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Ecco le tracce dell'esame avvocato 2009!
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Da: SECONDA TRACCIA16/12/2009 13:28:59
TRACCIA
Tizio, legale rappresentante della società gamma srl partecipava alla licitazione privata per l’appalto di lavori di costruzione per la nuova sede dell’istituto polivalente di beta e, come richiesta dal bando, aveva allegato la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà nella quale aveva attestato che la società era iscritta all’albo nazione costruttori sin da data anteriore al 24.11.1999, requisito indispensabile per la partecipazione alla gara, in quanto detta iscrizione doveva preesistere alla gara stessa. Stante la convenienza della proposta della società gamma, l’aggiudicazione dell’appalto era avvenuta in suo favore e i conseguenti atti deliberativi e dispositivi della procedura erano stati redatti sul presupposto, attestato dai pubblici ufficiali, redigenti sulla base dell’anzidetta dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà facente fede di quanto dichiarato, e limitandosi a prendere atto dell’attestazione del privato. Successivamente si accertava che la società gamma srl aveva affermato il falso perché in realtà l’iscrizione era stata conseguita solo il 14 12 1999. Tizio, preoccupato delle conseguenze penali del suo comportamento, decide di rivolgersi ad un legale.
Il candidato assunte le vesti di avvocato di tizio, rediga motivato parere illustrando le problematiche sottese alla fattispecie.


SENTENZA
Sentenza 24 settembre 2007, n. 35488
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di Bari, con sentenza del 27.1.2006, confermava la sentenza 3.12.2002 del Tribunale di Foggia, che aveva affermato la responsabilità penale di Scelsi Domenico e Liso Beatrice in ordine ai delitti di cui:

a) agli artt. 110 e 483 cod. pen., in relaz. all’art. 26 della legge n. 15/1968, perché, in concorso tra loro, nelle qualità di legali rappresentanti, rispettivamente, della s.p.a. ICOP e della s.r.l. ELCA, società facenti parte del consorzio SIERP â€" avendo inviato all’Amministrazione provinciale di Foggia, nella richiesta di partecipazione alla procedura di licitazione privata per l’appalto dei lavori di costruzione della nuova sede dell’Istituto polivalente di Manfredonia, due distinte dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà nelle quali falsamente affermavano che le società anzidette erano iscritte all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 24.11.1999 (mentre, in realtà, detta iscrizione era stata conseguita dalla s.p.a. ICOP il 30.11.1999 e dalla s.r.l. ELCA il 14.12.1999) â€" attestavano falsamente fatti dei quali le rispettive dichiarazioni sostitutive erano destinate a provare la verità â€" in Foggia, l’1.12.1999

b) agli artt. 110, 48 e 479 cod. pen., perché, in concorso tra loro, con le condotte dianzi descritte, inducevano in errore, sull’effettiva esistenza di un requisito indispensabile di partecipazione alla licitazione privata, il dirigente dei servizi tecnici ed i componenti della Giunta provinciale, i quali, sulla base delle dette false dichiarazioni, attestavano falsamente negli atti pubblici rispettivamente adottati (verbali del 2.12.1999 e del 9.2.2000 e proposta di aggiudicazione dell’appalto del 26.1.2000) che le due imprese anzidette erano iscritte all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 24.11.1999

e, riconosciute circostanze attenuanti generiche, ritenuto il concorso formale dei reati, aveva condannato ciascuno alla pena complessiva di anni uno di reclusione, concedendo ad entrambi i doppi benefici di legge.

La Corte territoriale rigettava le impugnazioni degli imputati volte a contestare la sussistenza delle figure criminose e poneva in rilievo, innanzitutto, la situazione di fatto accertata, non contestata dagli stessi appellanti.

Essi avevano partecipato alla licitazione privata per l’appalto dei lavori di costruzione sopra specificati e, come richiesto dal bando, avevano allegato le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà nelle quali avevano attestato che la società da ciascuno rappresentata era iscritta all’Albo nazionale costruttori sin da data anteriore al 24 novembre 1999, requisito indispensabile per la partecipazione alla gara in quanto ad essa la detta iscrizione doveva preesistere.

Per le caratteristiche di convenienza della proposta di tali società, la aggiudicazione dell’appalto era avvenuta in loro favore ed i conseguenti atti deliberativi e dispositivi della procedura erano stati redatti sul presupposto â€" attestato dai pubblici ufficiali redigenti sulla base delle anzidette dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, facenti fede di quanto dichiarato â€" che le imprese aggiudicatarie presentavano il requisito della iscrizione all’ANC alla data della presentazione della offerta.

La Corte di merito osservava che:

-- la presentazione delle dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà con contenuto ideologicamente falso integra il reato previsto dall’art. 483 cod. pen., posto che del falso deve rispondere il dichiarante in relazione ad un preesistente obbligo di attestare il vero (art. 26 della legge n. 15 del 1968), senza che occorra la prova del dolo specifico, essendo sufficiente il dolo generico per la configurazione del reato;

-- la condotta in esame ha poi dato luogo, nella specie, ad un ulteriore reato continuato di falso ideologico, questa volta per induzione in errore dei pubblici ufficiali, posto che nei tre diversi atti specificati nel capo di imputazione, e precisamente nella parte dei provvedimenti destinata a far constare pubblicamente l’esistenza dei requisiti di legge, essi hanno dato atto del requisito della anteriorità della iscrizione delle imprese all’Albo.

I giudici di appello argomentavano sulla esistenza del concorso tra i due reati, citando la giurisprudenza di questa Corte che lo sostiene quando la falsa dichiarazione del privato, prevista di per sé come reato, si pone anche in rapporto strumentale con la falsità ideologica che il pubblico ufficiale ha posto in essere (Cass., Sez. V, 26 ottobre 2001, n. 38453, Perfetto).

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore degli imputati, il quale â€" con un unico motivo, formulato ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), c.p.p. â€" ha chiesto di ritenere assorbito il reato sub B) (falso ideologico per induzione in errore, ex artt. 48 e 479 cod. pen.) in quello sub A) (falso ideologico del privato, ex art. 483 cod. pen.).

Viene evidenziato nel ricorso un contrasto esistente sul punto nella giurisprudenza di legittimità, ove una tesi diversa da quella recepita dai giudici del merito è orientata nel senso che il falso per induzione in errore del pubblico ufficiale sarebbe configurabile soltanto nella ipotesi in cui la falsa attestazione provenga da questi sulla base di dichiarazioni del privato che però egli integri con una attestazione di rispondenza al vero. Se invece l’attestazione proviene dal privato e il pubblico ufficiale la riporta come tale nell’atto pubblico a sua firma, ossia si limita a riprodurla, allora dovrebbe riconoscersi che di falso vi è solo la dichiarazione del privato, il quale ne è l’autore immediato, mentre non vi è falso per induzione con autore mediato (così Cass.: Sez. I, 26 maggio 1987, n. 2222, Crespi; Sez. VI, 28 giugno 1994, n. 8996, P.M. in proc. Zungoli).

Prospetta al riguardo la difesa che, nella motivazione della sentenza impugnata, non vi sarebbe menzione alcuna della attestazione integrativa (quid pluris) dei pubblici ufficiali sulla veridicità delle dichiarazioni dei privati e quindi non potrebbe configurarsi induzione in errore dei primi, con la conseguenza che gli imputati non potrebbero essere chiamati a rispondere del reato di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen. Tanto si evincerebbe anche dal tenore letterale degli atti pubblici indicati nel capo di imputazione.

La Corte territoriale, in particolare, non si sarebbe soffermata su due requisiti ineludibili per la configurazione del reato e nella specie mancanti: 1) il rilievo, ai fini della parte narrativa dell’atto pubblico, della falsa attestazione che ne costituisce la premessa; 2) l’obbligo giuridico di verifica, da parte dell’organo decidente, sul fatto falsamente attestato. Proprio la assenza di tale obbligo sarebbe sintomatico del fatto che i pubblici ufficiali si sono limitati a trasfondere negli atti a loro firma i fatti (falsi) attestati dai privati.

Si rappresenta, infine, che nella stessa sentenza Perfetto, evocata nella decisione impugnata e sostenitrice della possibilità del concorso fra i due reati in contestazione, la sussistenza del delitto ex artt. 48 e 479 cod. pen. sarebbe comunque subordinata ad un elemento non presente nel caso di specie: e cioè che la falsa attestazione del privato raccolta dal pubblico ufficiale sia utilizzata da questi per descrivere una situazione di fatto più ampia di quella certificata dal mentitore.

Il ricorso è stato assegnato alla quinta Sezione penale di questa Corte Suprema, la quale, all’udienza dell’11 aprile 2007, ha rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla materia e (con ordinanza depositata il successivo 20 aprile) ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 c.p.p.

Nell’ordinanza di rimessione è stato posto in rilievo come il tema effettivo del contrasto non sia tanto quello del concorso fra il reato di cui all’art. 483 cod. pen. e quello di falso ideologico per induzione (ex artt. 48 e 479 cod. pen.), quanto quello degli esatti termini per la configurazione di questo secondo reato, pure in presenza (o meno) del primo.

Il reato in questione si struttura per l’esistenza di una falsità del privato (quella del decipiens) che determina un’altra falsità â€" ideologica in atto pubblico â€" posta in essere dal deceptus (il pubblico ufficiale), che però non risponde di essa per mancanza di dolo.

La questione da risolvere, dunque, è se, nella specie, oltre al falso ideologico del privato ex art. 483 cod. pen., la condotta dei pubblici ufficiali abbia dato luogo o meno ad un atto pubblico ideologicamente falso nei termini di cui all’art. 479 cod. pen., tenendo conto, in punto di fatto, che, secondo l’accusa, nella specie i pubblici ufficiali si limitarono a prendere atto della attestazione dei privati sulla data della iscrizione all’Albo.

Il panorama giurisprudenziale che è sullo sfondo della vicenda processuale vede, da un lato, la presa di posizione delle Sezioni Unite con la sentenza 24 febbraio 1995, n. 1827, P.G. in proc. Proietti, nella cui motivazione si legge che l’atto pubblico, nel quale sia richiamato altro atto ideologicamente falso, è anch’esso falso, quantomeno perché certifica l’esistenza di attestazioni presumendole “vereâ€, con la conseguenza che se, invece, le attestazioni richiamate sono false, è falso pure l’atto pubblico che le pone a premessa.

L’opposto orientamento è quello secondo cui la falsità ideologica del privato non concorre con il delitto di falso per induzione in errore del pubblico ufficiale quando l’atto pubblico da questi adottato, a seguito della presentazione dell’atto falso del privato, non è inteso ad accertare proprio “il fatto†oggetto della attestazione falsa del privato ma, più semplicemente, l’esistenza dell’“atto†del privato in cui, questi, ha trasfuso l’attestazione di un certo fatto (così Sez. V: 19 maggio 2003, n. 22021, Carbini; 20 giugno 2006, n. 21209, Bartolazzi).

Ancora, la sentenza della Sez. V, 26 ottobre 2001, n. 38453, Perfetto, afferma che solo quando il pubblico ufficiale, inconsapevolmente, raccolga dal privato una falsa attestazione relativa a fatti dei quali essa è destinata a provare la verità e quando detta attestazione venga poi utilizzata dal soggetto ingannato per descrivere od attestare una situazione di fatto più ampia di quella certificata dal mentitore, resta integrata la fattispecie del falso ideologico per induzione (artt. 48-479, 48-480, 48-481 cod. pen.), la quale può concorrere con il delitto di cui all’art. 483 cod. pen., quando la falsa dichiarazione del privato, prevista di per sé come reato, è in rapporto strumentale con la falsità ideologica che il pubblico ufficiale, in quanto autore mediato, ha posto in essere.

Dunque, secondo quest’ultimo orientamento, il pubblico ufficiale, quando si limita a riportare la esistenza della attestazione del privato (poi risultata falsa), non realizza una attestazione falsa ma svolge una argomentazione errata (consistente nel presupporre come vero il fatto attestato dal privato) che dà luogo ad una conclusione falsa. Tale distinzione non è ritenuta rilevante, invece, nell’anzidetta sentenza delle Sezioni unite.

Il Primo Presidente aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso deve essere rigettato perché infondato.

1. Sussiste anzitutto, nella fattispecie in esame, il reato di cui all’art. 483 cod. pen., considerato che nelle due distinte dichiarazioni sostitutive di certificazione (destinate a provare la verità dei fatti dichiarati) gli imputati hanno falsamente attestato il possesso, da parte delle imprese societarie da loro rappresentate, di un requisito indispensabile per la partecipazione all’appalto e, a maggior ragione, per la relativa aggiudicazione.

Presupposto del delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 cod. pen.) è l’esistenza di una specifica norma giuridica che attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di dichiarare il vero [vedi Sezioni Unite: 31.3.1999, n. 6, Lucarotti e 9.3.2000, n. 28, Gabrielli].

Per l’individuazione delle norme giuridiche che, nella specie, istituiscono l’efficacia probante della dichiarazione sostitutiva, equiparandola anche alla dichiarazione fatta a pubblico ufficiale ai fini e per gli effetti dell’applicazione delle sanzioni del codice penale, va ricordato che la “dichiarazione sostitutiva di certificazione†è stata inizialmente regolata dall’art. 2 della legge 4.1.1968, n. 15 (Norme sulla documentazione amministrativa e sulla legalizzazione e autenticazione di firme) â€" abrogata dall’art. 77 del D.P.R. n. 445/2000 â€" ed essa è destinata, tra l’altro, a comprovare “le iscrizioni in albi o elenchi tenuti dalla pubblica amministrazione†(tale deve intendersi l’Albo nazionale costruttori).

La stessa legge n. 15/1968 richiedeva che la dichiarazione sostitutiva di certificazione fosse sottoscritta dall’interessato e autenticata, stabilendo che le dichiarazioni autenticate “sono considerate come fatte a pubblico ufficialeâ€.

All’epoca dei fatti per i quali si procede vigeva la legge 15.5.1997, n. 127 (c.d. Bassanini bis), come modificata dalla legge 16.6.1998, n. 191 (c.d. Bassanini ter), ed era stata eliminata la necessità di autenticazione della firma, sostituita dalla produzione, in una con la dichiarazione, della fotocopia non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore (modalità attuata in concreto nella vicenda che ci occupa).

La materia ha trovato poi sistemazione organica nel D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (Testo unico in materia di documentazione amministrativa), che ha stabilito la non necessità di autentica di firma per le dichiarazioni sostitutive di certificazione, ribadendo, ai fini penali, che “le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli artt. 46 e 47 … sono considerate come fatte a pubblico ufficialeâ€.

Ciò non significa, però, che soltanto a fare data dall’entrata in vigore del D.P.R. n. 445/2000 le dichiarazioni sostitutive di certificazione non richiedenti autentica di firma (come quelle rese nel procedimento in esame) possano considerarsi, ai fini penali, come fatte a pubblico ufficiale e, quindi, presentino uno dei requisiti rilevanti per la configurazione del delitto di cui all’art. 483 cod. pen.

E’ vero che nella legge n. 15/1968 la parificazione della presentazione della dichiarazione sostitutiva alle dichiarazioni direttamente fatte a pubblico ufficiale riguardava le dichiarazioni ritualmente autenticate; deve però ritenersi che, caduta la obbligatorietà dell’autenticazione, era venuta meno la necessità della sussistenza di tale condizione ma non anche la doverosità dell’equiparazione già operata dall’art. 26 della stessa legge n. 15/1968 e ribadita dal legislatore del 2000, che, con il Testo unico (in conformità ai principi fissati dalla legge-delega 8.3.1999, n. 50), non ha innovato ma ha recepito e riorganizzato le precedenti normazioni.

Nella fattispecie in esame, in conclusione, il reato di cui all’art. 483 cod. pen. non può ritenersi escluso dalla circostanza che le attestazioni dei ricorrenti (concernenti l’iscrizione delle società da loro rappresentate all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 24 novembre 1999) sono contenute in autocertificazioni recanti sottoscrizioni non autenticate ma ritualmente prodotte, a corredo della istanza principale, unitamente alla fotocopia di un documento di identificazione (secondo le modalità all’epoca previste dalla legge).

2. Tanto premesso, va rilevato che la questione controversa sottoposta all’esame delle Sezioni Unite consiste nello stabilire se il delitto relativo alla falsa attestazione del privato (del quale, nella specie, è ravvisata la sussistenza) concorra con il delitto di falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell’atto pubblico al quale l’attestazione inerisca e quali siano le condizioni per la configurazione di questo secondo reato, in presenza (o meno) del primo.

3. In relazione alla individuazione delle condizioni di configurabilità del reato di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen. esiste effettivamente un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte Suprema.

3.1 Le Sezioni Unite â€" con la sentenza 24 febbraio 1995, n. 1827, P.G. in proc. Proietti â€" hanno avuto modo di pronunciarsi sulla portata del falso ideologico in atto pubblico mediante induzione in errore del pubblico ufficiale, in una fattispecie, però, nella quale non risultava valorizzata la presenza di condotte presupposte rilevanti ai sensi dell’art. 483 cod. pen..

La vicenda che aveva dato luogo alla questione era quella del rilascio di un diploma di laurea, previa redazione del verbale della relativa seduta, atto, quest’ultimo, nel quale si era attestato il superamento, da parte del laureando, degli esami del corso, mentre tale superamento non era mai avvenuto, essendo stato documentato dall’interessato, con la complicità di un dipendente della università, mediante falsi statini di esame e falsi verbali delle sedute di esame.

Il giudice del merito era pervenuto ad una pronuncia assolutoria, avendo escluso la configurabilità del reato di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen. sul presupposto che il verbale dell’esame di laurea e il relativo diploma non attesterebbero e non proverebbero la verità del fatto presupposto (superamento degli esami del corso) in quanto la Commissione ne prenderebbe atto senza effettuare alcun accertamento.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto tale ragionamento non condivisibile ed hanno affermato che tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, a contenuto descrittivo o dispositivo, dando atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 cod. pen., colui che ha posto in essere l’atto o l’attestazione non vera.

Il provvedimento del pubblico ufficiale, infatti, è ideologicamente falso in quanto adottato sulla base di un presupposto che in realtà non esiste. Di tale falso, però, non risponde il pubblico ufficiale, perché in buona fede in quanto tratto in inganno, bensì il soggetto che lo ha ingannato.

Le Sezioni Unite hanno argomentato, al riguardo, che “Il procedimento di formazione di qualsiasi atto amministrativo prevede come primo momento l’accertamento dei presupposti, accertamento che viene compiuto dalla stessa autorità che deve porre in essere l’atto o direttamente o, più frequentemente, sulla base di documenti che possono consistere anche in atti pubblici e certificati rilasciati da altre autorità; e l’accertamento trova poi la sua attestazione nel preambolo dell’atto, quali che siano le espressioni usate, usualmente concise tipo "Visti gli atti relativi a ..." "Visti gli attestati ....", peraltro da intendere nel senso che con le stesse viene attestato, sulla base dei documenti, dei certificati etc. forniti dal richiedente all’ufficio, la sussistenza dei presupposti dell’atto. E quindi, se detti documenti, certificati etc. sono falsi, materialmente o ideologicamente, deriva che anche la conseguente attestazione circa l’esistenza dei presupposti è falsaâ€.

A tale orientamento si sono conformate alcune successive decisioni delle Sezioni semplici di questa Corte Suprema (vedi Sez. VI, 19 gennaio 1996, n. 607 Ceccarello; Sez. V, 5 marzo 1997, n. 2043, Bornigia; Sez. V, 28 gennaio 2005, n. 2703, Foffi, quest’ultima in una fattispecie di falsa attestazione dell’iscrizione negli elenchi degli invalidi civili, utilizzata per ottenere un posto di lavoro con preferenza rispetto agli altri aspiranti).

3.2 Altro orientamento giurisprudenziale si pone in termini riduttivi rispetto all’anzidetta interpretazione “totalizzante†delle Sezioni Unite ed afferma la configurabilità di fattispecie nelle quali il falso per induzione non sussiste nei suoi elementi costitutivi, perché il tipo di attestazione che il pubblico ufficiale redige non è falso: ciò si verifica quando la attestazione ha ad oggetto non il fatto attestato (falsamente) dal privato ma la circostanza che lo stesso ha reso la relativa attestazione, cioè l’esistenza dell’atto (contenente la falsa attestazione) proveniente dal privato.

In tali ipotesi non si può parlare di falsità ideologica commessa, sia pure senza dolo, dal pubblico ufficiale, in quanto ciò che egli attesta o riporta corrisponde a quanto realmente esistente, anche se il contenuto non è vero: non vi è, dunque, un’attestazione falsa, ma la mera espressione di un’argomentazione errata. Può ravvisarsi, invece, il reato di cui all’art. 483 cod. pen. (o 495 a seconda dell’oggetto delle dichiarazioni) quando la attestazione del privato al pubblico ufficiale in atto pubblico abbia avuto ad oggetto fatti dei quali l’atto era destinato a provare la verità.

In questo senso si è espressa la V Sezione, con la sentenza 26 ottobre 2001, n. 38453, Perfetto, che riprende integralmente la diffusa motivazione della sentenza 4 gennaio 1995, n. 1408, Scarvaci.

Secondo queste sentenze, in particolare:

“Perché si renda applicabile l’art. 48 cod. pen. ai reati di falso è necessario che l’autore immediato (il soggetto ingannato) non si limiti ad esprimere una argomentazione errata ma compia una attestazione falsa.

Le ipotesi possibili sono cinque:

a) il soggetto ingannato si limita a riprodurre la dichiarazione del mentitore, documentandola;

b) ovvero, pur ponendola espressamente a premessa di una propria argomentazione, non giunge a conclusioni errate;

c) il soggetto ingannato non solo riproduce la dichiarazione del mentitore ma la utilizza anche come premessa di una argomentazione che sbocchi in una conclusione errata;

d) il soggetto ingannato descrive e attesta lo stesso fatto rappresentato nella dichiarazione del mentitore, ma senza far cenno di tale dichiarazione;

e) il soggetto ingannato descrive o attesta una situazione più ampia di quella rappresentata dal mentitoreâ€.

Soltanto l’ultima fattispecie integra la ipotesi del falso per induzione in errore del pubblico ufficiale.

“Nelle prime due ipotesi non può trovare applicazione l’art. 48 cod. pen., in quanto l’attestazione del soggetto destinatario dell’inganno non è falsa: non è falsa nel caso a), perchè essa rappresenta un fatto effettivamente verificatosi, vale a dire la dichiarazione del mentitore; non lo è nel caso b), perché la falsità della dichiarazione del mentitore non si estende alla conclusione del ragionamento in cui funge da premessa.

L’art. 48 non può trovare applicazione neppure nel caso sub c), perché sebbene siano false sia le dichiarazioni del mentitore sia la conclusione del soggetto ingannato, costui commette un errore non un falso. La proposizione che viene assunta come premessa del ragionamento dal soggetto ingannato, infatti, non è immediatamente descrittiva del fatto rappresentato dal mentitore, bensì della intervenuta dichiarazione di costui: è una attestazione della attestazione ed è vera.

La falsità della conclusione dell’argomento, quindi, non dipende dalla falsità della premessa (che è vera), bensì dalla invalidità dell’argomento nel quale la conclusione viene tratta come conseguenza necessaria della attestazione del mentitore senza considerare la possibilità che questa sia falsa. In altri termini, si assume come premessa il fatto che è intervenuta l’attestazione del mentitore e si trae la conclusione come se la premessa fosse direttamente il fatto rappresentato in quella attestazione.

In tutte queste ipotesi è invece configurabile il reato previsto dall’art. 483 cod. pen. o quelli previsti dagli artt. 495, 496, 567 comma 2, ove ne ricorrano i presupposti specifici. Si tratta infatti di fattispecie nelle quali si richiede la falsità di una dichiarazione proveniente da un privato che viene recepita come tale nella attestazione di un pubblico ufficiale, il quale non commette neppure oggettivamente alcuna falsità.

Nell’ipotesi d) il soggetto ingannato descrive come se fosse stato sa lui direttamente constatato il medesimo fatto che invece appreso dalla dichiarazione mendace del mentitore: non pare possa dubitarsi che in questo caso non si rende applicabile l’art. 48 cod. pen. perché è lo stesso soggetto ingannato a commettere una falsità ideologica, nel momento in cui fa apparire come da lui percepiti i fatti che gli sono stati riferiti.

Risulta invece applicabile l’art. 48 cod. pen. nella ipotesi e), perché in essa la falsa dichiarazione del mentitore è solo uno degli elementi dell’inganno che determina nel soggetto ingannato una conoscenza errata, e di conseguenza una falsa attestazione da lui proveniente anche se solo oggettivamenteâ€.

Con la sentenza della Sez. V, 19 maggio 2003, n. 22021, Carbini è stato poi affermato, pur sulla base di principi omogenei a quelli enunciati nella sentenza Perfetto, che si può configurare il falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale ingannato, del quale deve rispondere colui che ha reso la dichiarazione mendace, ove sia riscontrabile nell’atto stesso un quid pluris (cioè una situazione di fatto più ampia) rispetto all’attestazione non veritiera o all’atto falso prodotto dal privato, sicché (come rilevato dalla Sez. V, con la sentenza 12 gennaio 2007, n. 545, Cogoni) “la falsa dichiarazione del mentitore è solo uno degli elementi che determina la falsa attestazione del soggetto ingannatoâ€.

Altre pronunzie, infine, hanno escluso ogni responsabilità del privato autore della falsa attestazione nel caso in cui sussista un obbligo, non adempiuto, del pubblico ufficiale di accertare la veridicità della dichiarazione (così Sez. V, 25 gennaio 2005, n. 2253, Lorenzetto).

Si è espressa, invece, per l’irrilevanza della possibilità di controllo da parte del pubblico ufficiale sempre la V Sezione, con la sentenza 14 febbraio 2003, n. 7390, Porcaro.

4. Nel quadro giurisprudenziale dianzi delineato ritiene questo Collegio di dovere ribadire l’orientamento già espresso dalle Sezioni Unite, con la sentenza 24 febbraio 1995, n. 1827, P.G. in proc. Proietti, secondo il quale tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, a contenuto sia descrittivo sia dispositivo, dando atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 cod. pen., colui che ha posto in essere l’atto o l’attestazione non vera.

Va riconfermato, al riguardo, che il falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo ben può investire le attestazioni anche soltanto implicite contenute nell’atto e quei fatti, giuridicamente rilevanti, connessi indiscutibilmente, quali presupposti, con la parte dispositiva dell’atto medesimo (si veda già, in tal senso, Cass., Sez. Unite, 30 giugno 1984, Nirella), sia che concernano fatti compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale sia che concernano altri “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità†(art. 479, ultima parte, cod. pen.).

5. L’opposto orientamento non può essere condiviso.

Il pubblico ufficiale, invero â€" allorquando nell’atto da lui formato fa riferimento ad atti o a “dichiarazioni sostitutive†(non veri) provenienti dal privato e riferiti a presupposti richiesti per la legittima emanazione dello stesso atto pubblico â€" non si limita ad “attestare l’attestazione del mentitore†né a “supporre che quella attestazione sia veridicaâ€, ma compie, sia pure implicitamente, una attestazione falsa circa la sussistenza effettiva di quei presupposti indefettibili: attestazione di rispondenza a verità che si connette alla funzione fidefaciente che la legge assegna alle dichiarazioni sostitutive dei privati.

La premessa, contenuta nella parte descrittiva dell’atto, non è la mera circostanza che sia intervenuta un’attestazione del mentitore o che questi abbia prodotto un atto determinato, bensì che il fatto rappresentato in quell’atto o in quella “dichiarazione sostitutiva†sia certo, effettivamente accaduto ed integri l’esistenza di un elemento necessario per l’emanazione dell’atto del pubblico ufficiale. Quest’ultimo perviene ad una conclusione errata ma l’errore non si connette alla interpretazione e/o alla valutazione soggettiva di ciò che è ontologicamente esistente, costituendo invece il frutto di un falso determinato dalla falsità oggettiva dei presupposti attestati nella premessa, sicché viene esternata una non veridica rappresentazione della realtà e ad essa viene conferita pubblica fede.

Stante il rapporto di causa-effetto tra il fatto attestato dal privato, quale presupposto dell’emanazione dell’atto del pubblico ufficiale, ed il contenuto dispositivo di quest’ultimo e stante, altresì, la stretta connessione logica tra l’uno e l’altro, la falsità del primo si riverbera sul secondo e diventa essa stessa falsità di questo, sicché la recepita falsa attestazione del decipiens acquista la ulteriore veste di falsa attestazione del pubblico ufficiale deceptus sui fatti falsamente dichiarati dal primo e dei quali l’atto pubblico è destinato a provare la verità.

Si configurano perciò, anche sotto il profilo naturalistico, due condotte riconducibili al decipiens: una prima condotta consistente nella redazione della falsa attestazione ed una seconda concretatasi nell’induzione in errore del pubblico ufficiale mediante la produzione della stessa ai fini dell’integrazione di un presupposto dell’atto pubblico emanando, con conseguente configurabilità del concorso materiale tra i due reati, legati anche da connessione teleologica.

Nell’atto del pubblico ufficiale non deve necessariamente riscontrarsi un “quid pluris†(cioè una situazione di fatto più ampia) rispetto alla dichiarazione non veritiera o all’atto falso prodotto dal privato, poiché il reato previsto e sanzionato dell’art. 479 cod. pen. può essere commesso con modalità molteplici (come risulta evidente dalla stessa formulazione della norma incriminatrice) ed in particolare attraverso la falsa attestazione non soltanto di vicende che hanno comportato la partecipazione attiva e diretta del pubblico ufficiale, bensì anche e comunque, indipendentemente da ciò che questi ha compiuto, di “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità†(art. 479, ultima parte, cod. pen.), fatti suscettibili di prova storica attraverso la loro attestazione.

La falsa premessa deve concernere un fatto del quale l’atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità e ciò va inteso anche quale “immutatio veri†circa l’esistenza di un presupposto in assenza del quale il provvedimento non avrebbe potuto essere adottato.

Restano escluse le ipotesi in cui il pubblico ufficiale al quale l’inganno era rivolto sia caduto in errore “per causa propriaâ€, e l’art. 48 cod. pen., per il richiamo al precedente art. 47, ammette pure la possibilità che l’inganno del decipiens e la colpa del deceptus concorrano nel provocare la falsa rappresentazione e che, di conseguenza, quest’ultimo debba eventualmente rispondere a titolo di colpa del fatto commesso.

6. Ne consegue l’affermazione del principio secondo il quale il delitto di falsa attestazione del privato (di cui all’art. 483 cod. pen.) può concorrere â€" quando la falsa dichiarazione del mentitore sia prevista di per sé come reato â€" con quello della falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell’atto al quale l’attestazione inerisca (di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen.), sempreché la dichiarazione non veridica del privato concerna fatti dei quali l’atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità.

7. Sussiste pertanto, nella specie, anche il reato di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen., poiché le false dichiarazioni degli imputati, già costituenti di per sé reato, si sono poste in rapporto strumentale con atti pubblici successivamente redatti da pubblici ufficiali, pure affetti da falsità ideologiche, tenuto conto che:

-- nel verbale del 2 dicembre 1999, la competente Commissione ha ammesso alla gara le società rappresentate dai ricorrenti, attestando la regolarità delle loro domande di partecipazione e la rituale produzione dei documenti richiesti nel relativo invito (ove veniva indicata, quale condizione indefettibile, la necessità della iscrizione all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 24 novembre 1999);

-- nel verbale del 26 gennaio 2000, la Giunta provinciale ha ribadito la regolarità della documentazione presentata dalle imprese partecipanti alla gara, con ciò attestando l’esistenza di tutti i presupposti per l’assegnazione dell’appalto.

Detti atti della P.A. erano destinati a provare la verità dell’esistenza degli enunciati presupposti nell’ambito di un determinato procedimento di licitazione privata ed erano produttivi di effetti, anzitutto nei confronti degli altri partecipanti alla gara, proprio in virtù di detta esistenza. Un asserito presupposto essenziale, invece, non esisteva in concreto e la falsa configurazione dello stesso ha consentito l’aggiudicazione dell’appalto con preferenza rispetto alle altre imprese concorrenti.

Incongruo sarebbe il riferimento ad un obbligo, non adempiuto, dei pubblici ufficiali di accertare la veridicità della dichiarazione: il meccanismo di semplificazione amministrativa, introdotto dalle c.d. leggi Bassanini e culminato nel T.U. n. 445 del 2000, assegna infatti una funzione fidefaciente alle attestazioni dei privati, che si riflette automaticamente sugli elementi attestativi della P.A., senza che questa abbia il dovere di effettuare controlli o di acquisire conoscenze dirette.

8. Il ricorso, per tutte le argomentazioni svolte dianzi, deve essere rigettato ed i ricorrenti devono essere condannati, in solido, al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite,

visti gli artt. 607, 615 e 616 c.p.p.,

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.

Da: biggim16/12/2009 14:10:41
qualcuno mi sa dire del m.156067 di cosa si tratta?
Aiutatemi

Da: kostas16/12/2009 16:59:22
GRUPPO A
Caltanisetta corretta da Potenza
Potenza corretta da Perugia
Treno corretta da Campobasso
Campobasso corretta da Trieste
Perugia corretta da Caltanisetta
Trieste corretta da Trento
GRUPPO B
Ancona corretta da ReggioCalabria
Cagliari corretta da Brescia
Messina corretta da Ancona
ReggioCalabria corretta da Genova
Brescia corretta da Messina
Genova corretta da Cagliari

GRUPPO C
Salerno corretta da LAquila
Palermo corretta da Lecce
LAquila corretta da Palermo
Lecce corretta da Salerno

GRUPPO D
Torino corretta da Venezia
Catania corretta da Firenze
Bari corretta da Torino
Venezia corretta da Bari
Catanzaro corretta da Catania
Firenze corretta da Catanzaro

GRUPPO E
Roma corretta da Milano
Bologna corretta da Roma
Milano corretta da Napoli
Napoli corretta da Bologna

Da: giacomino16/12/2009 20:29:24
osa si sa della terza prova?

Da: Ciao16/12/2009 22:01:05
Si sa qlcs della terza prova?

Da: semu a mariiiii17/12/2009 07:03:11
ragazziiiiiiii notizie sulla terza provaaa please!!!!

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Da: veronic17/12/2009 10:03:45
novità sulla prova di oggi.aiutatemi

Da: gigi17/12/2009 10:06:29
hanno dettato le tracce?

Da: nic in attesa17/12/2009 10:08:40
Le stanno dettando in questo momento

Da: gigi17/12/2009 10:16:28
dove?

Da: puffa17/12/2009 10:16:35
okok

Da: teresa17/12/2009 10:18:37
attendiamo

Da: teresa17/12/2009 10:19:13
attendiamo

Da: vikthe red17/12/2009 10:20:48
notizie??

Da: aria17/12/2009 10:29:26
Notizie certe?

Da: traccia ammvo17/12/2009 10:34:51
il comune indice una gara per l’aggiudicazione dell’appalto per la costruzione e gestione degli impianti di illuminazione nel territorio comunale, provvedendo alla pubblicazione del bando.
A seguito della valutazione delle successive offerte presentate dai concorrenti, il comune aggiudica provvisoriamente l’appalto alla ditta tizia srl, e successivamente comunica l’aggiudicazione definitiva.
Prima, tuttavia, di procedere alla stipula del contratto il comune verifica che non sussisteva la disponibilità di fondi già da prima dell’aggiudicazione provvisoria, sicchè ritenendo che non avrebbe dovuto procedere alla indizione della gara, agendo in autotutela, con delibera n.10 del 30/10/2009 annulla gli atti della gara con comunicazione all’aggiudicataria di non potersi addivenire alla stipula del contratto.
La ditta tizia srl, pertanto si reca da un legale il quale, ricevuto mandato, notifica ricorso con conseguente deposito dinnanzi al tar di x con il quale impugna l’atto di annullamento della gara gara ed il diniego di stipula del contratto, di cui alla delibera comunale del 30/10/2009 e proponendo altresì domanda di risarcimento del danno a titolo di responsabilità precontrattuale.
Il candidato, assunte le vesti del legale del comune, rediga memoria di costituzione in giudizio approntando gli istituti processuali e sostanziali coinvolti.

Da: prrrrrrrrr17/12/2009 10:39:23
quale è la traccia dell'atto di civile qualcuno la sa?

Da: stefi17/12/2009 10:41:59
e l'altra traccia

Da: sunnymar17/12/2009 10:42:39
almeno il testo della terza prova ancora nulla??

Da: è_é17/12/2009 10:45:43
civile: vacanza rovinata risarciimento danni

Da: info17/12/2009 10:45:58
Tizio e Caia stipulano un contratto di soggiorno x 2 persone presso Hotel Delle Rose in località belle vista dal 20 settembre al 29 settembre 2009, con immediato versamento dell'intero importo pattuito. Il giorno precedente l'inizio del soggiorno, tutaviia, Tizio decede improvvisamente. Caia, allora, si rivolge ad legale volendo ottenere la restituzione dell'importo interamente corrisposto a titolo di pagamento. A seguito di richiesta fatta dal legale di Caia, di restituzione della somma di cui sopra, il legale rappresentante dell'Hotel Delle Rose, pur rammaricandosi dell'evento infausto, dichiara la non disponibilità alla restituzione della somma richiesta, atteso che da parte sua la prestazione era comunque certamente eseguibile. Il candidato assunte le vesti di legale di Caia, rediga atto giudiziario più opportuno, illustrando gli istituti e le problematiche sottese alla fattispecie

Da: info17/12/2009 10:46:05
Tizio e Caia stipulano un contratto di soggiorno x 2 persone presso Hotel Delle Rose in località belle vista dal 20 settembre al 29 settembre 2009, con immediato versamento dell'intero importo pattuito. Il giorno precedente l'inizio del soggiorno, tutaviia, Tizio decede improvvisamente. Caia, allora, si rivolge ad legale volendo ottenere la restituzione dell'importo interamente corrisposto a titolo di pagamento. A seguito di richiesta fatta dal legale di Caia, di restituzione della somma di cui sopra, il legale rappresentante dell'Hotel Delle Rose, pur rammaricandosi dell'evento infausto, dichiara la non disponibilità alla restituzione della somma richiesta, atteso che da parte sua la prestazione era comunque certamente eseguibile. Il candidato assunte le vesti di legale di Caia, rediga atto giudiziario più opportuno, illustrando gli istituti e le problematiche sottese alla fattispecie

Da: puffa17/12/2009 11:04:25
ora speriamo nelle soluzioni

Da: nino17/12/2009 11:27:56
cass. civ. sez III 20.12.2007, n° 26958 risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione.

Da: ila17/12/2009 11:28:38
le tracce sono uguali ovunque.e sono quelle pubblicate

Da: Grigia17/12/2009 11:34:48
Nessuno sa la traccia di penale??

Da: iooooo17/12/2009 11:41:19
TRACCIA â€" ATTO PENALE
Nevia veniva sottoposta dal dott. Caio, nell’ospedale della città Beta ad un intervento di laparoscopia operativa e, senza soluzione di continuità a salpingectomia che determina l’asportazione della tuba sn.
Nevia, lamentando di essere stata informata solo della laparoscopia, denunciava i fatti.
Tratto in giudizio dinnanzi al tribunale di Beta, il dott. Caio veniva condannato per il delitto di violenza privata.
I giudici accertavano che l’intervento di asportazione della tuba era stata una scelta corretta ed obbligata, eseguita nel rispetto delle regole e con buona competenza.
Tuttavia, il non avere preventivamente informato Nevia anche della possibile asportazione della salpinge, secondo intervento assolutamente prevedibile già al momento della programmazione della laparoscopia, andava ascritto ad una scelta consapevole e volontaria dell’imputato, che aveva dolosamente leso la libertà di autodeterminazione che la riguardavano.
Assunte le vesti dell’avvocato di Caio, rediga il candidato l’atto ritenuto più opportuno, evidenziando le problematiche sottese alla fattispecie in esame.

Da: piccione17/12/2009 11:42:00
TRACCIA â€" ATTO AMMINISTRATIVO
il comune indice una gara per l’aggiudicazione dell’appalto per la costruzione e gestione degli impianti di illuminazione nel territorio comunale, provvedendo alla pubblicazione del bando.
A seguito della valutazione delle successive offerte presentate dai concorrenti, il comune aggiudica provvisoriamente l’appalto alla ditta tizia srl, e successivamente comunica l’aggiudicazione definitiva.
Prima, tuttavia, di procedere alla stipula del contratto il comune verifica che non sussisteva la disponibilità di fondi già da prima dell’aggiudicazione provvisoria, sicchè ritenendo che non avrebbe dovuto procedere alla indizione della gara, agendo in autotutela, con delibera n.10 del 30/10/2009 annulla gli atti della gara con comunicazione all’aggiudicataria di non potersi addivenire alla stipula del contratto.
La ditta tizia srl, pertanto si reca da un legale il quale, ricevuto mandato, notifica ricorso con conseguente deposito dinnanzi al tar di x con il quale impugna l’atto di annullamento della gara gara ed il diniego di stipula del contratto, di cui alla delibera comunale del 30/10/2009 e proponendo altresì domanda di risarcimento del danno a titolo di responsabilità precontrattuale.
Il candidato, assunte le vesti del legale del comune, rediga memoria di costituzione in giudizio approntando gli istituti processuali e sostanziali coinvolti.
SENTENZA ATTO AMMINISTRATIVO: Decisione n. 5245 del 12 giugno 2009

Da: piccione17/12/2009 11:44:30
TRACCIA â€" ATTO PENALE
Nevia veniva sottoposta dal dott. Caio, nell’ospedale della città Beta ad un intervento di laparoscopia operativa e, senza soluzione di continuità a salpingectomia che determina l’asportazione della tuba sn.
Nevia, lamentando di essere stata informata solo della laparoscopia, denunciava i fatti.
Tratto in giudizio dinnanzi al tribunale di Beta, il dott. Caio veniva condannato per il delitto di violenza privata.
I giudici accertavano che l’intervento di asportazione della tuba era stata una scelta corretta ed obbligata, eseguita nel rispetto delle regole e con buona competenza.
Tuttavia, il non avere preventivamente informato Nevia anche della possibile asportazione della salpinge, secondo intervento assolutamente prevedibile già al momento della programmazione della laparoscopia, andava ascritto ad una scelta consapevole e volontaria dell’imputato, che aveva dolosamente leso la libertà di autodeterminazione che la riguardavano.
Assunte le vesti dell’avvocato di Caio, rediga il candidato l’atto ritenuto più opportuno, evidenziando le problematiche sottese alla fattispecie in esame.
SENTENZA ATTO PENALE: Corte di cassazione penale sentenza 2437/09 del 21/01/2009

Da: mixer17/12/2009 12:02:39
In fatto

Con atto di citazione in appello del 18 febbraio 2002, Be. Re., nella qualità di titolare dell'Hotel (OMESSO), impugnò dinanzi al tribunale di Teramo la sentenza con la quale il Giudice di pace di Atri lo aveva condannato al pagamento, in favore di Pi.Gr., della somma di lire 4 milioni e 550 mila.

Espose l'appellante:

- che la Pi. aveva, in primo grado, chiesto e ottenuto dal giudice di pace la declaratoria di risoluzione per impossibilità sopravvenuta di un contratto di soggiorno per due persone presso l'Hotel (OMESSO), stipulato, tramite l'agenzia napoletana Po. Tr., dal proprio coniuge, De. Lu.Da., deceduto improvvisamente il giorno precedente l'inizio del soggiorno;

- che, per effetto della così dichiarata risoluzione contrattuale, egli era stato condannato a restituire all'attrice quanto già ricevuto a titolo di pagamento della convenuta prestazione alberghiera;

- che tale condanna (sia pur detratta da essa il controvalore della prima giornata di soggiorno) era del tutto priva di giuridico fondamento, attesa la propria carenza di legittimazione passiva, da ricondursi piuttosto all'agenzia di viaggi partenopea;

- che la declaratoria di risoluzione, ex articolo 1463 c.c., del contratto di soggiorno era, comunque, giuridicamente infondata poichè, a mente della norma citata, il debitore poteva ritenersi legittimato a dedurre l'impossibilità della propria, prestazione, onde esimersi dal compierla, ma non (come nella specie) dell'altrui controprestazione;

- che, infine, la statuizione relativa al quantum restitutorio posto a suo carico appariva a sua volta contraddittoria (avendo il giudice di pace ridotto l'importo da restituire alla Pi. in misura pari al corrispettivo di un giorno di permanenza in albergo dacchè la disdetta della prenotazione era avvenuta proprio il giorno di inizio della prenotazione), poichè, traendo le dovute conseguenze dalla declaratoria di risoluzione tout court si come pronunciata in primo grado, ad essa si sarebbe conseguentemente dovuto attribuire efficacia liberatoria piena e non parziale.

Il Giudice di appello respinse il gravame, osservando, per quanto ancora di rilievo nel presente giudizio di legittimità:

- quanto al preteso difetto di legittimazione passiva dell'appellante-albergatore, da un canto, che la documentazione acquisita agli atti deponeva univocamente nel senso che la prenotazione alberghiera era stata effettuata dalla società Po. Tr. in forza di mandato con rappresentanza ricevuto dal cliente, essendo stata inserita, nel relativo documento, la frase "la presente prenotazione viene effettuata dalla Po. Tr. nella qualità di ufficio viaggi presentatore, in nome e per conto dello scrivente, che dichiara di essere pienamente d'accordo"; dall'altro, che la spendita del nome del rappresentato non aveva mai formato oggetto di contestazione in primo grado da parte dell'appellante, che si era piuttosto limitato, in sede di note difensive, a richiamare la giurisprudenza di legittimità pronunciatasi, in argomento, a favore della configurabilità di un mandato senza rappresentanza come contratto normalmente ravvisabile nelle vicende negoziali aventi ad oggetto prenotazioni alberghiere effettuate tramite agenzie di viaggi;

- quanto alla pretesa inapplicabilità, nella specie, del rimedio della risoluzione contrattuale per impossibilità sopravvenuta della, prestazione (azionabile, ad avviso dell'appellante, solo allorquando il debitore deduca l'impossibilità della propria prestazione - nel caso concreto già eseguita - e non già quella della controprestazione), che l'interpretazione dell'articolo 1463 c.c., così evocata non poteva essere condivisa, "alla luce della dizione letterale della norma in parola, tale da concedere l'azione di risoluzione come rimedio esperibile nei confronti della parte liberata dalla propria obbligazione per impossibilità sopravvenuta della prestazione al fine di ripristinare l'equilibrio patrimoniale alterato per il venir meno della causa solvendi. Giusta quanto chiarito dalla stessa S.C. con giurisprudenza ormai risalente (Cass. 23.8.1949, n. 2394), ai fini della risoluzione non ha rilievo che l'impossibilità riguardi la prestazione di una sola parte o di entrambe. La contraria interpretazione condurrebbe alla conseguenza del doversi negare la legittimazione ad esperire l'azione di risoluzione per impossibilità sopravvenuta alla parte che, avendo adempiuto la propria prestazione (rimasta, quindi, possibile), ha, ai sensi dell'articolo 1463 c.c., il diritto alla restituzione della prestazione stessa. La sussistenza dell'impossibilità della prestazione dovuta dall'Hotel (OMESSO) è, poi, incontestabile, ove si consideri che il titolare dell'impresa alberghiera era obbligato, in forza del contratto concluso con il De. Lu., ad assicurare al cliente i servizi di alloggio e pensione completa per due persone, fra le quali lo stesso cliente, la cui sopravvenuta malattia mortale integra indubbiamente una causa d'impossibilità per l'Hotel (OMESSO) di eseguire la prestazione promessa a partire dalla data del ricovero in ospedale del cliente" (così, testualmente, la motivazione della sentenza oggi impugnata a folli 8 e 9);

- quanto, infine, all'ultima doglianza dell'appellante - affermativa di una pretesa contraddittorietà della motivazione della sentenza del giudice di pace che, affermata in limine la risolubilità tout court del contratto di soggiorno, aveva poi pronunciato condanna al rimborso soltanto parziale della somma originariamente ricevuta - essa si rivelava inammissibile per carenza d'interesse, essendosi l'error iuris così realizzato in realtà risolto in un accoglimento, sia pur parziale, delle ragioni e delle istanze dell'appellante medesimo.

Avverso tale sentenza, Be.Re. propone ricorso per cassazione, sostenuto da 3 motivi di gravame.

Resiste con controricorso Pi.Gr..

In diritto

il ricorso è infondato e va, pertanto rigettato, sia pur con le precisazioni che seguiranno, funzionali, ex articolo 384 vecchio testo c.p.c., comma 2, (comma 4 nella nuova formulazione della norma) alla correzione della motivazione della sentenza impugnata (il cui dispositivo risulta, peraltro, conforme a diritto).

Il ricorso ripropone a questa Corte, nella sostanza, i medesimi temi svolti, in sede di appello, dinanzi al tribunale di Teramo.

Con il primo motivo, si duole, difatti, il ricorrente del difetto di motivazione ex articolo 360 c.p.c., n. 5, della sentenza impugnata sul punto della, ritenuta, legittimazione delle parti.

Il motivo non ha pregio.

Con motivazione esaustiva e scevra da vizi logico-giuridici, il giudice dell'appello ha ritenuto di ricostruire il rapporto tra l'agenzia e l'odierno ricorrente in termini di mandato con rappresentanza, ritenendo conseguentemente predicabile (del tutto legittimamente) l'esistenza di una indiscutibile legittimazione passiva in capo al mandante/rappresentante. Rilevato, in limine, come la doglianza mossa al folio 4 del ricorso - ove si legge che "il dedotto mandato con rappresentanza non è stato mai comunicato all'attuale deducente" - sia in realtà nuova (non essendo mai stata sollevata nei precedenti gradi di giudizio) e come tale inammissibile, nessuna delle censure mosse alla sentenza coglie nel segno, essendo, tutte, destinate ad infrangersi contro il corretto e condivisibile accertamento compiuto dai giudici di merito con riferimento al contenuto della scheda negoziale in contestazione, ed alla conseguente, ritenuta sussistenza della legittimazione a contraddire tra le parti: alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice va in questa sede ribadito che, in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati al Giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni legali di ermeneutica e la coerenza e logicità della motivazione addotta (tra le tante, di recente, Cass. n. 2074/2002) : l'indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al Giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione, con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca solo nella prospettazione di una diversamente anelata valutazione degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.

Con il secondo motivo, lamenta ancora il ricorrente la violazione e falsa applicazione dell'articolo 1463 c.c.; il difetto di motivazione sulla ritenuta ammissibilità della, risoluzione contrattuale.

Oggetto della censura (non diversamente da quanto già lamentato in grado di appello) è la ricostruzione del significato semantico, prima ancora che giuridico, della norma in contestazione, significato che, a detta della difesa del Be., non potrebbe che articolarsi secondo la seguente scansione logico-lessicale:

- la "prestazione dovuta" è quella divenuta impossibile;

- l'impossibilità della prestazione deve essere "sopravvenuta" al contratto;

- la "controprestazione" è quella possibile;

- la "parte liberata" è quella che non può più adempiere.

Conseguentemente, "solo la parte obbligata alla prestazione divenuta impossibile avrebbe interesse, ex articolo 100 c.p.c., a pretendere la propria liberazione dall'obbligazione, essendo concettualmente assurdo che tale domanda possa essere proposta dalla controparte che ha interesse all'adempimento della prestazione impossibile (semmai la controparte, a fronte dell'altrui inadempienza, avrebbe interesse a pretendere la declaratoria di risoluzione per inadempimento ex articolo 1453) ". Così rettalmente ricondotta la questione di diritto sottoposta al collegio al suo nucleo essenziale, essa andrebbe avviata a corretta soluzione sol che l'affermazione del tribunale - essere, cioè, divenuta impossibile la prestazione dell'albergatore - fosse sottoposta al necessario vaglio critico, onde concludere che l'obbligazione stessa, consistente nel "mettere a disposizione la struttura alberghiera secondo quanto contrattualmente concordato" non sarebbe mai stata, nè sarebbe mai divenuta, "tecnicamente impossibile" a causa della morte del cliente. L'errore di diritto in cui sarebbero caduti i giudici di merito si sarebbe pertanto ingenerato, perpetuandosi, all'esito dell'evidente confusione concettuale tra "prestazione" e (altrui) "godimento della prestazione", poichè a divenire impossibile sarebbe stata, in realtà, "la sola fruizione, da parte dell'avente diritto, della prestazione dell'albergatore per fatto imputabile allo stesso avente diritto, laddove tale circostanza rimane del tutto irrilevante e incapace di incidere sul sinallagma contrattuale". (Il motivo contiene un ulteriore sub-motivo - esposto al folio 11 del ricorso -, con il quale si lamenta ulteriormente una " frettolosità del Giudice di merito" concretatasi nel non aver quegli adeguatamente considerato che la prestazione alberghiera era riferibile a due persone, sicchè mai si sarebbe potuto dichiarare la risoluzione ex articolo 1463 c.c., anche con riguardo al contratto relativo alla seconda persona, essendo deceduto il solo contraente De. Lu. : della rilevanza, della astratta fondatezza e della inaccoglibilità sul piano processuale di tale doglianza si dirà all'esito dell'esame della prima parte del motivo in esame).

La censura dianzi riportata, benchè suggestivamente esposta, non merita accoglimento, ma, sul punto, è necessario, come accennato in premessa, una integrazione in diritto del contenuto della motivazione della sentenza di appello oggi impugnata.

La prima e preliminare questione di diritto sottoposta all'esame di questo collegio è, dunque, quella dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione con riferimento al soggetto legittimato a rilevarla ed invocarla.

Va in premessa ricordato come comunemente vengano individuati, in dottrina, tre diverse ipotesi di impossibilità, la prima consistente nel perimento della cosa (al quale è parificato il suo smarrimento), la seconda integrante il caso della sua incommerciabilità, la terza. (che postula, come noto, più complesse valutazioni fattuali) predicabile nei casi di obbligazioni di fare, con particolare riguardo a fattispecie di impedimenti di carattere personale: in tali ipotesi, al fine della liberazione del debitore, viene comunemente sottolineato il necessario carattere di assolutezza e di obiettività della impossibilità stessa, concetto che, come sovente evidenziato ancora in dottrina, pare certamente applicabile (salvo poi valutare le cause della stessa impossibilità) ai casi di perdita delle facoltà fisiche necessarie per l'adempimento. A tali requisiti, si suole poi aggiungere, alternativamente, quelli dell'infungibilità della prestazione divenuta impossibile e della riconducibilità del concetto di impossibilità alla prestazione e non alla persona del debitore.

Un primo dato appare dunque certo, quello, cioè, per il quale ha carattere sicuramente liberatorio l'impossibilità fisica materiale, e per questo assoluta, del debitore.

L'analisi si sposta, così, sul piano degli effetti dell'impossibilità sopravvenuta: mentre la non imputabilità ad alcuna delle due parti è senz' altro idonea ad attivare il meccanismo previsto dalla norma ex articolo 1463 c.c., e mentre, pacificamente, di questa disposizione viene esclusa la applicabilità in caso di impossibilità imputabile al debitore, fortemente controversa risulta la conseguenza della impossibilità imputabile al creditore: la dottrina è, in proposito, divisa tra chi ritiene che i relativi effetti sarebbero del pari disciplinati dalla norma in parola, e chi, al contrario, ne opina la riconducibilità all'articolo 1453, in quanto prodotti dall'inadempimento del creditore agli obblighi di cooperazione con il debitore nell'adempimento della prestazione di quest'ultimo.

Contrariamente a quanto opinato dal ricorrente, anche in dottrina, oltre che nella risalente giurisprudenza di questa corte di cui a Cass. 23.8.1949 n. 2394 (pubblicata in una nota rivista giuridica l'anno successivo a quello del suo deposito), si ritiene configurabile l'ipotesi di impossibilità tanto unilaterale (ossia legata ad una sola delle contrapposte obbligazioni), quanto di entrambe le prestazioni dedotte in contratto. Non erra il ricorrente nel sottolineare che il modus operandi del rimedio risolutorio non sia lo stesso per tutte le fattispecie previste dal codice, considerando che, nel caso di risoluzione per inadempimento, l'azione è rimessa alla facoltà dell'altro contraente (il non inadempiente), mentre, nel caso di impossibilità sopravvenuta, l'effetto risolutorio opera in modo automatico, con la liberazione del contraente obbligato alla prestazione divenuta impossibile: ma è altrettanto innegabile che (il dato è testuale nella norma di cui all'articolo 1463 c.c.), nel caso in cui sia riscontrata l'impossibilità assoluta di effettuare la propria prestazione, la parte liberata non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuto secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito. Ciò comporta, quale definitivo approdo dell'esegesi del testo normativo, che la risoluzione de qua possa legittimamente essere invocata da entrambe le parti: da quella, cioè, la cui prestazione rimane possibile, così come da colui la cui prestazione sia divenuta impossibile (in tali sensi, in passato, Cass. 18.9.1956 n. 3222) : non avrebbe altrimenti senso prevedere un rimedio restitutorio da indebito se non sulla premessa per cui la parte che abbia eseguito la propria prestazione (prestazione della quale, dunque, non avrebbe più senso discutere in termini di possibilità/impossibilità) può del tutto legittimamente richiedere alla controparte la restituzione a seguito dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione di controparte stessa.

Non è pertanto meritevole di accoglimento la doglianza contenuta nel motivo di ricorso in esame nella parte in cui vorrebbe allocare presso il solo obbligato alla prestazione impossibile l'interesse ad agire in giudizio (inconferente, dunque, è il richiamo all'articolo 100 c.p.c.) per la propria liberazione: lo stesso interesse conserva, specularmente, la parte che, eseguita la propria prestazione - ipso facto possibile proprio perchè (come nella specie) … già eseguita - ne richieda poi la restituzione a fronte della sopravvenuta impossibilità della prestazione di controparte.

Nella specie, la prestazione del cliente (pagamento di una somma di denaro a titolo di corrispettivo del soggiorno in albergo), possibile e già eseguita, non va incontro ad alcuna mutazione, nè genetica nè funzionale, a seguito della morte sopravvenuta alla stipula del contratto (nonchè all'adempimento della propria obbligazione) : la morte, difatti (come correttamente rileva, in proposito, il ricorrente), non è causa di impossibilità della prestazione del defunto (che l'ha già eseguita), bensì ragione di non fruibilità, da parte sua, della controprestazione offerta dall'albergatore.

L'analisi si sposta, allora, sugli aspetti contenutistici di quest'ultima obbligazione. Sostiene, difatti, il ricorrente, a fronte della (invero non esaustiva) ricostruzione operata in diritto dal Giudice di merito - il quale discorre di impossibilità della prestazione dell'albergatore senza ulteriori specificazioni al riguardo - che tale prestazione non sarebbe mai stata nè mai sarebbe divenuta tecnicamente "impossibile" a causa della morte del cliente, pena una inammissibile confusione concettuale tra prestazione, da un canto, e fruizione (da parte del creditore) della prestazione, che, nella specie, consisterebbe (trovandovi al tempo stesso il suo insuperabile limite contenutistico - esecutivo) nel "mettere a disposizione la struttura alberghiera secondo quanto contrattualmente concordato".

L'argomentazione non può essere condivisa.

È innegabile che, così articolata in parte qua. la tesi difensiva, il discorso sia destinato ad orbitare, preliminarmente, sul piano del sinallagma contrattuale, id est della causa negoziale intesa nel suo aspetto funzionale.

Questa corte ha già avuto recentemente modo di affermare il principio secondo cui un concetto "di funzione astratta" di causa non può più ritenersi soddisfacente criterio di ermeneutica contrattuale, dovendosene più correttamente procedere, di converso, ad una ricostruzione in termini di "causa concreta". (Cass. n. 10490 del 2006, che adotta tale criterio ricostruttivo dell'elemento causale del negozio con riferimento, peraltro, ad una vicenda nella quale il difetto di causa, emergeva sul piano non funzionale ma genetico, integrando conseguentemente una ipotesi di nullità contrattuale).

Il concetto di causa concreta non può, peraltro, non attenere altresì all'aspetto funzionale del predetto essentiale negotii.

Alla stregua del concetto di "causa negoziale concreta" va allora affermato che non soltanto la totale impossibilità sopravvenuta della prestazione (id est, della sua esecuzione, tale da costituire un impedimento assoluto ed oggettivo a carattere definitivo) integra una fattispecie di automatica estinzione dell'obbligazione e risoluzione del contratto che ne costituisce la fonte ai sensi dell'articolo 1463 c.c., e articolo 1256 c.c., comma 1, in ragione del venir meno della relazione di interdipendenza funzionale in cui la medesima si trova con la prestazione della controparte (Cass., 28/1/1995, n. 1037; Cass., 9/11/1994, n. 9304; Cass., 24/4/1982, n. 548; Cass., 14/10/1970, n. 2018), ma che lo stesso effetto consegue altresì alla impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore.

Tale principio di diritto risulta di recente affermato da questa stessa corte con la sentenza n. 16315 del 2007 (la fattispecie concreta di cui quel collegio ha avuto modo di occuparsi riguardava una vicenda relativa ad un soggiorno turistico all'estero dove una epidemia di dengue emorragica aveva indotto il contraente ad invocare la risoluzione del contratto di package).

Nella motivazione della sentenza (che afferma principi di diritto dai quali questo giudice non ha motivi per discostarsi) si rileva, in limine, come, nella specie, non fosse in realtà predicabile l'esistenza di un vero impedimento preclusivo dell'esecuzione dell'obbligazione, precisandosi, peraltro, che il soggiorno o il servizio alberghiero "assumono, al riguardo, rilievo non già singolarmente e separatamente considerati, bensì nella loro unitarietà funzionale, non potendo prescindersi dalla considerazione dei medesimi alla stregua della finalità turistica che la prestazione complessa in cui si sostanziano quali elementi costitutivi è funzionalmente volta a soddisfare. Tale finalità non costituisce, pertanto, un irrilevante motivo del contratto de quo, e non si sostanzia in specifici interessi che rimangono nella sfera volitiva interna del creditore della prestazione alberghiera costituendo il semplice impulso psichico interiore che lo spinge alla stipulazione del contratto, ma viene (anche implicitamente) ad obbiettivarsi in tale tipo di contratto, divenendo interesse che lo stesso è funzionalmente volto a soddisfare, così connotandone la sua causa sul piano concreto" (in argomento, adde Cass. 12235/07 oltre alla già citata Cass. 10490/06).

Il concetto di causa concreta appare, così, funzionale, da un canto, a qualificare il "tipo" contrattuale - determinando l'essenzialità di tutte le attività e servizi strumentali alla realizzazione della finalità turistica (e cioè il benessere psico - fisico che il pieno godimento della vacanza come occasione di svago e di riposo è volto a realizzare) -; dall'altro, assume rilievo quale criterio di adeguamento del rapporto negoziale, considerato nella suo aspetto dinamico-effettuale. Di talchè la causa (come non si è mancato di osservare da parte della più attenta dottrina) finisce per assumere rilievo non meno decisivo in ordine alla sorte della vicenda contrattuale (oltre che con riferimento alla fattispecie negoziale considerata nel suo aspetto genetico), in ragione di eventi sopravvenuti che si ripercuotono sullo sviluppo del rapporto (inadempimento, impossibilità, aggravio della prestazione, ecc.), eventi negativamente incidenti sull'interesse creditorio (nella specie, turistico), obbiettivato in seno all'elemento causale del contratto, e tali da farlo venire del tutto meno laddove - in base a criteri di normalità avuto riguardo alle circostanze concrete del caso - si accerti l'impossibilità, della relativa realizzazione.

La sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione deve dunque distinguersi dalla sopravvenuta impossibilità della esecuzione della prestazione (in argomento, funditus, cfr. Cass., 2/5/2006, n. 10138) di cui agli articoli 1463 e 1464 c.c., (cfr. ancora Cass., 16/2/2006, n. 3440; Cass., 28/1/1995, n. 1037 e la già citata Cass. 24/07/2007 n. 16315), ma, nella specie, soltanto sul piano concettuale, e non anche su quello degli effetti. Il venire oggettivamente meno dell'interesse creditorio (nella specie, per la morte del soggetto) non può, difatti, che determinare l'estinzione del rapporto obbligatorio, in ragione del sopravvenuto difetto del suo elemento funzionale (articolo 1174 c.c.) : e se, come nella specie, tale rapporto obbligatorio trovi fonte in un contratto, il venir meno del predetto interesse si risolve in una sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta del contratto stesso, assumendo conseguentemente rilievo quale autonoma causa della relativa estinzione. Il venir meno dell'interesse creditorio (e della causa del contratto che ne costituisce la fonte) può essere, dunque, legittimamente determinato anche dalla sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione, qualora essa si presenti come non imputabile al creditore, nonchè oggettivamente incidente sull'interesse che risulta (anche implicitamente) obbiettivato nel contratto: una impossibilità tale da vanificare o rendere irrealizzabile la "finalità turistica" (laddove irrilevanti rimangono viceversa le finalità ulteriori per le quali il turista si induce a stipulare il contratto, quali il desiderio di allontanarsi dalla famiglia o dalla cerchia degli amici; l'esigenza di un distacco dall'ambiente di lavoro; la necessità di riprendersi da un periodo di stress; la ricerca di avventure post-matrimoniali ecc.) in cui si sostanziano, viceversa, i motivi impulsivi sottesi alla stipula del contratto da parte del creditore della prestazione di soggiorno alberghiero. Così, pur essendo la prestazione in astratto ancora eseguibile, deve ritenersi che il venir meno della possibilità che essa realizzi lo scopo dalle parti perseguito con la stipulazione del contratto (nel caso, lo "scopo di vacanza" in cui si sostanzia la "finalità turistica"), implica il venir meno dell'interesse creditorio, quale vicenda che attiene esclusivamente alla sfera giuridico - economico di quest'ultimo. Superando le perplessità in passato avvertite, in argomento, da questa stessa Corte (Cass., 9/11/1994, n. 9304), e in consonanza con quanto autorevolmente sostenuto in dottrina, va pertanto affermato che l'impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, pur se normativamente non disciplinata in modo espresso, costituisce - analogamente all'impossibilità di esecuzione della prestazione - autonoma causa di estinzione dell'obbligazione: essendo la prestazione divenuta inidonea a soddisfare l'interesse creditorio, la conseguente estinzione del rapporto obbligatorio scaturente dal contratto per sopravvenuta irrealizzabilità della sua causa concreta comporta l'esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni: il debitore non è più tenuto ad eseguirla, il creditore non ha l'onere di accettarla.

Ad ulteriore conforto di tale conclusione va ricordato, ancora, l'orientamento recentemente espresso da questa stessa corte, a sezioni unite, in ordine alla necessità di un più penetrante controllo dell'autonomia privata da parte del Giudice in sede di tutela della parte debole" di un rapporto contrattuale, orientamento puntualmente espresso nella sentenza n. 18128 del 2 005, con la quale le sezioni unite hanno sottolineato - in tema di rilevabilità d'ufficio della clausola penale - che "l'esegesi tradizionale della norma ex articolo 1384 c.c., non appare più adeguata alla luce di una ri-lettura degli istituti costituzionali in senso conformativo ai precetti superiori della Carta fondamentale - individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi, ex articolo 2 Cost., e nell'esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie -, integrati con i generali canoni di ermeneutica contrattuale quali quelli della buona fede oggettiva e della correttezza di cui agli articoli 1175, 1337, 1359, 1375 c.c.". La pronuncia evoca, del tutto condivisibilmente, quanto più volte affermato dalla stessa Corte Costituzionale, che, con la sentenza n. 19 del 1994, ha a sua volta sottolineato come "con riferimento a rapporti obbligatori disciplinati da norme inerenti all'ordinamento generale dello Stato" vada riconosciuta "l'esistenza di un principio di inesigibilità come limite superiore alle pretese creditorie", principio a sua volta consacrato dal giudice delle leggi nella precedente sentenza n. 149 del 1992, ove si afferma che "l'interesse del creditore all'adempimento degli obblighi dedotti in obbligazione deve essere inquadrato nell'ambito della gerarchia dei valori comportata dalle norme, di rango costituzionale e ordinario, che regolano la materia in considerazione: e quando, in relazione a un determinato adempimento, l'interesse del creditore entra in conflitto con un interesse del debitore tutelato dall'ordinamento giuridico o, addirittura, dalla Costituzione, come valore preminente o, comunque, superiore a quello sotteso alla pretesa creditoria, allora l'inadempimento, nella misura e nei limiti in cui sia necessariamente collegato all'interesse di valore preminente, risulta giuridicamente giustificato".

Mette ancora conto di analizzare l'aspetto, evidenziato dal ricorrente nel sub-motivo 2, della limitazione al solo cliente deceduto di tale situazione oggettiva di impossibilità della controprestazione da parte del soggetto che, avendo già ricevuto la prestazione in denaro, è tenuto alla restituzione "secondo le norme relative all'indebito". Della questione (invero assai delicata, dacchè inferente la necessità di una più penetrante analisi del contenuto del contratto in contestazione sotto il profilo della sua esecuzione secondo buona fede e della attuazione di quegli obblighi di protezione accessori gravanti sul creditore) non può, peraltro, occuparsi la corte, attesane la evidente inammissibilità, essendo la stessa stata sollevata per la prima volta dal ricorrente in questa sede. (Nè il collegio può affrontare la connessa questione della legittimazione attiva della odierna resistente, la questione, cioè, se ella abbia agito o meno, nella specie, nella - necessaria - qualità di erede del de cuius avente diritto alla restituzione, non avendo mai tale tematica costituito oggetto di dibattito nelle precedenti fasi processuali).

Con il terzo motivo, infine, si duole ancora il ricorrente di un supposto vizio di motivazione sul punto della ritenuta, inammissibilità per carenza d'interesse dell'eccezione di contraddittorietà della pronuncia di riduzione della somma ripetibile.

Il motivo è privo di pregio giuridico sul piano processuale.

Premessa l'astratta condivisibilità della censura in punto di diritto, del tutto legittimamente la corte di merito, con statuizione affatto immune da vizi logico-giuridici, ne ha poi statuito l'irrilevanza, e la conseguente inammissibilità, per l'attuale ricorrente (al quale non è, allo stato attuale della legislazione, consentita la proposizione di un ricorso nell'interesse della legge ex articolo 363 vecchio e nuovo testo c.p.c.), per avere quest'ultimo, da tale error iuris, tratto l'indubbio beneficio di vedersi (indebitamente) ridurre il quantum restitutorio dovuto alla controparte.

Il ricorso è pertanto rigettato.

La disciplina delle spese segue come da dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso. Spese del giudizio di Cassazione compensate.

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