza esercitata dagli ordinamenti religiosi sulle famiglie giuridiche dei diritti laici, romano-germanica - common law, con eccezione della famiglia sovietica prima degli odierni mutamenti dello status dâinteresse ecclesiasticistico[9]; si tratta di unâinfluenza da porre sicuramente in relazione con la situazione di favore o di prestigio della confessione o delle confessioni istituzionalizzate, come si dava e potrebbe rinvenirsi in alcuni Paesi europei per la Chiesa cattolica, nonostante il crollo dellâunità medievale e le vicende successive, ma che non si è mai tradotta nellâidentificazione della religione con lo Stato, come tuttora accade nellâuniverso islamico. 2. Sfera politica e sfera religiosa: due mondi a confronto; lâImperatore Costantino ed il cristianesimo; sviluppi e obiettivo della relazione Le comunicazioni in precedenza ascoltate sui rapporti fra Islam e istituzioni politiche nellâarea mediterranea esprimono una concezione tendenzialmente monista, esattamente lâopposto del menzionato sistema, proprio dellâOccidente, del dualismo cristiano di vincoli e di funzioni, che si riconduce comunemente a Gelasio I (494 d.C.), in forza del quale il confronto fra «le due spade», fra sacerdotium e imperium o, meglio, fra potere religioso e potere civile-politico è stato continuo, estremamente complesso e non infrequentemente conflittuale, onde affermare, con i mezzi di volta in volta consentiti, la supremazia dellâuno sullâaltro e viceversa[10]. Occorre certo sfatare il mito dellâassoluta chiusura dei Paesi della riva sud del Mar Mediterraneo alla separazione della sfera politica da quella religiosa, le tesi estreme secondo cui in essi sia del tutto inconcepibile, in atto o in prospettiva, qualsiasi forma di laicità dello Stato e, conseguentemente, «il pluralismo dei culti, la concorrenza ideologica e la tolleranza nei confronti dellâindifferenza religiosa e dellâateismo»[11]. Nondimeno, la legge sacra dellâIslam e lâordine politico islamico, con la varietà di posizioni che abbiamo verificato anche in questa sede, rappresentano una realtà imprescindibile in tutti i Paesi mediorientali, non comparabile con lâatteggiamento dei Paesi della riva nord (europeo-cristiana) e di quelli occidentali in generale, tanto più perché occorre prendere atto dellâaperta reazione alle tendenze laiciste, registrata in questi ultimi anni anche sotto la spinta dei movimenti fondamentalisti. Non poche incrinature è possibile notare perfino nella Repubblica turca, principalmente per il vigore dellâantica distinzione fra turchi (cioè musulmani) e cittadini turchi (non musulmani), pur trattandosi di un Paese dove è stato formalmente adottato il principio giuridico della separazione fra religione e Stato[12]. Facendo il nostro seminario seguito a quelli che si sono tenuti per celebrare San Costantino Imperatore, a Oristano-Sedilo e a Roma (Ponte Milvio) nel luglio e nellâottobre 1997, va al proposito ricordato che la communis opinio è nel senso di reputare confermata, con il dominato di Costantino, la politica di tolleranza verso la Chiesa fino a trasformarla, gradualmente, in concreto regime di favore. Tale regime di favore non ha impedito tuttavia di sostenere, con fondamento, che Costantino abbia lasciato alla sua scomparsa una «Chiesa incatenata», segno del dispotismo imperiale sulla religione[13]. Se questo può essere vero, non va dimenticato che siamo agli albori di una teorizzazione della libertas Ecclesiae, pressoché impensabile nellâambito di una Chiesa di Stato quale fu quella costantiniana. Come elemento positivo, tendente ad evidenziare lâapporto dellâImperatore al progresso del diritto in questo scorcio di fine millennio, che vede la Sardegna allâavanguardia dei rapporti interreligiosi fra Oriente e Occidente anche attraverso il culto di San Costantino, va messo in luce che, almeno in teoria, lo stesso non cessò mai di essere convinto che la Chiesa, nella sfera del suo potere (ossia in campo spirituale), dovesse essere libera nel modo più pieno da ogni forma di tutela statale, quantunque il corso degli eventi e le conseguenti determinazioni siano poi andati verso la direzione opposta. Con riguardo agli sviluppi della relazione, incentrata sulla tricotomia poteri dello Stato, Chiesa cattolica e confessioni religiose nella Costituzione italiana, le tematiche oggetto di specifico approfondimento, nel testo riservato alla pubblicazione come già in sede congressuale, concernono lâuguale libertà delle confessioni religiose, i rapporti fra principio di uguaglianza, formazioni sociali e confessioni religiose, la disciplina costituzionale della libertà delle confessioni religiose. Inoltre la bilateralità pattizia della normazione di diritto ecclesiastico, con riferimento allâart. 7 e particolarmente allâart. 8 (più trascurato dalla dottrina), le confessioni legittimate a stipulare intese con lo Stato, la prescrizione delle intese fra legislazione unilaterale speciale e diritto comune. Infine i rapporti fra discipline bilaterali inerenti alle confessioni religiose e i procedimenti di produzione normativa di tipo contrattualistico, le intese come accordi di diritto esterno e, in corrispondenza, lâappartenenza dei concordati al genus degli accordi internazionali. Un cenno conclusivo riguarderà lâart. 20 della Costituzione. Lâesposizione tende a fornire elementi di valutazione, idonei a comprendere la diversità dei modelli, lâuno pertinente al ceppo romanista lâaltro al sistema musulmano, che si confrontano anche dialetticamente, ma senza pretese egemoniche, in vista di una maggiore comprensione e della coesistenza fra i popoli. La speranza risiede, al di là delle dissomiglianze e delle tensioni, nella vittoria finale del diritto, dellâetica, del rispetto reciproco in quanto fattori impreteribili della riconciliazione e della pace mondiale. 3. Poteri dello Stato, libertà ed eguaglianza delle confessioni religiose In una tale disamina, ribaltando lâottica usualmente seguita (segnatamente nel passato), lâaccento va posto in primo luogo sullâart. 8, 1° comma, Cost., non a torto ritenuto la regola fondamentale del diritto ecclesiastico italiano[14], applicabile a tutte le confessioni, compresa la cattolica. La norma, peraltro, come ebbe a chiarire la Corte costituzionale, fa riferimento a unâeguale libertà davanti alla legge, non sancisce unâidentità di regolamento dei rapporti con lo Stato[15], anche se questo non può certo comportare una qualsivoglia differenziazione dallâangolo visuale delle garanzie effettuali di fruizione dei diritti, ove si considerino (come è giusto e opportuno) i diritti di libertà «non solo nel loro contenuto negativoâ ma anche nel loro contenuto positivo», riconducibile appunto «al profilo della concreta fruibilità dei diritti stessi»[16]. La norma espressamente da invocare a proposito di eguaglianza delle confessioni religiose è, comunque, lâart. 3 Cost. (1° comma), sebbene in essa si faccia letterale menzione dei cittadini, i quali hanno pari dignità sociale e sono uguali, sempre davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. In effetti il criterio della parità di trattamento è valevole per tutti i soggetti dellâordinamento, non solo per le persone fisiche (specificamente per i cittadini), dal momento che unâeventuale disparità di trattamento tra i diversi corpi sociali (in cui sono incluse le confessioni) sarebbe destinata ad incidere sulla condizione giuridica dei rispettivi membri, «titolari dellâinteresse alla parità di trattamento»[17]. Restringendo il discorso al campo in questione (mettendo quindi da parte, in particolare, le interessanti problematiche sollevate nel diritto ecclesiastico dallâimpegno racchiuso nel secondo comma dellâart. 3 in rapporto alla tutela della libertà psicologica), se è innegabile che al principio di eguaglianza risultano vincolate anche le discipline riguardanti le confessioni religiose, non è meno vero che la giurisprudenza considera lâeguaglianza non «un fine in sé e per sé ma un limite che impone il perseguimento di altre finalità costituzionali per rendere ragionevoli quelle differenziazioni che lâart. 3 di per sé vieterebbe»[18]. O meglio: sia la costante giurisprudenza della Corte costituzionale sia la tendenza interpretativa imperante non da oggi in dottrina continuano a reputare che il principio di eguaglianza vada inteso come criterio di ragionevolezza delle differenziazioni legislative, le quali devono essere fornite di una giustificazione adeguata alla sostanza della propria disciplina. In definitiva, quel che lâordinamento ha da esprimere pure in materia religiosa, benché non si tratti di ambito e finalità da porre in relazione dello Stato come in terra dâIslam, è la reciproca coerenza delle norme in riferimento allâobbiettiva diversità di situazioni e circostanze. Ciò significa, tenuto conto del tipo di pluralismo (non indifferenziato) desumibile dallâordinamento, che le medesime esigenze conducenti, «in un quadro di coerenza coi fini-valori ai quali si uniforma un settore dellâordinamento, allâemanazione di una specifica normativa per una certa confessione, dovranno essere prese in considerazione per ogni altra confessione che ne chieda il soddisfacimento, anche se potranno essere soddisfatte non necessariamente in modo identico, ma a mezzo di una disciplina ragionevolmente diversificata»[19]. Stabilita la portata della norma sullâuguaglianza, vengono in esame le disposizioni regolatrici della libertà delle confessioni religiose e, ancor prima, lâart. 2 Cost., norma che salvaguarda, oltre al pluralismo ideologico, il pluralismo istituzionale (lâautentica novità della vigente Costituzione italiana), allorché sanziona lâimpegno della Repubblica di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dellâuomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Un disposto, questâultimo, a cui anche la più avvertita dottrina ecclesiasticistica, non diversamente da quella costituzionalistica, attribuisce la funzione di tutela di tutti i valori di libertà, «che vanno emergendo a livello di costituzione materiale»[20]. Allâambito delle formazioni sociali vanno ascritte le confessioni religiose, non esclusa la Chiesa cattolica. Come noto, alla base del rifiuto dellâinquadramento delle confessioni tra le formazioni sociali câè il rigetto della tesi, che ha incontrato consensi e non pochi dissensi, incentrata sullâidentificazione di queste con le comunità intermedie (intese nel senso di comunità intermedie fra lo Stato e il cittadino); una concezione che, in realtà, non si proponeva di svalutare le singole formazioni sociali (tanto meno le confessioni religiose) a vantaggio dello Stato, ma che si colloca in unâottica privatistica[21], non sempre consentanea allâindole delle confessioni religiose (penso massimamente alla Chiesa cattolica e ad alcune Chiese storiche) e, soprattutto, incompatibile con le determinazioni costituzionali (art. 7, 1° comma â" art. 8, 2° comma), afferenti alla libertà delle confessioni religiose in genere. Lâart. 7, 1° comma, sottolinea lâindipendenza e la sovranità dello Stato e della Chiesa cattolica ciascuno nel proprio ordine, quindi lâoriginarietà dellâordinamento della Chiesa ed il criterio della separazione degli ordini e delle attribuzioni. Degna di menzione, al proposito, lâobiezione del Calamandrei alla Costituente: «â quando si arriverà su un terreno pratico in cui nascerà il conflitto e in cui si troveranno nei due ordinamenti norme divergenti e contrastanti, allora si tratterà di stabilire se devono prevalere gli ordinamenti dello Stato, la cui sovranità è stata riconosciuta dalla Chiesa, o se devono prevalere gli ordinamenti della Chiesa, la cui sovranità è stata riconosciuta dallo Stato»[22]. Tale attualissima obiezione è in effetto superata dalla tesi, la più vicina allâorientamento della Corte costituzionale, che vede nei Patti lateranensi «la misura costituzionale della competenza che lo Stato ha attributo allâordine suo ed a quello della Chiesa»[23]; sicché il potere civile ed il potere ecclesiastico vengono limitati dalle norme dei Patti[24], i quali sono però subordinati ai principi supremi - inderogabili - dellâordinamento costituzionale dello Stato, a somiglianza di «un varco nella cittadella, sinora inaccessibile, del sistema concordatario»[25]. Lâart. 8, 2° comma, in corrispondenza, stabilisce il diritto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica di organizzarsi secondo i propri statuti, con il limite del non contrasto con lâordinamento giuridico italiano; un limite, sul quale si articola la serie di poteri dello Stato, che odierne tendenze dottrinali tendono a situare in una sfera in cui sfuma la differenza rispetto al riconoscimento operato, per la Chiesa cattolica, dallâart. 7[26]. Nonostante lâautorevole, opposta interpretazione, che restringe (fino quasi ad annullare) la realizzabilità e la giuridicità delle norme di tali confessioni[27], deve perlomeno ritenersi ad esse applicabile il concetto di autonomia istituzionale, quando non si versi nellâipotesi delle confessioni c.d. di fatto[28], dato che i loro ordinamenti «non sono derivati e quindi sono estranei allâordinamento statuale», quantunque in posizione secondaria per il limite espresso dellâordinamento giuridico dello Stato[29] a fronte di una categoria che, per quanto sempre meno indifferenziata rispetto al 1929-30 ed allâepoca stessa della costituente, si presenta tuttora aperta, con note anzi di maggiore variabilità a motivo del peso anche in Italia dei nuovi movimenti religiosi[30]. In questo senso il limite dellâordinamento dello Stato finisce con lâassumere la funzione di una garanzia per le confessioni di minoranza, unâesplicazione del principio di eguaglianza attraverso il filtro del sindacato sulle norme organizzative. Lâopinione personale suppone lâinesistenza di confessioni carenti di un minimo di organizzazione giuridica (con esclusione nondimeno dellâobbligo di darsi uno statuto) e, in conseguenza, lâapplicabilità della teoria ordinamentale pure alle confessioni non istituzionalizzate ed a prescindere dalla visione delle stesse al riguardo (confessioni le quali respingono la connotazione dellâordinamento giuridico), dovendosi in ogni caso procedere secondo i parametri consueti della giuspubblicistica statuale. Una delle tesi più accreditate, che integra la fortunata concezione di Santi Romano[31], ravvisa le componenti dellâordinamento giuridico nella plurisoggettività, nellâorganizzazione, nonché nella normazione[32], in cui va ricompreso il ricorso alla consuetudine. 4. Parallelismo fra lâart. 7, 2° comma e lâart. 8, 3° comma, della Costituzione italiana Il parallelismo verificato fra art. 7, 1° comma ed art. 8, 2° comma, Cost. si riproduce per il 2° comma dellâart. 7 nel collegamento con lâart. 8 , 3° comma. È possibile notare in primo luogo che alcuni suggerimenti de iure condendo circa la penultima delle disposizioni in parola prestano, ad avviso di chi scrive, il fianco a rilievi che non è lecito sottacere. Mi riferisco allâargomentata tesi del Finocchiaro sullâesaurita funzione dellâart. 7 cpv. della Carta, tesi che sembra porre in secondo piano il valore della garanzia costituzionale, da conservare al Trattato del Laterano per lâunicità della posizione dellâItalia rispetto allo Stato Città del Vaticano, indipendentemente dallâasserita irrevocabilità ad nutum e in modo unilaterale dei trattati internazionali creativi di nuovi Stati[33]. Lâaltro presupposto, che ritengo sommessamente di non poter condividere, quantunque espresso più compiutamente in altra sede, concerne il dubbio sulla continuità di copertura costituzionale della legge di esecuzione del concordato del 1984 modificativa (non direi sostitutiva) di quella del 1929. Tale continuità di copertura è stata ribadita dalla Corte costituzionale specialmente con la sentenza n. 203 del 1989, che non sarebbe riducibile ad impliciti obiter dicta o superabile con lâauspicio che la soluzione venga in futuro modificata[34], trattandosi di una precisa presa di posizione, consistente nellâaffermazione che le modificazioni del concordato lateranense, recepite dalla legge di ratifica ed esecuzione 25 marzo 1985 n. 121 (ed analogamente dicasi forse per le leggi 20 maggio 1985 n. 206 e 20 maggio 1985 n. 222), rimangono nellâambito della copertura sancita dallâart. 7 Cost.; tanto significa che siamo in presenza di vere e proprie modificazioni di uno dei Patti, non di un concordato che ha completamente innovato la materia[35]. Viene così confermato che in relazione a queste norme, di derivazione concordataria in senso stretto, il controllo di costituzionalità da parte dello Stato ha un oggetto necessariamente più limitato, costituito dal parametro dei principi supremi dellâordinamento costituzionale dello Stato, già introdotto dalla precedente giurisprudenza della Corte nella vigenza del concordato lateranense[36]. Se il principio convenzionale (bilateralità pattizia) della normazione di diritto ecclesiastico trova accoglimento nella Carta, per la Chiesa cattolica, mediante lo storico richiamo ai Patti lateranensi[37], lâidentico principio viene ad esprimersi, per le rimanenti confessioni, con lâistituto delle intese fra Stato e rappresentanze religiose. Un istituto indubbiamente nuovo nel contesto costituzionale, sebbene siano stati intravisti dei precedenti, specie in alcuni ordinamenti pluriconfessionali e, storicamente, nelle condotte dei principi con le comunità ebraiche, proprie dellâEtà di mezzo[38]. Lâattuazione della Costituzione, con riguardo alla materia in discorso (tralasciando le inadempienze in ordine alla modificazione consensuale dei Patti lateranensi - rectius del concordato â" prospettata fin dai dibattiti per lâapprovazione dellâart. 7), avrebbe già da tempo dovuto comportare la stipulazione di intese con le minoranze religiose. Qui la dottrina non si manifestava né si manifesta univoca nellâindividuazione dei requisiti propri delle confessioni: variano i criteri proposti, che appaiono più o meno elastici, a seconda della considerazione dellâinteresse dello Stato alla disciplina bilaterale con tali minoranze, non occultate come in Francia. Sulla base della differenziazione fra confessioni ex art. 8 ed associazioni ex art. 19 Cost. (giacché il diritto di libertà religiosa è protetto in qualunque forma, individuale o associata), è stata qualificata confessione idonea a stipulare intese la comunità, avente finalità religioso-trascendentale, quando sia dotata di «una propria organizzazione e normazione scritta da cui desumere i rappresentanti e sia consolidata nella tradizione italiana»[39]. Oppure si è invocato il criterio meno rigoroso, seguito dagli autori tedeschi, dei gruppi sociali religiosi muniti di «particolari caratteristiche strutturali e garanzie di durata»[40]. Indipendentemente da altre opinioni, pure registrate in proposito, sembra cogliere nel vero chi reputa legittimate a stipulare intese con lo Stato tutte le confessioni in senso funzionale, in quanto rivolte al soddisfacimento di un interesse religioso collettivo[41], ritenendosi del pari che lâautentica valutazione da parte governativa debba cadere non tanto sul fatto che un gruppo sia definibile o meno come confessione religiosa quanto sullâopportunità di addivenire ad una disciplina speciale, ovviamente di natura pattizia[42]. Lâesplorazione dei poteri dello Stato nei riguardi delle confessioni religiose richiama alla mente il ritardo nellâavvio delle procedure di attuazione del terzo comma dellâart. 8 Cost. Tale ritardo va ricondotto, principalmente, a unâingiustificata resistenza da parte dellâapparato statale, in aderenza a una linea di politica ecclesiastica sicuramente diffidente nei confronti delle confessioni non cattoliche; mentre lâinteresse della dottrina e dellâintellettualità, salvo casi sporadici, era concentrato sulle problematiche scaturenti dal concordato lateranense e, comunque, sui rapporti Stato-Chiesa cattolica, in quanto religione della maggioranza dei cittadini. Detto ritardo assumeva una speciale gravità in relazione allâebraismo e alle Chiese evangeliche, confessioni di antica tradizione e dotate di consolidamento storico in Italia, protagoniste - queste ultime - di una lunga e difficile battaglia per giungere alla situazione odierna, che costituisce (come già accennato) unâesperienza del tutto nuova nel ciclo costituzionale del nostro Paese[43], oltre che nella storia della riforma della legislazione ecclesiastica. Per giunta le intese rappresentano il mezzo adatto, a giudizio degli interlocutori confessionali, per superare le restrizioni contenute nella legislazione fascista del 1929/30. Ed invero, come risulta dai lavori preparatori dellâart. 8, 3° comma (i loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze), se con lâespressione «sono regolati», nonostante lâapparente senso perentorio, la commissione volle stabilire una facoltà, non un obbligo alla regolamentazione dei rapporti con lo Stato (Ruini), resta fermo che lâinterpretazione in senso potestativo va corretta alla luce dellâaltro principio accolto (formulato dallâon. Pajetta), secondo cui lâeventuale legge deve essere sempre preceduta, obbligatoriamente, da unâintesa con la comunità religiosa alla quale si riferisce[44]. Sui richiamati lavori preparatori, evidentemente, si basa la nota tesi dello Jemolo, che emerge fra le fondamentali posizioni intorno al contrastato disposto dellâart. 8, avendo egli esattamente puntualizzato che la norma costituzionale non prevede lâinderogabile necessità di una legislazione sulle confessioni diverse dalla cattolica, ma che ove occorra (ossia se è necessaria una legge, avente ad oggetto i rapporti fra queste confessioni e lo Stato), essa devâessere formata sulla base dâintese con le rappresentanze delle confessioni considerate[45]. Ciò spiega lâipotesi di uno stato di permanente e latente conflitto con la Costituzione, motivato dal carattere unilaterale della legislazione del 1929/30, per la maggior parte delle confessioni ancora in vigore. Lâopinione prevalente ritiene, al contrario, lâesistenza di norme indirettamente rinforzate (l. 24 giugno 1929, n. 1159 â" r.d. di attuazione 28 febbraio 1930, n. 289), facendo scattare il principio di bilateralità al momento dellâeventuale sostituzione di queste norme, che siano abrogate dal legislatore ordinario[46]. È chiaro che, ove si producesse lâabrogazione dellâintero corpo normativo di provenienza unilaterale statale (non di alcune norme soltanto), le confessioni prive dâintesa sarebbero sottoposte al diritto comune applicabile fino al sorgere, dandosi lâopportunità, dellâordinamento speciale di carattere pattizio attraverso la stipulazione delle intese occorrenti con le confessioni, che giungano di volta in volta alla ribalta. Unâaltra ipotesi, fuori dellâambito del ragionamento finora esposto (che pone in luce le consistenti, ma motivate differenze con il regime concernente la Chiesa cattolica), suppone la permanenza della competenza dello Stato a legislare in via unilaterale a livello di normazione speciale, onde consentire che le confessioni senza intesa possano subito attivarsi, mediante i rispettivi membri, per ottenere quei miglioramenti o quelle abrogazioni che altre confessioni hanno conseguito in via bilaterale. Tanto comporta una limitazione della sfera dâincidenza della fonte pattizia, che non coprirebbe dunque il complesso dei rapporti con le confessioni religiose; mentre lâattribuzione allo Stato della competenza legislativa al di là della prescrizione dellâart. 8, 3° comma (intese), pienamente discende, secondo la medesima impostazione, dal 1° comma dellâart. 8 (uguale libertà delle confessioni) e specialmente dallâart. 3 cpv. Cost., che sancisce lâimpegno della Repubblica «di rendere effettive la libertà e la dignità sociale dei cittadini, nonché la loro partecipazione alla gestione del potere»[47]. 5. Ordinamenti confessionali e consolidamento del principio pattizio. Limiti ai poteri dello Stato discendenti dallâart. 20 Cost. Le sei intese, tradotte in leggi dello Stato (con la Tavola valdese, lâUnione avventista, le Assemblee di Dio, lâUnione delle Comunità ebraiche, lâUnione cristiana evangelica, la Chiesa evangelica luterana), realizzano un importante salto di qualità nella disciplina del fenomeno religioso, non difformemente dallâavvenuta revisione del concordato lateranense, frutto dei principi della Costituzione del â47 e del processo di trasformazione politico-sociale degli ultimi decenni, oltre che della ventata di rinnovamento del Concilio Vaticano II. La stessa intesa prototipo, raggiunta il 21 febbraio 1984 con valdesi e metodisti, pur se tradotta anteriormente in legge dello Stato, non sarebbe stata possibile senza il rilevante cambiamento di rotta rispetto al concordato lateranense e alla legislazione coeva: contenuti più riguardosi della coesistenza e dignità dei differenti culti, considerazione della libertà di coscienza dei non credenti, assenza infine di riconoscimenti peculiari alla Chiesa cattolica privi di giustificazione razionale. Lâatteggiamento non muta rispetto alle rimanenti intese, successivamente stipulate e tradotte in legge in ottemperanza al disposto (per lungo tempo disatteso) dellâart. 8, 3° comma, della Costituzione. Il vantaggio, rispetto alle esperienze separatistiche, consiste «nella tutela e garanzia delle espressioni in positivo delle libertà di religione»[48], nellâoperatività di normative promozionali, che si collocano in parallelo (esclusa ogni identificazione) con il procedimento, in espansione nel raggio delle democrazie occidentali, della negoziazione legislativa o della legislazione contrattata con le parti sociali. In effetti vuoi il concordato vuoi le intese, in sé considerate, si fondano su presupposti incompatibili con tale procedimento, esattamente riposti nella distinzione degli ordini, «che esige il confronto tra enti esponenziali di ordinamenti indipendenti», e nella delimitazione delle materie «che individuano il campo dei loro rapporti»[49], per quanto tendenzialmente connesse (con possibili straripamenti) al contenzioso globale fra Stato e confessioni. Tralasciando per ora il secondo aspetto, il quale attiene (per ciò che qui importa) al tema dei contenuti delle intese con le confessioni di minoranza, è da dire che, nelle intese in questione (in sintonia con le anteriori acquisizioni), le confessioni non cattoliche si presentano con i caratteri dellâordinamento giuridico, secondo posizioni formali di autonomia e dâindipendenza non dissimili dalle prerogative dellâordinamento canonico. Ricordo lâart. 2 della legge n. 449 del 1984, dove la Repubblica italiana dà atto dellâautonomia e dellâindipendenza dellâordinamento valdese; lâart. 18 della l. n. 101 del 1989, nel quale viene riconosciuto che le Comunità ebraiche, in quanto istituzioni tradizionali dellâebraismo in Italia, sono formazioni sociali originarie che provvedono, ai sensi dello statuto dellâebraismo in Italia, al soddisfacimento delle esigenze religiose degli ebrei secondo la legge e la tradizione ebraiche; lâart. 2 delle leggi 516 e 517 del 1988, per il cui tramite la Repubblica dà atto dellâautonomia delle Chiese cristiane avventiste e delle Assemblee di Dio in Italia, liberamente organizzate secondo i propri ordinamenti e disciplinate dai propri statuti; lâart. 2 della l. n. 116 del 1995, nel quale la Repubblica dà atto dellâautonomia dellâUCEBI, liberamente organizzata secondo il proprio ordinamento; lâart. 3 della l. n. 520 del 1995, in cui la Repubblica italiana dà atto dellâautonomia della CELI e delle Comunità che ne fanno parte, liberamente organizzate secondo i propri ordinamenti e tradizioni e disciplinate dai propri statuti. Più che su queste norme, gran parte della dottrina ha posto lâaccento sulle questioni procedurali per attribuire alle intese lâindole di convenzioni di diritto interno, riconoscibile, secondo una delle tesi meglio argomentate, fin dalle modificazioni apportate al primo progetto dâintesa fra Stato e Chiese rappresentate dalla Tavola valdese[50]. Nonostante le motivate controdeduzioni[51], lâasse del discorso critico non è stato spostato, risultando in un certo senso avvalorato dalla seconda fase del negoziato (di attuazione dellâart. 8 Cost.), relativa alle intese più recenti, in cui sono state seguite modalità differenti da quelle osservate in passato per lâintesa con la tavola valdese e la revisione del concordato lateranense. Non hanno più operato due distinte delegazioni, ma ha agito formalmente unâunica commissione di studio, di nomina governativa, integrata dagli esperti segnalati dalle confessioni man mano coinvolte. Il fatto tocca, indubbiamente, il problema della natura giuridica delle intese, come ricavabile altresì dalla circostanza dellâapprovazione articolo per articolo dei disegni di legge riguardanti le intese, preferita allâapprovazione di un articolo unico di esecuzione, con allegato il testo dellâintesa. Al momento finale, tuttavia, la firma è rimasta ai due interlocutori, rispettivamente il Presidente del consiglio e le rappresentanze religiose. Se tutto ciò esclude la natura internazionalistica delle intese (da attribuire invece, con le precisazioni del caso, al concordato con la Chiesa cattolica), non vuol dire, come pure è stato sostenuto, che ci si trovi sul piano «puramente procedimentale e interno non solo allo Stato-comunità, ma anche allo Stato-apparato»[52]. Le intese, quantunque fuori dallâambito internazionale, si collegano pur sempre sul terreno degli accordi politici esterni, dei rapporti bilaterali fra ordinamenti indipendenti, salvo si voglia togliere qualunque peso alle determinazioni normative dietro rammentate, che escludono la possibilità di considerare le confessioni acattoliche in una condizione di sudditanza rispetto allo Stato. Le intese, in definitiva, come è stato opportunamente posto in rilievo, «sono atti bilaterali che, per garantire in modo perfetto la libertà e lâindipendenza delle confessioni di minoranza, la Costituzione mostra di collocare in una sfera giuridica che non è quella dellâordinamento statuale, ma è quella di un ordinamento che viene creato, di volta in volta, dallâincontro della volontà dello Stato e delle comunità confessionali»[53]. I princìpi fondamentali, che presiedono a tali atti, si riassumono nelle direttive di lealtà e di buona fede, mentre esiste una minore rigidità di forme al confronto con il concordato, in dipendenza dai criteri che le parti, nei diversi frangenti, ritengano di seguire; in sostanza lâordine esterno, anteriormente sostenuto per i rapporti Stato-Chiesa cattolica da alcune correnti di pensiero onde rappresentarne la tipicità rispetto ai rapporti internazionali, diventa proprio dei rapporti Stato-confessioni di minoranza. Le conclusioni accolte sono in sintonia con la moderna visione pluralistica e laica, nel senso di una pluralità esterna ed interna degli ordinamenti giuridici, senza che a nulla rilevi il carattere spirituale degli ordinamenti considerati. La visione in parola è pienamente compatibile con lâessenza del nostro Stato democratico pure nei conseguenti profili, relativi al consolidamento del principio pattizio (discendente dalle intese come dalle modificazioni consensuali del concordato lateranense), se ha un significato il deciso cambiamento di rotta, operato con lâavvento della Repubblica, di contro allâesclusivismo proprio della concezione dello Stato dominante dallâUnità dâItalia sino alla caduta del fascismo[54]. Nel quadro dei limiti ai poteri dello Stato un cenno conclusivo merita lâart. 20 Cost., secondo cui il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto dâuna associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività. La tesi sostenuta dallâOnida, favorevole allâeliminazione di tale articolo[55], sembra contrastare con le ulteriori potenzialità, che la migliore dottrina oggi riconosce alla norma. Mi riferisco specialmente alle osservazioni sullâimportanza di essa ai fini della tutela dei nuovi movimenti religiosi, ma diverse annotazioni (che lâeconomia del contributo non permette di approfondire) sono state svolte con puntualità ed efficacia. Non si tratta dâinterpretazioni forzate del dettato costituzionale, bensì di un nuovo e arioso quadro[56], che va oltre lâinsuperabile ostacolo alla formula organizzatoria del giurisdizionalismo e alla politica eversiva dellâasse ecclesiastico, perseguita nel secolo scorso dallo Stato liberale. | |
Da: Per tutti i 215 | 08/01/2009 20:43:08 |
Per Aspera ad Veritatem Rivista di intelligence e di cultura professionale © Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica Rivista N.24 settembre-dicembre 2002 Saggi e articoli Andrea CANTADORI - Lo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose 1. L'origine del decreto legge 31 maggio 1991, n. 164 La sera del 3 maggio 1991 i telegiornali aprirono con la notizia dell'uccisione a Taurianova di quattro persone, una delle quali con modalità tali da far inorridire l'opinione pubblica nazionale e da essere ampiamente riprese anche dalla stampa estera. Il giorno successivo i figli di una delle vittime riuscirono miracolosamente a salvare la vita, pur rimanendo gravemente feriti da killer travestiti da carabinieri che avevano evidentemente il compito di annientare l'intera famiglia. Taurianova, centro agricolo della piana di Gioia Tauro con poco più di 17.000 abitanti, era da tempo al centro di episodi mafiosi di inaudita gravità e violenza. Cronisti di tutte le parti del mondo furono inviati a documentare il "caso Taurianova": i giornali riportarono una sequela impressionante di omicidi, dalla strage di contrada Razzà a metà degli anni settanta, ove nel corso di un violentissimo conflitto a fuoco rimasero uccisi due pregiudicati e due militari dell'Arma, sino ad allora. Sul versante del crimine organizzato il ritorno sulla scena del boss locale, rimasto assente dal 1984 al 1987 a causa di una condanna all'ergastolo per omicidio, vanificata dalla decorrenza dei termini, sembrò coincidere con la fine dello stato di anarchia che regnava tra le bande. Significativa fu una singolare coincidenza: la microcriminalità (furti, rapine, estorsioni, piccolo spaccio di sostanze stupefacenti) che era esplosa a Taurianova nel periodo di assenza del boss, cessò con il suo ritorno e la riconquista delle antiche posizioni di potere. Ma la riaffermazione della "pace sociale" passò attraverso l'eliminazione fisica di diciotto giovani che avevano osato turbarla. L'uccisione del boss e del suo luogotenente, avvenuta nel 1990, riaprì la guerra fra le cosche per il controllo economico della zona e il dominio di ogni attività parassitaria, sia nel campo delle estorsioni che dell'accaparramento dei subappalti. In poco più di un anno si contarono trentatré delitti, quindici tentati omicidi e decine di danneggiamenti a scopo intimidatorio. Le forze dell'ordine, già oltremodo impegnate, risposero con la richiesta di misure di prevenzione nei confronti di decine di pericolosi elementi. Il clima di paura e di violenza si rifletteva anche sul piano amministrativo: in consiglio comunale si susseguivano dimissioni e surroghe di consiglieri. Uno di essi fu assassinato con modalità tipicamente mafiose a colpi di lupara mentre si trovava all'interno di un salone da barbiere. Era evidente che di fronte a una tale pressione criminale era difficile attendersi azioni di denunzia da parte della popolazione o delle autorità locali. Del resto "l'occupazione" dell'amministrazione comunale di Taurianova era già avvenuta, tanto che un noto personaggio del luogo aveva potuto concludere un discorso tenuto alla cittadinanza dal balcone di casa propria asserendo di essere "l'uomo della provincia di Reggio Calabria che ha sistemato più gente". La prefettura era intervenuta in più occasioni con provvedimenti di rigore nei confronti di singoli amministratori, ma era chiaro che la criminalità organizzata condizionava la vita dell'intero consiglio comunale, compromettendone il regolare funzionamento e influendo sullo stato della sicurezza pubblica. Emblematico era il fatto che secondo una stima delle forze dell'ordine almeno il 90 per cento delle costruzioni edificate negli ultimi vent'anni fosse abusivo: la loro edificazione veniva infatti affidata a ditte appartenenti a "uomini d'onore", gli unici in grado di garantire l'esecuzione dell'opera. Non era mai accaduto che il comune fosse intervenuto per interrompere l'illecito. Appariva dunque evidente che all'impegno profuso dalle forze dell'ordine per garantire la sicurezza pubblica (fu disposta anche l'istituzione di un commissariato di P.S.) dovessero aggiungersi interventi mirati dallo Stato nei confronti dell'amministrazione comunale. Questa esigenza era ben chiara, ma quali erano gli strumenti legislativi a disposizione? La legge 8 giugno 1990, n. 142, sul nuovo ordinamento delle autonomie locali, all'art. 39, consentiva lo scioglimento dei consigli comunali in caso di atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge, nonché per gravi motivi di ordine pubblico. Dopo i necessari approfondimenti si convenne, anche alla luce della giurisprudenza sino ad allora affermatasi, che l'art. 39 sarebbe stato di difficile applicazione al caso in questione. Non si trattava di sottili disquisizioni giuridiche, ma della necessità di assicurare che il provvedimento di rigore reggesse anche di fronte a un alquanto probabile ricorso amministrativo: le conseguenze di un suo eventuale annullamento sarebbero state fortemente negative, con effetti demotivanti facilmente intuibili sulla parte sana della popolazione taurianovese. Appariva quindi inevitabile che il governo avrebbe dovuto fare ricorso ai suoi poteri in materia di decretazione d'urgenza allo scopo di introdurre nell'ordinamento un'ipotesi di scioglimento del tutto nuova rispetto a quelle fino ad allora previste. Il Ministro dell'Interno Vincenzo Scotti decise di sottoporre la questione al Consiglio dei Ministri. Anche il Ministro di Grazia e Giustizia, nonché Vice Presidente del Consiglio, Claudio Martelli, fortemente colpito dall'efferata strage avvenuta il 3 maggio, auspicò lo scioglimento del consiglio comunale di Taurianova come prima tappa per il ripristino di condizioni di legalità. Si svolse così al Viminale un incontro al quale parteciparono anche incaricati del Ministro Martelli. In quell'occasione si convenne sulla necessità di emanare una nuova norma ad hoc che configurasse lo scioglimento degli enti nei cui confronti fossero stati riscontrati fenomeni di infiltrazioni o condizionamento da parte della criminalità organizzata. L'amministrazione straordinaria di tali enti sarebbe stata assicurata da una commissione per un periodo sufficientemente lungo a garantire il ripristino delle condizioni di legalità. In seguito a una serie di incontri fu approntato il testo di un provvedimento che, una volta deliberato dal Consiglio dei Ministri, divenne il decreto legge 31 maggio 1991, n. 164, recante: "Misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi di altri enti locali, di tipo mafioso". Il decreto legge, che introduceva l'articolo 15 bis alla legge antimafia n. 55 del 1990, prevedeva dunque un'ipotesi nuova di scioglimento rispetto a quelle previste dalla legge sulle autonomie locali del 1990. Il decreto legge 164 disponeva che i consigli comunali e provinciali potevano essere sciolti quando, in seguito all'esercizio dei poteri conoscitivi e ispettivi del prefetto, fossero emersi elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o forme di condizionamento degli amministratori tali da compromettere l'imparzialità e il buon andamento degli organi elettivi, il regolare funzionamento dei servizi, o fossero tali da arrecare pregiudizio per la sicurezza pubblica. In considerazione della specificità delle cause poste alla base del provvedimento di scioglimento, il decreto legge prevedeva che esso venisse deliberato dal Consiglio dei Ministri prima di essere sottoposto alla firma del Capo dello Stato. La durata del periodo di scioglimento fu stabilita in un periodo compreso tra dodici e diciotto mesi, un periodo cioè assai più ampio rispetto alle ipotesi contemplate dalla legge 142/90. La norma stabiliva inoltre la nomina, con il decreto di scioglimento, di una commissione straordinaria incaricata della gestione dell'ente, composta da tre membri scelti fra funzionari dello Stato e fra magistrati della giurisdizione ordinaria o amministrativa. L'opzione in favore di un organo collegiale, in luogo di un organo monocratico, corrispondeva alla preoccupazione di configurare un organismo che, chiamato a operare in un contesto sociale caratterizzato da particolari difficoltà, fosse in grado di offrire maggiori garanzie per il ripristino dello stato di legalità. Il decreto legge prevedeva inoltre una norma "anti-elusione", che consentiva cioè di far luogo all'adozione della misura di rigore anche in presenza di circostanze che avrebbero potuto determinare lo scioglimento per altre cause: si pensi ad esempio all'ipotesi di dimissioni di almeno la metà dei consiglieri, che avrebbe consentito lo svolgimento di elezioni dopo pochi mesi, bloccando così la possibilità di scioglimento per un periodo più lungo. In attesa del decreto presidenziale di scioglimento, veniva conferito al prefetto, in presenza di motivi di urgente necessità, il potere di sospendere gli organi dalla carica ricoperta, nonché da ogni altro incarico ad essa connesso, assicurando la provvisoria amministrazione dell'ente. Avvalendosi delle facoltà stabilite dal decreto legge, il prefetto di Reggio Calabria dispose la sospensione del consiglio comunale di Taurianova. Altrettanto fece il prefetto di Napoli nei confronti del consiglio comunale di Casandrino, rispetto al quale erano stati accertati fenomeni di condizionamento tali da compromettere la vita democratica dell'ente. I due consigli comunali, dopo la deliberazione del Consiglio dei Ministri, vennero infine sciolti con due decreti del Presidente della Repubblica, entrambi in data 2 agosto 1991. Il decreto legge venne convertito nella legge 22 luglio 1991, n. 221. 2. La sentenza della Corte Costituzionale 103 del 1993 I dubbi di costituzionalità della legge 221/91, che di fatto consentiva la sospensione del diritto di voto per l'elezione degli organi comunali anche per un lungo periodo, furono sciolti dalla Corte Costituzionale, investita dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con la sentenza 103 del 1993. Il TAR aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale della legge sulla base di tre considerazioni: essa consentiva di attribuire rilevanza a collegamenti "indiretti" di taluni amministratori con la criminalità organizzata, riducendo in tal modo lo spessore probatorio; prevedeva lo scioglimento dell'intero organo elettivo pur in presenza di collegamenti della criminalità organizzata con soltanto alcuni degli amministratori, vulnerando il principio di personalità della responsabilità; stabiliva il permanere degli effetti dello scioglimento per un periodo da dodici a diciotto mesi, comportando in tal modo la sospensione del diritto di elettorato attivo garantito dalla Costituzione nonché la sospensione dell'autonomia degli enti locali garantita dalla Costituzione. La Corte dichiarò le questioni non fondate e respinse il ricorso argomentando che le disposizioni impugnate erano formulate in modo tale da assicurare il rispetto dei principi che si ritenevano violati e contenevano in sé tutti gli elementi idonei "a garantire obiettività e coerenza nell'esercizio del potere straordinario di scioglimento degli organi elettivi". La Corte respinse anche l'eccezione di inammissibilità del ricorso che era stata sollevata dall'Avvocatura dello Stato. Quest'ultima riteneva che ai decreti di scioglimento dovesse riconoscersi la natura di atti politici, contro i quali, com' è noto, non è consentito sindacato giurisdizionale. L'Avvocatura aveva rappresentato, a sostegno della propria tesi, che i provvedimenti di scioglimento rispondevano a esigenze unitarie e generali di difesa dello Stato dall'aggressione dei contropoteri criminali. La Corte argomentò il rigetto dell'eccezione osservando che gli atti politici, da individuarsi con criteri restrittivi stante il principio della indefettibilità della tutela giurisdizionale, attengono alla direzione suprema e generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali. Requisiti, questi, che la Corte non rinvenne nei provvedimenti di scioglimento che "rispondono a un interesse specifico dello Stato, per quanto pressante e necessaria sia l'esigenza dell'intervento". 3. Dalla legge 221 del 1991 al Testo Unico del 2000 Sulla base dell'esperienza maturata nei primi due anni di applicazione della legge 221/91, emerse l'esigenza di apportare alcune modifiche e integrazioni allo scarno impianto normativo, al fine di renderlo maggiormente idoneo a fronteggiare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose negli enti locali. In particolare, risultò chiaro che in taluni casi il ritorno alla gestione ordinaria dei comuni sciolti avrebbe comportato la ricandidatura alle elezioni delle stesse persone che erano state causa del provvedimento di scioglimento, vanificando così l'opera di risanamento svolta dalla commissione straordinaria. Altra esigenza che emerse fu quella di consentire alla commissione straordinaria di avvalersi di personale esterno all'amministrazione comunale. Non era infrequente difatti che si riscontrasse la presenza nell'apparato comunale di personale legato alla precedente gestione o, comunque, assunto con criteri non propriamente rispondenti all'esigenza del perseguimento dell'interesse pubblico. Inoltre, apparve chiara la necessità di costituire presso il Viminale un nucleo dedito al sostegno dell'attività delle commissioni straordinarie. Tali esigenze trovarono risposta nell'emanazione da parte del Governo del decreto legge 19 ottobre 1993, n. 420, reiterato nel decreto legge 20 dicembre n. 529, che fu infine convertito nella legge 11 febbraio 1994, n. 108. La legge 108 introdusse la possibilità di prorogare la durata dello scioglimento, stabilita in un periodo compreso fra i dodici e i diciotto mesi, fino a un massimo di ventiquattro mesi in casi eccezionali. In merito all'esigenza di assicurare il regolare funzionamento dei servizi pubblici, fu introdotta la possibilità per il prefetto di disporre, su richiesta della commissione straordinaria, l'assegnazione in via temporanea o il distacco di personale amministrativo e tecnico di amministrazioni ed enti pubblici, anche in posizione di sovraordinazione. Presso il Ministero dell'Interno fu, inoltre, istituito il comitato di sostegno e monitoraggio dell'azione delle commissioni straordinarie e dei comuni riportati a gestione ordinaria. Infine, la legge 108 istituì un circuito preferenziale per l'accesso ai finanziamenti statali e regionali per la realizzazione di opere pubbliche e per far fronte alle disfunzioni dei servizi di competenza degli enti commissariati. Allo scopo di garantire nel tempo il ripristino delle condizioni di funzionalità di tali enti, la legge 108 precisò che il circuito preferenziale per l'accesso ai finanziamenti permanesse anche per la durata del primo mandato elettivo conseguente alla cessazione del commissariamento straordinario. Dal 1994, l'art. 15 bis non è stato oggetto di ulteriori integrazioni, in quanto ha dimostrato sul piano normativo di essere un valido strumento di contrasto delle infiltrazioni e dei condizionamenti malavitosi. A riprova della validità della norma vi è la circostanza che essa ha retto egregiamente non solo alle eccezioni di incostituzionalità presentate all'indomani della sua emanazione, ma anche di fronte ai numerosissimi ricorsi di natura amministrativa di cui è stata fatta oggetto. L'unico intervento sull'art. 15 bis, di tipo comunque meramente formale, è stato attuato in occasione dell'emanazione del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, recante il testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali. Il contenuto dell'art. 15 bis è stato trasfuso nel titolo VI, capo II, del testo unico, e in particolare negli articoli 143, 144, 145 e 146. 4. Caratteristiche comuni alle amministrazioni sotto controllo mafioso Nei casi in cui la mafia entra in comune, arrivando a controllare il tassello dello Stato più vicino ai cittadini, vengono meno i principi fondamentali delle convivenza civile. Dove il governo del territorio viene esercitato da amministratori collusi con la criminalità organizzata i segni sono evidenti: assenza di piani regolatori, inefficienza dei servizi di polizia municipale, scuole in rovina, strade dissestate, rifiuti abbandonati per la mancanza di raccolta, abusivismo edilizio dilagante che non risparmia neppure il suolo demaniale, assistenza sanitaria inesistente, cimiteri abbandonati, personale assunto in maniera clientelare e senza selezione di merito, assolutamente impreparato ad affrontare le incombenze lavorative. Le relazioni delle commissioni straordinarie evidenziano come una delle principali esigenze che si manifestano all'atto del loro insediamento sia quella di mettere mano agli interventi più elementari di ripristino dei servizi essenziali. Quest'opera, già difficile in sé per il particolare contesto ambientale, è resa ancora più ardua da un'altra costante di questi comuni: le condizioni paurose in cui si trovano i bilanci. Il dissesto finanziario è infatti un'altra caratteristica che accomuna i "governi" mafiosi. Le ragioni consistono nel fatto che la spesa pubblica, anziché essere finalizzata a soddisfare le esigenze della collettività, è diretta a favorire le imprese "contigue" o quelle direttamente controllate dai sodalizi criminali (sono frequenti i casi in cui si acquistano o si affittano macchinari a prezzi da capogiro, oppure si affidano servizi, come la tesoreria e la nettezza urbana, a condizioni di assoluto favore a società appaltatrici fittizie). Questo complesso di circostanze comporta una sorta di esenzione permanente dal pagamento di qualsiasi tassa o imposta. La totale inazione fiscale, che si manifesta nella mancata riscossione di tributi di ogni tipo, fa sì che le condizioni di indebitamento di tali comuni siano drammatiche e che essi dipendano, in tutto e per tutto, dai trasferimenti erariali dello Stato. 5. La rimozione degli amministratori locali Lo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazione mafiosa costituisce l'atto più rilevante attraverso il quale lo Stato interviene in situazioni di illegalità e degrado amministrativo. Prima di ricorrere a questo strumento, sicuramente traumatico, l'ordinamento consente di intervenire nei confronti di singoli amministratori. L'articolo 40 della legge 142/90 (oggi art. 143 del Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali) consente di rimuovere singoli amministratori, per gravi e persistenti violazioni di legge o per gravi motivi di ordine pubblico. Dall'entrata in vigore della legge 142 a oggi sono 289 gli amministratori locali rimossi. è da notare la loro distribuzione geografica: 246 al Sud (cioè l'85%), 32 al Centro (31 nella sola provincia di Roma) e solo 11 al Nord. Inoltre, l'art. 15 della legge n. 55 del 19 marzo 1990 stabilisce le cause ostative alle candidature e di sospensione e decadenza di diritto degli amministratori locali. L'art. 15 è stato nel tempo profondamente modificato, prima dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 14 del maggio 1996, poi dalla legge 13 dicembre 1999, n. 475, che ha recepito le indicazioni della Corte Costituzionale (oggi artt. 58 e 59 del Testo Unico). Originariamente l'art. 15 della legge 55 prevedeva che non potevano essere candidati alle elezioni regionali, provinciali, comunali o circoscrizionali e che non potevano, di conseguenza, ricoprire un qualunque incarico di amministratore locale coloro che avessero riportato condanna, anche non definitiva, per reati come l'associazione a delinquere di tipo mafioso, il traffico di droga, la detenzione o il commercio illegale di armi, il peculato, la concussione e la corruzione. Erano equiparate alla condanna sia la richiesta di rinvio a giudizio, sempre per reati di tipo mafioso o relativi a droga e armi, sia le misure di prevenzione applicate dal tribunale anche se con provvedimento non definitivo. In tutti questi casi l'amministratore locale già eletto decadeva dalla carica. Nel maggio '96 la Consulta ha dichiarato illegittima la norma nella parte in cui disponeva l'ineleggibilità o la rimozione per condanne non definitive, richieste di rinvio a giudizio e misure di prevenzione. La sentenza è arrivata mentre il Parlamento discuteva alcune proposte di modifica della legge n. 55, proposte che però sono state approvate definitivamente solo alla fine del '99. La novità più rilevante introdotta dalla legge 475 è che, diversamente da quanto accadeva, è venuta meno l'incandidabilità per i condannati in primo grado o anche in appello per associazione a delinquere di tipo mafioso o per traffico di droga o di armi. Subito dopo, però, qualora il candidato venga eletto, sarà sospeso dalla carica per un periodo di diciotto mesi. Trascorso questo tempo, se non interverrà una condanna definitiva, sarà reintegrato. In sintesi, senza condanna definitiva non vi può più essere ineleggibilità. E' questa una norma garantista, in parte provocata dalla sentenza della Corte Costituzionale, ma alla quale non sono estranee alcune note vicende, come quelle del Sindaco di Cosenza, Giacomo Mancini, o del Presidente della provincia di Palermo, Francesco Musotto, assolti dopo essere stati inquisito il primo e arrestato il secondo. La nuova legge prevede anche una novità di carattere restrittivo: per quanto riguarda l'ineleggibilità e, quindi, la decadenza dalle cariche, il patteggiamento viene equiparato alla condanna definitiva. In pratica, chi patteggia una condanna per reati gravi non può essere eletto o decade dall'incarico qualora il patteggiamento sia avvenuto successivamente all'elezione. 6. Un bilancio sull'applicazione della legge 221 Sono 125 i consigli comunali sinora sciolti per fenomeni di condizionamento e infiltrazione della criminalità organizzata. Undici comuni sono incorsi due volte nella misura sanzionatoria: a un primo scioglimento ne è dovuto seguire un secondo, essendosi riscontrato il perdurare del condizionamento mafioso. In nove casi si è reso necessario prorogare la durata dello scioglimento, in quanto il ritorno degli organi elettivi avrebbe potuto comportare la rielezione della compagine che era stata causa del provvedimento di scioglimento. I provvedimenti di scioglimento hanno riguardato quasi esclusivamente comuni del Sud: 59 in Campania, 33 in Sicilia, 24 in Calabria, 7 in Puglia, 1 in Basilicata. In un solo caso lo scioglimento ha colpito un comune del Nord: si tratta di Bardonecchia, ove si erano verificati condizionamenti da parte di appartenenti alla 'ndrangheta. Le province ove più elevato è il numero dei comuni sciolti sono quelle di Napoli (30), Caserta (20), Reggio Calabria (17), Palermo (17) e Catania (8). In queste cinque province si concentra infatti il 75 per cento degli scioglimenti complessivi. Fa ben sperare il fatto che il numero degli scioglimenti, dopo i picchi registrati nei primi anni, si sia sostanzialmente stabilizzato: 21 nel 1991, 21 nel 1992, 34 nel 1993, 4 nel 1994, 3 nel 1995, 8 nel 1996, 7 nel 1997, 6 nel 1998, 6 nel 1999, 4 nel 2000, 6 nel 2001 e 5 nel 2002. Il dato è interessante anche con riguardo alla popolazione dei comuni sciolti: nel 1991 sono stati sciolti comuni con un numero complessivo di abitanti pari a 352.289, 317.264 abitanti nel 1992, 824.732 nel 1993, 71.478 nel 1994, 5.589 nel 1995, 84.772 nel 1996, 47.569 nel 1997, 67.380 nel 1998, 153.728 nel 1999, 24.096 nel 2000, 53.159 nel 2001, 188.341 nel 2002. Sono dati significativi, che testimoniano una migliore selezione della classe politica locale, ma anche i successi conseguiti nella lotta al crimine organizzato. | |
Da: !!! | 08/01/2009 20:43:43 |
Grazie... e ora? | |
Da: !!! | 08/01/2009 20:44:04 |
Follie | |
Da: !!! | 08/01/2009 20:44:41 |
E ora? Che dovremmo fa'??? | |
Da: The Boss | 08/01/2009 20:45:28 |
Rilassatevi un pò... | |
Da: ... | 08/01/2009 20:46:33 |
Nun ce scassà a minchia | |
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