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CONCORSO INPS - 30 INFORMATICI
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Da: Inferno: Canto XI | 13/06/2010 15:27:49 |
In su l'estremità d'un'alta ripa che facevan gran pietre rotte in cerchio venimmo sopra più crudele stipa; e quivi, per l'orribile soperchio del puzzo che 'l profondo abisso gitta, ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio d'un grand'avello, ov'io vidi una scritta che dicea: "Anastasio papa guardo, lo qual trasse Fotin de la via dritta". "Lo nostro scender conviene esser tardo, sì che s'ausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo". Così 'l maestro; e io "Alcun compenso", dissi lui, "trova che 'l tempo non passi perduto". Ed elli: "Vedi ch'a ciò penso". "Figliuol mio, dentro da cotesti sassi", cominciò poi a dir, "son tre cerchietti di grado in grado, come que' che lassi. Tutti son pien di spirti maladetti; ma perché poi ti basti pur la vista, intendi come e perché son costretti. D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista, ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale o con forza o con frode altrui contrista. Ma perché frode è de l'uom proprio male, più spiace a Dio; e però stan di sotto li frodolenti, e più dolor li assale. Di violenti il primo cerchio è tutto; ma perché si fa forza a tre persone, in tre gironi è distinto e costrutto. A Dio, a sé, al prossimo si pòne far forza, dico in loro e in lor cose, come udirai con aperta ragione. Morte per forza e ferute dogliose nel prossimo si danno, e nel suo avere ruine, incendi e tollette dannose; onde omicide e ciascun che mal fiere, guastatori e predon, tutti tormenta lo giron primo per diverse schiere. Puote omo avere in sé man violenta e ne' suoi beni; e però nel secondo giron convien che sanza pro si penta qualunque priva sé del vostro mondo, biscazza e fonde la sua facultade, e piange là dov'esser de' giocondo. Puossi far forza nella deitade, col cor negando e bestemmiando quella, e spregiando natura e sua bontade; e però lo minor giron suggella del segno suo e Soddoma e Caorsa e chi, spregiando Dio col cor, favella. La frode, ond'ogne coscienza è morsa, può l'omo usare in colui che 'n lui fida e in quel che fidanza non imborsa. Questo modo di retro par ch'incida pur lo vinco d'amor che fa natura; onde nel cerchio secondo s'annida ipocresia, lusinghe e chi affattura, falsità, ladroneccio e simonia, ruffian, baratti e simile lordura. Per l'altro modo quell'amor s'oblia che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto, di che la fede spezial si cria; onde nel cerchio minore, ov'è 'l punto de l'universo in su che Dite siede, qualunque trade in etterno è consunto". E io: "Maestro, assai chiara procede la tua ragione, e assai ben distingue questo baràtro e 'l popol ch'e' possiede. Ma dimmi: quei de la palude pingue, che mena il vento, e che batte la pioggia, e che s'incontran con sì aspre lingue, perché non dentro da la città roggia sono ei puniti, se Dio li ha in ira? e se non li ha, perché sono a tal foggia?". Ed elli a me "Perché tanto delira", disse "lo 'ngegno tuo da quel che sòle? o ver la mente dove altrove mira? Non ti rimembra di quelle parole con le quai la tua Etica pertratta le tre disposizion che 'l ciel non vole, incontenenza, malizia e la matta bestialitade? e come incontenenza men Dio offende e men biasimo accatta? Se tu riguardi ben questa sentenza, e rechiti a la mente chi son quelli che sù di fuor sostegnon penitenza, tu vedrai ben perché da questi felli sien dipartiti, e perché men crucciata la divina vendetta li martelli". "O sol che sani ogni vista turbata, tu mi contenti sì quando tu solvi, che, non men che saver, dubbiar m'aggrata. Ancora in dietro un poco ti rivolvi", diss'io, "là dove di' ch'usura offende la divina bontade, e 'l groppo solvi". "Filosofia", mi disse, "a chi la 'ntende, nota, non pure in una sola parte, come natura lo suo corso prende dal divino 'ntelletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note, tu troverai, non dopo molte carte, che l'arte vostra quella, quanto pote, segue, come 'l maestro fa 'l discente; sì che vostr'arte a Dio quasi è nepote. Da queste due, se tu ti rechi a mente lo Genesì dal principio, convene prender sua vita e avanzar la gente; e perché l'usuriere altra via tene, per sé natura e per la sua seguace dispregia, poi ch'in altro pon la spene. Ma seguimi oramai, che 'l gir mi piace; ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta, e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace, e 'l balzo via là oltra si dismonta". | |
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Da: giovanna | 13/06/2010 15:35:45 |
vedo che non sono sola, in casa, questa domenica. E vedo anche che c'è molto caldo ovunque. Per me si sta esagerando. A Garfield dico solo che ho trovato molto sgradevole, qualche giorno fa, quel suo "sono disonesti e non solo intellettualmente" quasi che qualcuno gli fosse andato in tasca. Io penso che l'esame orale sia "onesto", spero lo sia stato anche lo scritto dove abbiamo preso per buono il voto ricevuto senza un riscontro su eventuali errori e mancanze. Io mi aspettavo di più dallo scritto, ma ho accettato quello che c'era. Ecco, al buon Garfield chiedo come mai per lo scritto non ha avuto niente da ridire. Per il resto mi auguro che possiamo essere tutti assunti, prima o poi. Anzi, mi auguro - un giorno - di litigare di persona con qualcuno di voi, Garfield compreso, sul posto di lavoro. Sarebbe buon segno. ;-) | |
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Da: Inferno: Canto XII | 13/06/2010 15:41:43 |
Era lo loco ov'a scender la riva venimmo, alpestro e, per quel che v'er'anco, tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva. Qual è quella ruina che nel fianco di qua da Trento l'Adice percosse, o per tremoto o per sostegno manco, che da cima del monte, onde si mosse, al piano è sì la roccia discoscesa, ch'alcuna via darebbe a chi sù fosse: cotal di quel burrato era la scesa; e 'n su la punta de la rotta lacca l'infamia di Creti era distesa che fu concetta ne la falsa vacca; e quando vide noi, sé stesso morse, sì come quei cui l'ira dentro fiacca. Lo savio mio inver' lui gridò: "Forse tu credi che qui sia 'l duca d'Atene, che sù nel mondo la morte ti porse? Pàrtiti, bestia: ché questi non vene ammaestrato da la tua sorella, ma vassi per veder le vostre pene". Qual è quel toro che si slaccia in quella c'ha ricevuto già 'l colpo mortale, che gir non sa, ma qua e là saltella, vid'io lo Minotauro far cotale; e quello accorto gridò: "Corri al varco: mentre ch'e' 'nfuria, è buon che tu ti cale". Così prendemmo via giù per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi sotto i miei piedi per lo novo carco. Io gia pensando; e quei disse: "Tu pensi forse a questa ruina ch'è guardata da quell'ira bestial ch'i' ora spensi. Or vo' che sappi che l'altra fiata ch'i' discesi qua giù nel basso inferno, questa roccia non era ancor cascata. Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno, da tutte parti l'alta valle feda tremò sì, ch'i' pensai che l'universo sentisse amor, per lo qual è chi creda più volte il mondo in caòsso converso; e in quel punto questa vecchia roccia qui e altrove, tal fece riverso. Ma ficca li occhi a valle, ché s'approccia la riviera del sangue in la qual bolle qual che per violenza in altrui noccia". Oh cieca cupidigia e ira folle, che sì ci sproni ne la vita corta, e ne l'etterna poi sì mal c'immolle! Io vidi un'ampia fossa in arco torta, come quella che tutto 'l piano abbraccia, secondo ch'avea detto la mia scorta; e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia. Veggendoci calar, ciascun ristette, e de la schiera tre si dipartiro con archi e asticciuole prima elette; e l'un gridò da lungi: "A qual martiro venite voi che scendete la costa? Ditel costinci; se non, l'arco tiro". Lo mio maestro disse: "La risposta farem noi a Chirón costà di presso: mal fu la voglia tua sempre sì tosta". Poi mi tentò, e disse: "Quelli è Nesso, che morì per la bella Deianira e fé di sé la vendetta elli stesso. E quel di mezzo, ch'al petto si mira, è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; quell'altro è Folo, che fu sì pien d'ira. Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle del sangue più che sua colpa sortille". Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: Chirón prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle. Quando s'ebbe scoperta la gran bocca, disse a' compagni: "Siete voi accorti che quel di retro move ciò ch'el tocca? Così non soglion far li piè d'i morti". E 'l mio buon duca, che già li er'al petto, dove le due nature son consorti, rispuose: "Ben è vivo, e sì soletto mostrar li mi convien la valle buia; necessità 'l ci 'nduce, e non diletto. Tal si partì da cantare alleluia che mi commise quest'officio novo: non è ladron, né io anima fuia. Ma per quella virtù per cu' io movo li passi miei per sì selvaggia strada, danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo, e che ne mostri là dove si guada e che porti costui in su la groppa, ché non è spirto che per l'aere vada". Chirón si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: "Torna, e sì li guida, e fa cansar s'altra schiera v'intoppa". Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida. Io vidi gente sotto infino al ciglio; e 'l gran centauro disse: "E' son tiranni che dier nel sangue e ne l'aver di piglio. Quivi si piangon li spietati danni; quivi è Alessandro, e Dionisio fero, che fé Cicilia aver dolorosi anni. E quella fronte c'ha 'l pel così nero, è Azzolino; e quell'altro ch'è biondo, è Opizzo da Esti, il qual per vero fu spento dal figliastro sù nel mondo". Allor mi volsi al poeta, e quei disse: "Questi ti sia or primo, e io secondo". Poco più oltre il centauro s'affisse sovr'una gente che 'nfino a la gola parea che di quel bulicame uscisse. Mostrocci un'ombra da l'un canto sola, dicendo: "Colui fesse in grembo a Dio lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola". Poi vidi gente che di fuor del rio tenean la testa e ancor tutto 'l casso; e di costoro assai riconobb'io. Così a più a più si facea basso quel sangue, sì che cocea pur li piedi; e quindi fu del fosso il nostro passo. "Sì come tu da questa parte vedi lo bulicame che sempre si scema", disse 'l centauro, "voglio che tu credi che da quest'altra a più a più giù prema lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge ove la tirannia convien che gema. La divina giustizia di qua punge quell'Attila che fu flagello in terra e Pirro e Sesto; e in etterno munge le lagrime, che col bollor diserra, a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, che fecero a le strade tanta guerra". Poi si rivolse, e ripassossi 'l guazzo. | |
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Da: Inferno: Canto XIII | 13/06/2010 15:42:35 |
Non era ancor di là Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato. Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco: non han sì aspri sterpi né sì folti quelle fiere selvagge che 'n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno. Ali hanno late, e colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani. E 'l buon maestro "Prima che più entre, sappi che se' nel secondo girone", mi cominciò a dire, "e sarai mentre che tu verrai ne l'orribil sabbione. Però riguarda ben; sì vederai cose che torrien fede al mio sermone". Io sentia d'ogne parte trarre guai, e non vedea persona che 'l facesse; per ch'io tutto smarrito m'arrestai. Cred'io ch'ei credette ch'io credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi da gente che per noi si nascondesse. Però disse 'l maestro: "Se tu tronchi qualche fraschetta d'una d'este piante, li pensier c'hai si faran tutti monchi". Allor porsi la mano un poco avante, e colsi un ramicel da un gran pruno; e 'l tronco suo gridò: "Perché mi schiante?". Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: "Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb'esser la tua man più pia, se state fossimo anime di serpi". Come d'un stizzo verde ch'arso sia da l'un de'capi, che da l'altro geme e cigola per vento che va via, sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond'io lasciai la cima cadere, e stetti come l'uom che teme. "S'elli avesse potuto creder prima", rispuose 'l savio mio, "anima lesa, ciò c'ha veduto pur con la mia rima, non averebbe in te la man distesa; ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa. Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi nel mondo sù, dove tornar li lece". E 'l tronco: "Sì col dolce dir m'adeschi, ch'i' non posso tacere; e voi non gravi perch'io un poco a ragionar m'inveschi. Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, sì soavi, che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi: fede portai al glorioso offizio, tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi. La meretrice che mai da l'ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio, infiammò contra me li animi tutti; e li 'nfiammati infiammar sì Augusto, che ' lieti onor tornaro in tristi lutti. L'animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto. Per le nove radici d'esto legno vi giuro che già mai non ruppi fede al mio segnor, che fu d'onor sì degno. E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace ancor del colpo che 'nvidia le diede". Un poco attese, e poi "Da ch'el si tace", disse 'l poeta a me, "non perder l'ora; ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace". Ond'io a lui: "Domandal tu ancora di quel che credi ch'a me satisfaccia; ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora". Perciò ricominciò: "Se l'om ti faccia liberamente ciò che 'l tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia di dirne come l'anima si lega in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, s'alcuna mai di tai membra si spiega". Allor soffiò il tronco forte, e poi si convertì quel vento in cotal voce: "Brievemente sarà risposto a voi. Quando si parte l'anima feroce dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta, Minòs la manda a la settima foce. Cade in la selva, e non l'è parte scelta; ma là dove fortuna la balestra, quivi germoglia come gran di spelta. Surge in vermena e in pianta silvestra: l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra. Come l'altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch'alcuna sen rivesta, ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie. Qui le trascineremo, e per la mesta selva saranno i nostri corpi appesi, ciascuno al prun de l'ombra sua molesta". Noi eravamo ancora al tronco attesi, credendo ch'altro ne volesse dire, quando noi fummo d'un romor sorpresi, similemente a colui che venire sente 'l porco e la caccia a la sua posta, ch'ode le bestie, e le frasche stormire. Ed ecco due da la sinistra costa, nudi e graffiati, fuggendo sì forte, che de la selva rompieno ogni rosta. Quel dinanzi: "Or accorri, accorri, morte!". E l'altro, cui pareva tardar troppo, gridava: "Lano, sì non furo accorte le gambe tue a le giostre dal Toppo!". E poi che forse li fallia la lena, di sé e d'un cespuglio fece un groppo. Di rietro a loro era la selva piena di nere cagne, bramose e correnti come veltri ch'uscisser di catena. In quel che s'appiattò miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano; poi sen portar quelle membra dolenti. Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea, per le rotture sanguinenti in vano. "O Iacopo", dicea, "da Santo Andrea, che t'è giovato di me fare schermo? che colpa ho io de la tua vita rea?". Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo, disse "Chi fosti, che per tante punte soffi con sangue doloroso sermo?". Ed elli a noi: "O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto c'ha le mie fronde sì da me disgiunte, raccoglietele al piè del tristo cesto. I' fui de la città che nel Batista mutò il primo padrone; ond'ei per questo sempre con l'arte sua la farà trista; e se non fosse che 'n sul passo d'Arno rimane ancor di lui alcuna vista, que' cittadin che poi la rifondarno sovra 'l cener che d'Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno. Io fei gibbetto a me de le mie case". | |
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Da: Inferno: Canto XIV | 13/06/2010 15:43:26 |
Poi che la carità del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte, e rende'le a colui, ch'era già fioco. Indi venimmo al fine ove si parte lo secondo giron dal terzo, e dove si vede di giustizia orribil arte. A ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa che dal suo letto ogne pianta rimove. La dolorosa selva l'è ghirlanda intorno, come 'l fosso tristo ad essa: quivi fermammo i passi a randa a randa. Lo spazzo era una rena arida e spessa, non d'altra foggia fatta che colei che fu da' piè di Caton già soppressa. O vendetta di Dio, quanto tu dei esser temuta da ciascun che legge ciò che fu manifesto a li occhi miei! D'anime nude vidi molte gregge che piangean tutte assai miseramente, e parea posta lor diversa legge. Supin giacea in terra alcuna gente, alcuna si sedea tutta raccolta, e altra andava continuamente. Quella che giva intorno era più molta, e quella men che giacea al tormento, ma più al duolo avea la lingua sciolta. Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento, piovean di foco dilatate falde, come di neve in alpe sanza vento. Quali Alessandro in quelle parti calde d'India vide sopra 'l suo stuolo fiamme cadere infino a terra salde, per ch'ei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, acciò che lo vapore mei si stingueva mentre ch'era solo: tale scendeva l'etternale ardore; onde la rena s'accendea, com'esca sotto focile, a doppiar lo dolore. Sanza riposo mai era la tresca de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da sé l'arsura fresca. I' cominciai: "Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ' demon duri ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci, chi è quel grande che non par che curi lo 'ncendio e giace dispettoso e torto, sì che la pioggia non par che 'l marturi?". E quel medesmo, che si fu accorto ch'io domandava il mio duca di lui, gridò: "Qual io fui vivo, tal son morto. Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui crucciato prese la folgore aguta onde l'ultimo dì percosso fui; o s'elli stanchi li altri a muta a muta in Mongibello a la focina negra, chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!", sì com'el fece a la pugna di Flegra, e me saetti con tutta sua forza, non ne potrebbe aver vendetta allegra". Allora il duca mio parlò di forza tanto, ch'i' non l'avea sì forte udito: "O Capaneo, in ciò che non s'ammorza la tua superbia, se' tu più punito: nullo martiro, fuor che la tua rabbia, sarebbe al tuo furor dolor compito". Poi si rivolse a me con miglior labbia dicendo: "Quei fu l'un d'i sette regi ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi; ma, com'io dissi lui, li suoi dispetti sono al suo petto assai debiti fregi. Or mi vien dietro, e guarda che non metti, ancor, li piedi ne la rena arsiccia; ma sempre al bosco tien li piedi stretti". Tacendo divenimmo là 've spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia. Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giù sen giva quello. Lo fondo suo e ambo le pendici fatt'era 'n pietra, e ' margini dallato; per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici. "Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato, poscia che noi intrammo per la porta lo cui sogliare a nessuno è negato, cosa non fu da li tuoi occhi scorta notabile com'è 'l presente rio, che sovra sé tutte fiammelle ammorta". Queste parole fuor del duca mio; per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto di cui largito m'avea il disio. "In mezzo mar siede un paese guasto", diss'elli allora, "che s'appella Creta, sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto. Una montagna v'è che già fu lieta d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida: or è diserta come cosa vieta. Rea la scelse già per cuna fida del suo figliuolo, e per celarlo meglio, quando piangea, vi facea far le grida. Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, che tien volte le spalle inver' Dammiata e Roma guarda come suo speglio. La sua testa è di fin oro formata, e puro argento son le braccia e 'l petto, poi è di rame infino a la forcata; da indi in giuso è tutto ferro eletto, salvo che 'l destro piede è terra cotta; e sta 'n su quel più che 'n su l'altro, eretto. Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rotta d'una fessura che lagrime goccia, le quali, accolte, foran quella grotta. Lor corso in questa valle si diroccia: fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; poi sen van giù per questa stretta doccia infin, là ove più non si dismonta fanno Cocito; e qual sia quello stagno tu lo vedrai, però qui non si conta". E io a lui: "Se 'l presente rigagno si diriva così dal nostro mondo, perché ci appar pur a questo vivagno?". Ed elli a me: "Tu sai che 'l loco è tondo; e tutto che tu sie venuto molto, pur a sinistra, giù calando al fondo, non se' ancor per tutto il cerchio vòlto: per che, se cosa n'apparisce nova, non de' addur maraviglia al tuo volto". E io ancor: "Maestro, ove si trova Flegetonta e Letè? ché de l'un taci, e l'altro di' che si fa d'esta piova". "In tutte tue question certo mi piaci", rispuose; "ma 'l bollor de l'acqua rossa dovea ben solver l'una che tu faci. Letè vedrai, ma fuor di questa fossa, là dove vanno l'anime a lavarsi quando la colpa pentuta è rimossa". Poi disse: "Omai è tempo da scostarsi dal bosco; fa che di retro a me vegne: li margini fan via, che non son arsi, e sopra loro ogne vapor si spegne". | |
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Da: Inferno: Canto XV | 13/06/2010 15:44:28 |
Ora cen porta l'un de' duri margini; e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia, sì che dal foco salva l'acqua e li argini. Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo 'l fiotto che 'nver lor s'avventa, fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia; e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta: a tale imagine eran fatti quelli, tutto che né sì alti né sì grossi, qual che si fosse, lo maestro felli. Già eravam da la selva rimossi tanto, ch'i' non avrei visto dov'era, perch'io in dietro rivolto mi fossi, quando incontrammo d'anime una schiera che venìan lungo l'argine, e ciascuna ci riguardava come suol da sera guardare uno altro sotto nuova luna; e sì ver' noi aguzzavan le ciglia come 'l vecchio sartor fa ne la cruna. Così adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e gridò: "Qual maraviglia!". E io, quando 'l suo braccio a me distese, ficcai li occhi per lo cotto aspetto, sì che 'l viso abbrusciato non difese la conoscenza sua al mio 'ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: "Siete voi qui, ser Brunetto?". E quelli: "O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia". I' dissi lui: "Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m'asseggia, faròl, se piace a costui che vo seco". "O figliuol", disse, "qual di questa greggia s'arresta punto, giace poi cent'anni sanz'arrostarsi quando 'l foco il feggia. Però va oltre: i' ti verrò a' panni; e poi rigiugnerò la mia masnada, che va piangendo i suoi etterni danni". I' non osava scender de la strada per andar par di lui; ma 'l capo chino tenea com'uom che reverente vada. El cominciò: "Qual fortuna o destino anzi l'ultimo dì qua giù ti mena? e chi è questi che mostra 'l cammino?". "Là sù di sopra, in la vita serena", rispuos'io lui, "mi smarri' in una valle, avanti che l'età mia fosse piena. Pur ier mattina le volsi le spalle: questi m'apparve, tornand'io in quella, e reducemi a ca per questo calle". Ed elli a me: "Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto, se ben m'accorsi ne la vita bella; e s'io non fossi sì per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, dato t'avrei a l'opera conforto. Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno, ti si farà, per tuo ben far, nimico: ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico. Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent'è avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi. La tua fortuna tanto onor ti serba, che l'una parte e l'altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l'erba. Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesme, e non tocchin la pianta, s'alcuna surge ancora in lor letame, in cui riviva la sementa santa di que' Roman che vi rimaser quando fu fatto il nido di malizia tanta". "Se fosse tutto pieno il mio dimando", rispuos'io lui, "voi non sareste ancora de l'umana natura posto in bando; ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora m'insegnavate come l'uom s'etterna: e quant'io l'abbia in grado, mentr'io vivo convien che ne la mia lingua si scerna. Ciò che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo a donna che saprà, s'a lei arrivo. Tanto vogl'io che vi sia manifesto, pur che mia coscienza non mi garra, che a la Fortuna, come vuol, son presto. Non è nuova a li orecchi miei tal arra: però giri Fortuna la sua rota come le piace, e 'l villan la sua marra". Lo mio maestro allora in su la gota destra si volse in dietro, e riguardommi; poi disse: "Bene ascolta chi la nota". Né per tanto di men parlando vommi con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni più noti e più sommi. Ed elli a me: "Saper d'alcuno è buono; de li altri fia laudabile tacerci, ché 'l tempo sarìa corto a tanto suono. In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama, d'un peccato medesmo al mondo lerci. Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco d'Accorso anche; e vedervi, s'avessi avuto di tal tigna brama, colui potei che dal servo de' servi fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione, dove lasciò li mal protesi nervi. Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone più lungo esser non può, però ch'i' veggio là surger nuovo fummo del sabbione. Gente vien con la quale esser non deggio. Sieti raccomandato il mio Tesoro nel qual io vivo ancora, e più non cheggio". Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde. | |
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Da: Inferno: Canto XVI | 13/06/2010 15:45:26 |
Già era in loco onde s'udìa 'l rimbombo de l'acqua che cadea ne l'altro giro, simile a quel che l'arnie fanno rombo, quando tre ombre insieme si partiro, correndo, d'una torma che passava sotto la pioggia de l'aspro martiro. Venian ver noi, e ciascuna gridava: "Sòstati tu ch'a l'abito ne sembri esser alcun di nostra terra prava". Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri ricenti e vecchie, da le fiamme incese! Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri. A le lor grida il mio dottor s'attese; volse 'l viso ver me, e: "Or aspetta", disse "a costor si vuole esser cortese. E se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i' dicerei che meglio stesse a te che a lor la fretta". Ricominciar, come noi restammo, ei l'antico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di sé tutti e trei. Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti, così rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, sì che 'n contraro il collo faceva ai piè continuo viaggio. E "Se miseria d'esto loco sollo rende in dispetto noi e nostri prieghi", cominciò l'uno "e 'l tinto aspetto e brollo, la fama nostra il tuo animo pieghi a dirne chi tu se', che i vivi piedi così sicuro per lo 'nferno freghi. Questi, l'orme di cui pestar mi vedi, tutto che nudo e dipelato vada, fu di grado maggior che tu non credi: nepote fu de la buona Gualdrada; Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita fece col senno assai e con la spada. L'altro, ch'appresso me la rena trita, è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce nel mondo sù dovrìa esser gradita. E io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui; e certo la fiera moglie più ch'altro mi nuoce". S'i' fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che 'l dottor l'avrìa sofferto; ma perch'io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto. Poi cominciai: "Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, tanta che tardi tutta si dispoglia, tosto che questo mio segnor mi disse parole per le quali i' mi pensai che qual voi siete, tal gente venisse. Di vostra terra sono, e sempre mai l'ovra di voi e li onorati nomi con affezion ritrassi e ascoltai. Lascio lo fele e vo per dolci pomi promessi a me per lo verace duca; ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi". "Se lungamente l'anima conduca le membra tue", rispuose quelli ancora, "e se la fama tua dopo te luca, cortesia e valor dì se dimora ne la nostra città sì come suole, o se del tutto se n'è gita fora; ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va là coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole". "La gente nuova e i sùbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni". Così gridai con la faccia levata; e i tre, che ciò inteser per risposta, guardar l'un l'altro com'al ver si guata. "Se l'altre volte sì poco ti costa", rispuoser tutti "il satisfare altrui, felice te se sì parli a tua posta! Però, se campi d'esti luoghi bui e torni a riveder le belle stelle, quando ti gioverà dicere "I' fui", fa che di noi a la gente favelle". Indi rupper la rota, e a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle. Un amen non saria potuto dirsi tosto così com'e' fuoro spariti; per ch'al maestro parve di partirsi. Io lo seguiva, e poco eravam iti, che 'l suon de l'acqua n'era sì vicino, che per parlar saremmo a pena uditi. Come quel fiume c'ha proprio cammino prima dal Monte Viso 'nver' levante, da la sinistra costa d'Apennino, che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giù nel basso letto, e a Forlì di quel nome è vacante, rimbomba là sovra San Benedetto de l'Alpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto; così, giù d'una ripa discoscesa, trovammo risonar quell'acqua tinta, sì che 'n poc'ora avria l'orecchia offesa. Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta. Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta, sì come 'l duca m'avea comandato, porsila a lui aggroppata e ravvolta. Ond'ei si volse inver' lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda la gittò giuso in quell'alto burrato. 'E' pur convien che novità risponda' dicea fra me medesmo 'al novo cenno che 'l maestro con l'occhio sì seconda'. Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l'ovra, ma per entro i pensier miran col senno! El disse a me: "Tosto verrà di sovra ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna: tosto convien ch'al tuo viso si scovra". Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote, però che sanza colpa fa vergogna; ma qui tacer nol posso; e per le note di questa comedìa, lettor, ti giuro, s'elle non sien di lunga grazia vòte, ch'i' vidi per quell'aere grosso e scuro venir notando una figura in suso, maravigliosa ad ogne cor sicuro, sì come torna colui che va giuso talora a solver l'àncora ch'aggrappa o scoglio o altro che nel mare è chiuso, che 'n sù si stende, e da piè si rattrappa. | |
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Da: Inferno: Canto XVII | 13/06/2010 15:48:13 |
"Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti, e rompe i muri e l'armi! Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!". Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda vicino al fin d'i passeggiati marmi. E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivò la testa e 'l busto, ma 'n su la riva non trasse la coda. La faccia sua era faccia d'uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d'un serpente tutto l'altro fusto; due branche avea pilose insin l'ascelle; lo dosso e 'l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte. Come tal volta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come là tra li Tedeschi lurchi lo bivero s'assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra. Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in sù la venenosa forca ch'a guisa di scorpion la punta armava. Lo duca disse: "Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca". Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella. E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo. Quivi 'l maestro "Acciò che tutta piena esperienza d'esto giron porti", mi disse, "va, e vedi la lor mena. Li tuoi ragionamenti sian là corti: mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti". Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta. Per li occhi fora scoppiava lor duolo; è di qua, di là soccorrien con le mani quando a' vapori, e quando al caldo suolo: non altrimenti fan di state i cani or col ceffo, or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani. Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne' quali 'l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi che dal collo a ciascun pendea una tasca ch'avea certo colore e certo segno, e quindi par che 'l loro occhio si pasca. E com'io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d'un leone avea faccia e contegno. Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un'altra come sangue rossa, mostrando un'oca bianca più che burro. E un che d'una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: "Che fai tu in questa fossa? Or te ne va; e perché se' vivo anco, sappi che 'l mio vicin Vitaliano sederà qui dal mio sinistro fianco. Con questi Fiorentin son padoano: spesse fiate mi 'ntronan li orecchi gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano, che recherà la tasca con tre becchi!"". Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che 'l naso lecchi. E io, temendo no 'l più star crucciasse lui che di poco star m'avea 'mmonito, torna'mi in dietro da l'anime lasse. Trova' il duca mio ch'era salito già su la groppa del fiero animale, e disse a me: "Or sie forte e ardito. Omai si scende per sì fatte scale: monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo, sì che la coda non possa far male". Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo de la quartana, c'ha già l'unghie smorte, e triema tutto pur guardando 'l rezzo, tal divenn'io a le parole porte; ma vergogna mi fé le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte. I' m'assettai in su quelle spallacce; sì volli dir, ma la voce non venne com'io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'. Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch'i' montai con le braccia m'avvinse e mi sostenne; e disse: "Gerion, moviti omai: le rote larghe e lo scender sia poco: pensa la nova soma che tu hai". Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, sì quindi si tolse; e poi ch'al tutto si sentì a gioco, là 'v'era 'l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l'aere a sé raccolse. Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni, per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse; né quando Icaro misero le reni sentì spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui "Mala via tieni!", che fu la mia, quando vidi ch'i' era ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera. Ella sen va notando lenta lenta: rota e discende, ma non me n'accorgo se non che al viso e di sotto mi venta. Io sentia già da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi 'n giù la testa sporgo. Allor fu' io più timido a lo stoscio, però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti; ond'io tremando tutto mi raccoscio. E vidi poi, ché nol vedea davanti, lo scendere e 'l girar per li gran mali che s'appressavan da diversi canti. Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere "Omè, tu cali!", discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello; così ne puose al fondo Gerione al piè al piè de la stagliata rocca e, discarcate le nostre persone, si dileguò come da corda cocca. | |
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Da: Inferno: Canto XVIII | 13/06/2010 16:21:47 |
Luogo è in inferno detto Malebolge, tutto di pietra di color ferrigno, come la cerchia che dintorno il volge. Nel dritto mezzo del campo maligno vaneggia un pozzo assai largo e profondo, di cui suo loco dicerò l'ordigno. Quel cinghio che rimane adunque è tondo tra 'l pozzo e 'l piè de l'alta ripa dura, e ha distinto in dieci valli il fondo. Quale, dove per guardia de le mura più e più fossi cingon li castelli, la parte dove son rende figura, tale imagine quivi facean quelli; e come a tai fortezze da' lor sogli a la ripa di fuor son ponticelli, così da imo de la roccia scogli movien che ricidien li argini e ' fossi infino al pozzo che i tronca e raccogli. In questo luogo, de la schiena scossi di Gerion, trovammoci; e 'l poeta tenne a sinistra, e io dietro mi mossi. A la man destra vidi nova pieta, novo tormento e novi frustatori, di che la prima bolgia era repleta. Nel fondo erano ignudi i peccatori; dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto, di là con noi, ma con passi maggiori, come i Roman per l'essercito molto, l'anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto, che da l'un lato tutti hanno la fronte verso 'l castello e vanno a Santo Pietro; da l'altra sponda vanno verso 'l monte. Di qua, di là, su per lo sasso tetro vidi demon cornuti con gran ferze, che li battien crudelmente di retro. Ahi come facean lor levar le berze a le prime percosse! già nessuno le seconde aspettava né le terze. Mentr'io andava, li occhi miei in uno furo scontrati; e io sì tosto dissi: "Già di veder costui non son digiuno". Per ch'io a figurarlo i piedi affissi; e 'l dolce duca meco si ristette, e assentio ch'alquanto in dietro gissi. E quel frustato celar si credette bassando 'l viso; ma poco li valse, ch'io dissi: "O tu che l'occhio a terra gette, se le fazion che porti non son false, Venedico se' tu Caccianemico. Ma che ti mena a sì pungenti salse?". Ed elli a me: "Mal volentier lo dico; ma sforzami la tua chiara favella, che mi fa sovvenir del mondo antico. I' fui colui che la Ghisolabella condussi a far la voglia del marchese, come che suoni la sconcia novella. E non pur io qui piango bolognese; anzi n'è questo luogo tanto pieno, che tante lingue non son ora apprese a dicer 'sipa' tra Sàvena e Reno; e se di ciò vuoi fede o testimonio, rècati a mente il nostro avaro seno". Così parlando il percosse un demonio de la sua scuriada, e disse: "Via, ruffian! qui non son femmine da conio". I' mi raggiunsi con la scorta mia; poscia con pochi passi divenimmo là 'v'uno scoglio de la ripa uscia. Assai leggeramente quel salimmo; e vòlti a destra su per la sua scheggia, da quelle cerchie etterne ci partimmo. Quando noi fummo là dov'el vaneggia di sotto per dar passo a li sferzati, lo duca disse: "Attienti, e fa che feggia lo viso in te di quest'altri mal nati, ai quali ancor non vedesti la faccia però che son con noi insieme andati". Del vecchio ponte guardavam la traccia che venìa verso noi da l'altra banda, e che la ferza similmente scaccia. E 'l buon maestro, sanza mia dimanda, mi disse: "Guarda quel grande che vene, e per dolor non par lagrime spanda: quanto aspetto reale ancor ritene! Quelli è Iasón, che per cuore e per senno li Colchi del monton privati féne. Ello passò per l'isola di Lenno, poi che l'ardite femmine spietate tutti li maschi loro a morte dienno. Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta che prima avea tutte l'altre ingannate. Lasciolla quivi, gravida, soletta; tal colpa a tal martiro lui condanna; e anche di Medea si fa vendetta. Con lui sen va chi da tal parte inganna: e questo basti de la prima valle sapere e di color che 'n sé assanna". Già eravam là 've lo stretto calle con l'argine secondo s'incrocicchia, e fa di quello ad un altr'arco spalle. Quindi sentimmo gente che si nicchia ne l'altra bolgia e che col muso scuffa, e sé medesma con le palme picchia. Le ripe eran grommate d'una muffa, per l'alito di giù che vi s'appasta, che con li occhi e col naso facea zuffa. Lo fondo è cupo sì, che non ci basta loco a veder sanza montare al dosso de l'arco, ove lo scoglio più sovrasta. Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso vidi gente attuffata in uno sterco che da li uman privadi parea mosso. E mentre ch'io là giù con l'occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo, che non parea s'era laico o cherco. Quei mi sgridò: "Perché se' tu sì gordo di riguardar più me che li altri brutti?". E io a lui: "Perché, se ben ricordo, già t'ho veduto coi capelli asciutti, e se' Alessio Interminei da Lucca: però t'adocchio più che li altri tutti". Ed elli allor, battendosi la zucca: "Qua giù m'hanno sommerso le lusinghe ond'io non ebbi mai la lingua stucca". Appresso ciò lo duca "Fa che pinghe", mi disse "il viso un poco più avante, sì che la faccia ben con l'occhio attinghe di quella sozza e scapigliata fante che là si graffia con l'unghie merdose, e or s'accoscia e ora è in piedi stante. Taide è, la puttana che rispuose al drudo suo quando disse "Ho io grazie grandi apo te?": "Anzi maravigliose!". E quinci sien le nostre viste sazie". | |
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Da: Garfield | 13/06/2010 16:29:31 |
Ciao Giovanna, io non mi diverto a litigare con nessuno! Io dico le cose che penso ed esprimo opinioni per le cose che vedo e che leggo...e se a qualcuno ciò da fastidio mi dispiace per lui!!! Intanto, se ti va, dimmi qualcosa: come mai dici che l'orale è stato onesto? Hai visto altri orali??? E tu come sei stata trattata? E ancora...se, come dici, ti aspettavi di più ma hai accettato quello che ti hanno dato, perché accetti una situazione che ritieni ingiusta? Se davvero ti interessa la verità devi perseverare e guardare oltre... se invece ti interessa affermarla preparati ad avere molti nemici... Io NON sarò tra quelli! ;-) PS: non sto evitando le tue domande... le risposte arriveranno.. a tempo debito! | |
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Da: classifica | 13/06/2010 22:55:06 |
36 partecipanti 1) Syd 27+28+30= 85 2) Ines 27+28+29=84 3) Nozic 28+27+28=83 4) 19122011 26+27+29=82 4) oscar 27+26+29=82 6) Filoforo (bella scoperta) 27+26+28=81 6) REF 27+28+26=81 6) flscmott 27+27+27=81 9) stesso dì di nap81 54 + 26 = 80 9) stesso dì di Lucigilo 53 + 27 = 80 9) Mammotta 26+27+27=80 12) stva 26+25+28=79 12) Yfrag 27+27+25=79 12) Non vuole dirlo 54+25= 79 15) cargamagno 27+26+25=78 15) nap81 26+26+26=78 15) Lorenzo 26+26+26=78 18) Nino 24+27+26=77 18) Lucigilo 25+25+26=76 18) Golden 26+27+23=76 21) Lotlorien 23+25+27=75 22) ormai è fatta 22+24+28=74 22) coraggio 22+26+26=74 22) Furious 24+24+26=74 25) Jworld 25+25+23=73 25) giovanni 25+21+27=73 27) indeciso_mi_roma 22+25+25=72 27) infinito 23+23+26=72 29) tindy23 21+23+27=71 30) Marco 22+24+24=70 30) Ema 21+24+25=70 32) Trimamma 21+23+25=69 33) svx 22+22+24=68 34) jirochan 21+22+24=67 34) pippi 22+22+23=67 36) milox com 21+21+24=66 | |
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Da: x inferno | 14/06/2010 08:21:29 |
sei FUORI...di...TESTA!!! PS:Fatti ricoverare | |
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Da: x x inferno | 14/06/2010 08:26:56 |
prrrrrrrr | |
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Da: Dante | 14/06/2010 10:18:15 |
x x inferno tale imagine quivi facean quelli; dei quali non vedesti la lor faccia di insulti degni di bordelli che dal forum cancellammo traccia | |
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Da: ar | 14/06/2010 10:20:41 |
Allegri ragazzi avete un concorrente in meno non credo cha ndrò all'orale (tra l'altro con voti molto bassi agli scritti che avevo postato tempo fa). non sono riuscito a studiare e anche nelal più rosea delle ipotesi andrei molto sotto la seconda metà della graduatoria con la votazione degli scritti che pesa i 2/3. solo una osservazione.: inutile pensare alle ingiustizie c'erano ai tempi in cui 'andavamo' all'università ci sono nel privato e così anche nel pubblico. L'unica cosa che io credo si possa fare è affrontare le cose senza scadere. facendo del proprio meglio. Credo inoltre che tra chi verrà assunto ci si qualcuno che voglia veramente questo lavoro e non per imboscarsi come molti erroneamente pensano si debba fare al alvoro. Grazie a tutti ar | |
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Da: Garfield | 14/06/2010 11:14:03 |
ar, credo che tu faccia un grosso errore a non andare all'orale. Ovviamente, la mia è solo un'opinione, la scelta è tua. | |
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Da: vagabondino | 14/06/2010 11:32:20 |
Ciao a tutt. Ho terminato anche io con un 24 all'orale per cui 25+25+24. Grazie a tutti per la vostra presenza in questo forum. In bocca al lupo a voi per la vostra carriera soprattuto per la vostra vita che vi auguro felice e gioiosa. P.S. Le mie domande: Organizzazione dei processi gestionali E-learning Obbligazioni da atto illecito Controllo e vigilanza sull'INPS | |
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Da: Virgilio x Dante | 14/06/2010 11:38:38 |
Sommo poeta, figlio prediletto tasti guidati da musa ispiratrice, taluni non nascono da un letto, ma dall'errore di una meretrice; camaleontico, l'ignoto navigante, talvolta appare e parla disconnesso; lodato sia lo sforzo, sì, ma è ignorante, moltiplica i suoi nick rimanendo pur se stesso; leggendolo traspaiono odio e rabbia, sicché ti chiedi la ragione dell'assunto; non è un gatto né altra bestia in gabbia è solo un gran furbetto che si è sentito punto; dal posto di lavoro scrive in modo artificioso che quasi, a prima vista, penseresti sia geniale; ma no, non è cattivo, è solo un pò invidioso trattasi d'altronde del consueto genitale! | |
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Da: Dante | 14/06/2010 12:03:57 |
Tu sei lo mio maestro e lo mio autore ma qui si fece un pien di fango e non comprendo attuffar tanto livore e s'io son folle orgoglioso lo rimango | |
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Da: Lotlorien | 14/06/2010 12:42:57 |
Nonostante sia molto dubbiosa sull'ultimo aggiornamento di classifica, con quel 79 con nick "Non vuole dirlo", che immagino sia stato aggiunto da qualcuno con riferimento a Garfield, lo lascio in graduatoria.. N. partecipanti = 37 1) Syd 27+28+30= 85 2) Ines 27+28+29=84 3) Nozic 28+27+28=83 4) 19122011 26+27+29=82 4) oscar 27+26+29=82 6) Filoforo (bella scoperta) 27+26+28=81 6) REF 27+28+26=81 6) flscmott 27+27+27=81 9) stesso dì di nap81 54 + 26 = 80 9) stesso dì di Lucigilo 53 + 27 = 80 9) Mammotta 26+27+27=80 12) stva 26+25+28=79 12) Yfrag 27+27+25=79 12) Non vuole dirlo 54+25= 79 15) cargamagno 27+26+25=78 15) nap81 26+26+26=78 15) Lorenzo 26+26+26=78 18) Nino 24+27+26=77 18) Lucigilo 25+25+26=76 18) Golden 26+27+23=76 21) Lotlorien 23+25+27=75 22) ormai è fatta 22+24+28=74 22) coraggio 22+26+26=74 22) Furious 24+24+26=74 22) vagabondino 25+25+24=74 26) Jworld 25+25+23=73 26) giovanni 25+21+27=73 28) indeciso_mi_roma 22+25+25=72 28) infinito 23+23+26=72 30) tindy23 21+23+27=71 31) Marco 22+24+24=70 31) Ema 21+24+25=70 33) Trimamma 21+23+25=69 34) svx 22+22+24=68 35) jirochan 21+22+24=67 35) pippi 22+22+23=67 37) milox com 21+21+24=66 | |
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Da: Virgilio x Dante | 14/06/2010 13:01:18 |
figliolo, sono io che leggo te e apprendo ma ora puoi capire l'aria di tal tenzone; il vile, lo si sa, non me la prendo, si diverte come può, tira il sasso e poi si cambia il nome; perdona se la rima è stata un pò bislacca la mente mia è offuscata da rancori, il noto vile, come vedi, si diverte a sparger cacca, diffama menti oneste e superiori; ma li rancori son d'altra provenienza, disonestà, impurezza, favor di genti nulla a che far con la trasparenza, quella che premia le menti intelligenti; no figliolo, no, non è natura qui l'evoluzione avviene in altro modo sicché per chi ha studiato veramente è dura cibarsi p'altra bocca l'ovo sodo. quella che segue è sottile rima, cibo per li letterati come te; illumina la mente e chi mi stima sa che dico il vero e il suo perché non guardare verso oriente forse son le colpe nell'urbe che è maestra di tale attività; ma io, purtroppo, che non son nato volpe rifuggo li furbetti e i figli di papà di certo c'hai ragione sul contegno sul forum infangato e me ne scuso purtroppo l'ira, che nasce dallo sdegno, si beffa di ragione e del buon uso ma, figliolo caro, ti dico sconsolato certo che guardommi dalle stelle ora che il forum è stato sputtanato vedrai, ce ne saranno delle belle! | |
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Da: Dante | 14/06/2010 13:49:53 |
Io dico, seguitando, come prima che io pensavo fossimo al piè d'un alta torre, li occhi nostri n'andar suso a la cima per due fiammette che i vedemmo porre e un'altra da lungi render cenno tanto ch'a pena il potea l'occhio scorre. E io i volsi al foro dal perduto senno; dissi: "Questo che dice? e chi risponde di quell'altro foco? e chi son quei che 'l fenno?. E lo maestro a me: "Su per le sudice onde già scorgere puoi quello che s'aspetta, se 'l fummo del pantan nol ti nasconde. Sentito quello al cor ebbi una stretta non sei lo mio maestro, cangiata è la tua faccia! Non ti curar di loro ma guarda e passa non mi dicevi un tempo di fronte a una minaccia? Or cerchi morder un gatto a testa bassa come cane rognoso affronti il rosso pelo Sin ora maestro eri benigno e mite nel buio d'inferno sotto povero cielo ora scorgo che tu godi solo a cercar lite. | |
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Da: x Virgilio e x Dante | 14/06/2010 13:54:24 |
Spero siate andati bene agli esami ma sinceramente siete sprecati a fare gli informaici. | |
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Da: Inferno: Canto XVII | 14/06/2010 14:22:44 |
"Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti, e rompe i muri e l'armi! Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!". Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda vicino al fin d'i passeggiati marmi. E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivò la testa e 'l busto, ma 'n su la riva non trasse la coda. La faccia sua era faccia d'uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d'un serpente tutto l'altro fusto; due branche avea pilose insin l'ascelle; lo dosso e 'l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte. Come tal volta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come là tra li Tedeschi lurchi lo bivero s'assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra. Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in sù la venenosa forca ch'a guisa di scorpion la punta armava. Lo duca disse: "Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca". Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella. E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo. Quivi 'l maestro "Acciò che tutta piena esperienza d'esto giron porti", mi disse, "va, e vedi la lor mena. Li tuoi ragionamenti sian là corti: mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti". Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta. Per li occhi fora scoppiava lor duolo; è di qua, di là soccorrien con le mani quando a' vapori, e quando al caldo suolo: non altrimenti fan di state i cani or col ceffo, or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani. Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne' quali 'l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi che dal collo a ciascun pendea una tasca ch'avea certo colore e certo segno, e quindi par che 'l loro occhio si pasca. E com'io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d'un leone avea faccia e contegno. Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un'altra come sangue rossa, mostrando un'oca bianca più che burro. E un che d'una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: "Che fai tu in questa fossa? Or te ne va; e perché se' vivo anco, sappi che 'l mio vicin Vitaliano sederà qui dal mio sinistro fianco. Con questi Fiorentin son padoano: spesse fiate mi 'ntronan li orecchi gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano, che recherà la tasca con tre becchi!"". Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che 'l naso lecchi. E io, temendo no 'l più star crucciasse lui che di poco star m'avea 'mmonito, torna'mi in dietro da l'anime lasse. Trova' il duca mio ch'era salito già su la groppa del fiero animale, e disse a me: "Or sie forte e ardito. Omai si scende per sì fatte scale: monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo, sì che la coda non possa far male". Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo de la quartana, c'ha già l'unghie smorte, e triema tutto pur guardando 'l rezzo, tal divenn'io a le parole porte; ma vergogna mi fé le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte. I' m'assettai in su quelle spallacce; sì volli dir, ma la voce non venne com'io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'. Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch'i' montai con le braccia m'avvinse e mi sostenne; e disse: "Gerion, moviti omai: le rote larghe e lo scender sia poco: pensa la nova soma che tu hai". Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, sì quindi si tolse; e poi ch'al tutto si sentì a gioco, là 'v'era 'l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l'aere a sé raccolse. Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni, per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse; né quando Icaro misero le reni sentì spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui "Mala via tieni!", che fu la mia, quando vidi ch'i' era ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera. Ella sen va notando lenta lenta: rota e discende, ma non me n'accorgo se non che al viso e di sotto mi venta. Io sentia già da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi 'n giù la testa sporgo. Allor fu' io più timido a lo stoscio, però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti; ond'io tremando tutto mi raccoscio. E vidi poi, ché nol vedea davanti, lo scendere e 'l girar per li gran mali che s'appressavan da diversi canti. Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere "Omè, tu cali!", discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello; così ne puose al fondo Gerione al piè al piè de la stagliata rocca e, discarcate le nostre persone, si dileguò come da corda cocca. | |
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Da: Inferno Canto XVII | 14/06/2010 14:23:31 |
"Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti, e rompe i muri e l'armi! Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!". Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda vicino al fin d'i passeggiati marmi. E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivò la testa e 'l busto, ma 'n su la riva non trasse la coda. La faccia sua era faccia d'uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d'un serpente tutto l'altro fusto; due branche avea pilose insin l'ascelle; lo dosso e 'l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte. Come tal volta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come là tra li Tedeschi lurchi lo bivero s'assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra. Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in sù la venenosa forca ch'a guisa di scorpion la punta armava. Lo duca disse: "Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca". Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella. E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo. Quivi 'l maestro "Acciò che tutta piena esperienza d'esto giron porti", mi disse, "va, e vedi la lor mena. Li tuoi ragionamenti sian là corti: mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti". Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta. Per li occhi fora scoppiava lor duolo; è di qua, di là soccorrien con le mani quando a' vapori, e quando al caldo suolo: non altrimenti fan di state i cani or col ceffo, or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani. Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne' quali 'l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi che dal collo a ciascun pendea una tasca ch'avea certo colore e certo segno, e quindi par che 'l loro occhio si pasca. E com'io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d'un leone avea faccia e contegno. Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un'altra come sangue rossa, mostrando un'oca bianca più che burro. E un che d'una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: "Che fai tu in questa fossa? Or te ne va; e perché se' vivo anco, sappi che 'l mio vicin Vitaliano sederà qui dal mio sinistro fianco. Con questi Fiorentin son padoano: spesse fiate mi 'ntronan li orecchi gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano, che recherà la tasca con tre becchi!"". Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che 'l naso lecchi. E io, temendo no 'l più star crucciasse lui che di poco star m'avea 'mmonito, torna'mi in dietro da l'anime lasse. Trova' il duca mio ch'era salito già su la groppa del fiero animale, e disse a me: "Or sie forte e ardito. Omai si scende per sì fatte scale: monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo, sì che la coda non possa far male". Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo de la quartana, c'ha già l'unghie smorte, e triema tutto pur guardando 'l rezzo, tal divenn'io a le parole porte; ma vergogna mi fé le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte. I' m'assettai in su quelle spallacce; sì volli dir, ma la voce non venne com'io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'. Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch'i' montai con le braccia m'avvinse e mi sostenne; e disse: "Gerion, moviti omai: le rote larghe e lo scender sia poco: pensa la nova soma che tu hai". Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, sì quindi si tolse; e poi ch'al tutto si sentì a gioco, là 'v'era 'l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l'aere a sé raccolse. Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni, per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse; né quando Icaro misero le reni sentì spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui "Mala via tieni!", che fu la mia, quando vidi ch'i' era ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera. Ella sen va notando lenta lenta: rota e discende, ma non me n'accorgo se non che al viso e di sotto mi venta. Io sentia già da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi 'n giù la testa sporgo. Allor fu' io più timido a lo stoscio, però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti; ond'io tremando tutto mi raccoscio. E vidi poi, ché nol vedea davanti, lo scendere e 'l girar per li gran mali che s'appressavan da diversi canti. Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere "Omè, tu cali!", discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello; così ne puose al fondo Gerione al piè al piè de la stagliata rocca e, discarcate le nostre persone, si dileguò come da corda cocca. | |
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Da: Inferno Canto XVII | 14/06/2010 14:23:55 |
"Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti, e rompe i muri e l'armi! Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!". Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda vicino al fin d'i passeggiati marmi. E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivò la testa e 'l busto, ma 'n su la riva non trasse la coda. La faccia sua era faccia d'uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d'un serpente tutto l'altro fusto; due branche avea pilose insin l'ascelle; lo dosso e 'l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte. Come tal volta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come là tra li Tedeschi lurchi lo bivero s'assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra. Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in sù la venenosa forca ch'a guisa di scorpion la punta armava. Lo duca disse: "Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca". Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella. E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo. Quivi 'l maestro "Acciò che tutta piena esperienza d'esto giron porti", mi disse, "va, e vedi la lor mena. Li tuoi ragionamenti sian là corti: mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti". Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta. Per li occhi fora scoppiava lor duolo; è di qua, di là soccorrien con le mani quando a' vapori, e quando al caldo suolo: non altrimenti fan di state i cani or col ceffo, or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani. Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne' quali 'l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi che dal collo a ciascun pendea una tasca ch'avea certo colore e certo segno, e quindi par che 'l loro occhio si pasca. E com'io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d'un leone avea faccia e contegno. Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un'altra come sangue rossa, mostrando un'oca bianca più che burro. E un che d'una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: "Che fai tu in questa fossa? Or te ne va; e perché se' vivo anco, sappi che 'l mio vicin Vitaliano sederà qui dal mio sinistro fianco. Con questi Fiorentin son padoano: spesse fiate mi 'ntronan li orecchi gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano, che recherà la tasca con tre becchi!"". Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che 'l naso lecchi. E io, temendo no 'l più star crucciasse lui che di poco star m'avea 'mmonito, torna'mi in dietro da l'anime lasse. Trova' il duca mio ch'era salito già su la groppa del fiero animale, e disse a me: "Or sie forte e ardito. Omai si scende per sì fatte scale: monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo, sì che la coda non possa far male". Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo de la quartana, c'ha già l'unghie smorte, e triema tutto pur guardando 'l rezzo, tal divenn'io a le parole porte; ma vergogna mi fé le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte. I' m'assettai in su quelle spallacce; sì volli dir, ma la voce non venne com'io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'. Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch'i' montai con le braccia m'avvinse e mi sostenne; e disse: "Gerion, moviti omai: le rote larghe e lo scender sia poco: pensa la nova soma che tu hai". Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, sì quindi si tolse; e poi ch'al tutto si sentì a gioco, là 'v'era 'l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l'aere a sé raccolse. Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni, per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse; né quando Icaro misero le reni sentì spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui "Mala via tieni!", che fu la mia, quando vidi ch'i' era ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera. Ella sen va notando lenta lenta: rota e discende, ma non me n'accorgo se non che al viso e di sotto mi venta. Io sentia già da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi 'n giù la testa sporgo. Allor fu' io più timido a lo stoscio, però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti; ond'io tremando tutto mi raccoscio. E vidi poi, ché nol vedea davanti, lo scendere e 'l girar per li gran mali che s'appressavan da diversi canti. Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere "Omè, tu cali!", discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello; così ne puose al fondo Gerione al piè al piè de la stagliata rocca e, discarcate le nostre persone, si dileguò come da corda cocca. | |
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Da: Inferno Canto XVII | 14/06/2010 14:24:27 |
"Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti, e rompe i muri e l'armi! Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!". Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda vicino al fin d'i passeggiati marmi. E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivò la testa e 'l busto, ma 'n su la riva non trasse la coda. La faccia sua era faccia d'uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d'un serpente tutto l'altro fusto; due branche avea pilose insin l'ascelle; lo dosso e 'l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte. Come tal volta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come là tra li Tedeschi lurchi lo bivero s'assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra. Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in sù la venenosa forca ch'a guisa di scorpion la punta armava. Lo duca disse: "Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca". Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella. E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo. Quivi 'l maestro "Acciò che tutta piena esperienza d'esto giron porti", mi disse, "va, e vedi la lor mena. Li tuoi ragionamenti sian là corti: mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti". Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta. Per li occhi fora scoppiava lor duolo; è di qua, di là soccorrien con le mani quando a' vapori, e quando al caldo suolo: non altrimenti fan di state i cani or col ceffo, or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani. Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne' quali 'l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi che dal collo a ciascun pendea una tasca ch'avea certo colore e certo segno, e quindi par che 'l loro occhio si pasca. E com'io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d'un leone avea faccia e contegno. Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un'altra come sangue rossa, mostrando un'oca bianca più che burro. E un che d'una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: "Che fai tu in questa fossa? Or te ne va; e perché se' vivo anco, sappi che 'l mio vicin Vitaliano sederà qui dal mio sinistro fianco. Con questi Fiorentin son padoano: spesse fiate mi 'ntronan li orecchi gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano, che recherà la tasca con tre becchi!"". Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che 'l naso lecchi. E io, temendo no 'l più star crucciasse lui che di poco star m'avea 'mmonito, torna'mi in dietro da l'anime lasse. Trova' il duca mio ch'era salito già su la groppa del fiero animale, e disse a me: "Or sie forte e ardito. Omai si scende per sì fatte scale: monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo, sì che la coda non possa far male". Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo de la quartana, c'ha già l'unghie smorte, e triema tutto pur guardando 'l rezzo, tal divenn'io a le parole porte; ma vergogna mi fé le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte. I' m'assettai in su quelle spallacce; sì volli dir, ma la voce non venne com'io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'. Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch'i' montai con le braccia m'avvinse e mi sostenne; e disse: "Gerion, moviti omai: le rote larghe e lo scender sia poco: pensa la nova soma che tu hai". Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, sì quindi si tolse; e poi ch'al tutto si sentì a gioco, là 'v'era 'l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l'aere a sé raccolse. Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni, per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse; né quando Icaro misero le reni sentì spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui "Mala via tieni!", che fu la mia, quando vidi ch'i' era ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera. Ella sen va notando lenta lenta: rota e discende, ma non me n'accorgo se non che al viso e di sotto mi venta. Io sentia già da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi 'n giù la testa sporgo. Allor fu' io più timido a lo stoscio, però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti; ond'io tremando tutto mi raccoscio. E vidi poi, ché nol vedea davanti, lo scendere e 'l girar per li gran mali che s'appressavan da diversi canti. Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere "Omè, tu cali!", discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello; così ne puose al fondo Gerione al piè al piè de la stagliata rocca e, discarcate le nostre persone, si dileguò come da corda cocca. | |
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Da: Inferno Canto XVII | 14/06/2010 14:24:45 |
"Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti, e rompe i muri e l'armi! Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!". Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda vicino al fin d'i passeggiati marmi. E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivò la testa e 'l busto, ma 'n su la riva non trasse la coda. La faccia sua era faccia d'uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d'un serpente tutto l'altro fusto; due branche avea pilose insin l'ascelle; lo dosso e 'l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte. Come tal volta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come là tra li Tedeschi lurchi lo bivero s'assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra. Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in sù la venenosa forca ch'a guisa di scorpion la punta armava. Lo duca disse: "Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca". Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella. E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo. Quivi 'l maestro "Acciò che tutta piena esperienza d'esto giron porti", mi disse, "va, e vedi la lor mena. Li tuoi ragionamenti sian là corti: mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti". Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta. Per li occhi fora scoppiava lor duolo; è di qua, di là soccorrien con le mani quando a' vapori, e quando al caldo suolo: non altrimenti fan di state i cani or col ceffo, or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani. Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne' quali 'l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi che dal collo a ciascun pendea una tasca ch'avea certo colore e certo segno, e quindi par che 'l loro occhio si pasca. E com'io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d'un leone avea faccia e contegno. Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un'altra come sangue rossa, mostrando un'oca bianca più che burro. E un che d'una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: "Che fai tu in questa fossa? Or te ne va; e perché se' vivo anco, sappi che 'l mio vicin Vitaliano sederà qui dal mio sinistro fianco. Con questi Fiorentin son padoano: spesse fiate mi 'ntronan li orecchi gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano, che recherà la tasca con tre becchi!"". Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che 'l naso lecchi. E io, temendo no 'l più star crucciasse lui che di poco star m'avea 'mmonito, torna'mi in dietro da l'anime lasse. Trova' il duca mio ch'era salito già su la groppa del fiero animale, e disse a me: "Or sie forte e ardito. Omai si scende per sì fatte scale: monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo, sì che la coda non possa far male". Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo de la quartana, c'ha già l'unghie smorte, e triema tutto pur guardando 'l rezzo, tal divenn'io a le parole porte; ma vergogna mi fé le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte. I' m'assettai in su quelle spallacce; sì volli dir, ma la voce non venne com'io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'. Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch'i' montai con le braccia m'avvinse e mi sostenne; e disse: "Gerion, moviti omai: le rote larghe e lo scender sia poco: pensa la nova soma che tu hai". Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, sì quindi si tolse; e poi ch'al tutto si sentì a gioco, là 'v'era 'l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l'aere a sé raccolse. Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni, per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse; né quando Icaro misero le reni sentì spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui "Mala via tieni!", che fu la mia, quando vidi ch'i' era ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera. Ella sen va notando lenta lenta: rota e discende, ma non me n'accorgo se non che al viso e di sotto mi venta. Io sentia già da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi 'n giù la testa sporgo. Allor fu' io più timido a lo stoscio, però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti; ond'io tremando tutto mi raccoscio. E vidi poi, ché nol vedea davanti, lo scendere e 'l girar per li gran mali che s'appressavan da diversi canti. Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere "Omè, tu cali!", discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello; così ne puose al fondo Gerione al piè al piè de la stagliata rocca e, discarcate le nostre persone, si dileguò come da corda cocca. | |
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Da: Dante | 14/06/2010 14:33:00 |
io almeno mettevo un canto diverso ogni volta. Non lo stesso ripetuto 3 volte | |
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Da: Virgilio | 14/06/2010 14:41:24 |
con certi soggetti repetita iuvant! | |
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