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12 dicembre 2012 - Parere Penale
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Da: dddddddddddd | 12/12/2012 15:05:59 |
DIFFERENZA PREZZO-PROFITTO NEL REATO DI PECULATO: Per essere più chiari: se il notaio ha intascato 20.000 euro (con i quali avrebbe dovuto pagare le imposte) detta somma rappresenta non il prezzo, ma il profitto del reato di peculato | |
Da: comma | 12/12/2012 15:05:59 |
basta la traccia del notaio. date indicazioni sull'altra!!!!! | |
Da: boh.... | 12/12/2012 15:07:16 |
cmq senza soffermarsi su quando è stato commesso il fatto (prima o dopo novembre 2012) alla confisca si applica l'art. 200 c.p (legge esistente al momento dell'applicazione della misura di sicurezza). Il principio del divieto della retroazione sfavorevole della norma sopravvenuta si applica ove si acceda alla tesi per cui la confisca non è una misura di sicurezza ma una pena (C. Cost. 97/2009 proprio sulla confisca per equivalente) | |
Da: max223 | 12/12/2012 15:07:35 |
ragazzi ma sapete chi corregge Salerno??? | |
Da: petalo rosso | 12/12/2012 15:07:43 |
Aoxomoxoa sei grande!!!!!!!! Mi permetto di dare un consiglio ai ragazzi che sono dentro: lasciate stare i commissari di esame.....ne sanno meno di voi.....parlo per esperienza personale a napoli!!!!!!!quando ho sostenuto io l'esame scritto ci sono stati pareri diversi tra un gip ed un pm..........LASCIATELI STARE!!!!!!! | |
Da: VaLLio | 12/12/2012 15:08:12 |
ragazzi mi serve il parere della pedoporografia.... hanno bisogno di aiuto...... gia è stato pubblicato??? | |
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Da: ccc | 12/12/2012 15:09:25 |
scusate il rit ma la soluzione relativa al peculato dove latrovo | |
Da: annannanna | 12/12/2012 15:09:44 |
idem... voglio pedoporn.. | |
Da: wizipy | 12/12/2012 15:10:44 |
io ho postato questo: per chi volesse il parere sullo sfruttamento dei minori inviamo il completo da MODIFICARE. Parere su sfruttamento minori Tipiche applicazioni del principio di consunzione vengono identificate nelle categorie dell'ante factum e del post factum non punibili, nonché in quella della progressione criminosa. L'antefatto e il postfatto non punibili si identificano con quei reati che costituiscono la normale premessa o il logico sbocco di altri reati rappresentando rispettivamente, secondo l'id quod plerumque accidit, il mezzo per commettere un reato più grave e quello per conseguire lo stato per il quale il reato più grave fu commesso, nei quali rimangono assorbiti: si pensi alla contravvenzione del possesso ingiustificato di chiavi o grimaldelli rispetto al reato di furto ovvero al reato di spendita di monete false rispetto al reato di falsificazione di monete. Si parla, invece, di progressione criminosa quando un soggetto, in forza di risoluzioni successive, compie aggressioni di crescente gravità nei confronti di un medesimo bene-interesse: si pensi all'ipotesi di chi prima percuote una persona e poi decide di ucciderla. Anche in tali casi, il reo dovrà rispondere soltanto del reato più grave, rimanendo in esso assorbito quello minore. La dottrina che ammette il criterio di consunzione ritiene che un altro campo di applicazione del principio di consunzione è quello della cd. progressione criminosa, sia nella forma della cd progressione criminosa in senso stretto, sia in quella del cd antefatto o postfatto non punibili. Così, se per esempio chi uccide non può allo stesso tempo non commettere il reato delle lesioni e delle percosse, allo stesso modo, chi commette il furto con effrazione consuma la norma contravvenzionale di cui all'art 707 c.p. previamente violata. Si ha, quindi, un antefatto non punibile ( o con-punito) che seppure a sua volta caratterizzato da una pluralità di condotte, si distingue dalla progressione criminosa in senso stretto per un rapporto di mezzo a fine tra le condotte stesse, che nella progressione manca. Resta fermo che, presupposto essenziale per la configurazione dell'antefatto non punibile è che il reato cd mezzo, oltre ad essere funzionale al reato cd fine, deve essere sanzionato in modo meno grave, restando, altrimenti disattesa la ratio del principio di assorbimento. Inoltre, si pensi all'esempio del ladro che distrugge la cosa rubata; nel distruggere l'oggetto precedentemente rubato non commette anche il danneggiamento, se non altro quando la condotta successiva all'impossessamento, è la prosecuzione naturale dell'impiego della cosa sottratta; non è così, invece, se il ladro, una volta rubata un'autobotte piena di gasolio, anziché usarlo per il riscaldamento, dà fuoco al mezzo. Solo nel primo caso, si è di fronte al cd post factum non punibile. Al riguardo, però, si deve evidenziare come la giurisprudenza è molto cauta nel riconoscere ipotesi di post factum, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge. Non tutta la dottrina ammette la fattispecie del post factum e dell'antefatto non punibili; secondo la dottrina che nega la sussistenza del postfatto e dell'antefatto, la principale ragione della non ammissibilità è la mancanza di un fondamento positivo, sottolineando come sia ammissibile solo nei casi in cui è lo stesso Legislatore che prevede tali figure, come avviene nelle ipotesi che escludono la punibilità autonoma del successivo uso dell'atto falso da parte di chi ha concorso nella falsificazione ( post factum non punibile). Sostiene parte della dottrina, che in realtà il postfatto e l'antefatto, non sono figure autonome che si riferiscono ad un fatto di reato, ma rientrano nell'iter criminis, ed in particolare nella figura della progressione criminosa, fenomeno che si connota dal contestuale susseguirsi di aggressioni di crescente gravità nei confronti del medesimo bene, come il graduale passaggio dalla lesione all'uccisione della vittima. Esse, quindi, vengono assorbite nel disvalore della fattispecie che concorrono a perfezionare. Secondo questa interpretazione ermeneutica, il cd criterio di assorbimento è un criterio che non ha autonomo riconoscimento normativo, per cui i singoli casi che si riconducono ad esso, comprese le figure del ante- post factum non punibili, o rientrano in una delle ipotesi di conflitto apparente espressamente disciplinate, ed allora troveranno la soluzione in base ai noti criteri, oppure , secondo quando affermato dalla giurisprudenza, costituiranno autonome figure di reato e pertanto saranno sanzionate in base alla relativa disciplina. Si pensi al caso della concussione e se alla promessa, che già di per sé è sufficiente per la consumazione del reato, segua la dazione effettiva del danaro o dell'altra utilità promessa, fatto questo, che costituisce la realizzazione del fine avuto di mira dall'agente che costituisce un post factum non punibile anche se non del tutto irrilevante; infatti, se alla promessa segue poi l'effettiva dazione il reato rimane unico, ma si verifica lo spostamento in avanti del momento consumativo che coincide con la dazione con la conseguenza che se tra la promessa e l'effettiva dazione si inserisce l'attività di un terzo intermediario che agevola il pagamento, si è nell'ambito del concorso di persone nel reato e non del favoreggiamento. La dottrina che ammette il criterio di consunzione, e la sua conseguente estensione al post factum e ante factum, ritiene che alla base del principio vi deve essere il collegamento tra due vicende collegate l'una all'altra anche se nella realtà rimangono distinte, ma comunque unite da un coefficiente di disvalore oggettivo e soggettivo. A tale unità di disvalore corrisponde sul piano interpretativo l'unicità della valutazione giuridica che postula l'applicazione della norma che prevede la pena più grave. Ma, poiché, il principio di consunzione non ha il medesimo coefficiente di certezza di quello della specialità né quello, seppur più limitato, della sussidiarietà , l'applicazione di questo principio ha trovato nella giurisprudenza alterna fortuna. Infatti, l'adesione alla concezione pluralistica è stata, negli ultimi anni, dapprima ripudiata per essere nuovamente abbracciata ammettendo sia il criterio di sussidiarietà che quello di consunzione riconducendo entrambi al superiore principio del ne bis in idem sostanziale. Tale ultimo principio vieta di addossare allo stesso soggetto più volte lo stesso fatto e porta ad affermare l'apparenza del concorso in tutti i casi di specialità reciproca ( sia per specificazione che per aggiunta). Secondo, quindi, questa dottrina il concorso di reati potrebbe sussistere nelle ipotesi in cui le fattispecie si trovino in rapporto di interferenza, ossia coincidano soltanto per la condotta (esempio violenza sessuale ex 609 bis e incesto ); quando le fattispecie si trovano in rapporto di eterogeneità ; infine, quando le fattispecie sono in rapporto di incompatibilità ossia prevedono elementi che si escludono. Nella fattispecie in esame, Tizio risponderà del delitto punito ai sensi dell'art. 600 ter quarto comma c.p. (cessione di materiale pornografico). Tale delitto potrà essere, previa valutazione in concreto effettuata dal giudice, potrà essere eventualmente aggravato ai sensi del quinto comma (circostanza aggravante ad effetto speciale consistente nella detenzione di materiale di ingente quantità . Inoltre, aderendo al prevalente orientamento giurisprudenziale risalente al 2011 ed anticipato già nel 2008, il concorso formale è escluso tra il delitto di cessione di materiale pedopornografico e quello di detenzione dello stesso materiale, in quanto la condotta di detenzione rappresenta un antefatto non punibile rispetto a quella di cessione, rimanendo assorbita in quest'ultima. L'art. 600 ter c.p., introdotto dalla legge n. 269 del 1998 e successivamente corretto dalla legge n. 38 del 6 febbraio 2006 recante "disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet", prevede diverse figure criminose suddivise in cinque commi miranti a reprimere tale fenomeno a tutti i livelli. Il bene giuridico protetto dalla norma in questione va individuato nellalibertà psicofisica del minore. Si tratta di un delitto contro la personalità individuale. Il quarto comma dell'art. 600 ter c.p. anch'esso modificato dalla Legge n. 38/2006, sanziona "chiunque al di fuori delle ipotesi di cui ai commi primo, secondo e terzo, offre o cede ad altri, anche a titolo gratuito, il materiale pornografico di cui al primo comma". Ciò che distingue il "cedere" dal fare commercio, è il carattere privato della condotta, e non il fine di lucro dell'agente: qui, a differenza che nel secondo comma dell'art. 600 ter c.p., l'offerta del materiale, anche se onerosa non presuppone una struttura organizzata di tipo imprenditoriale (che è implicita invece nel concetto di commercio) ed è diretta a singoli destinatari, individualmente determinati, essendo la cessione al pubblico punita più severamente ai sensi del comma terzo. Nella normativa precedente era stata prevista la sola attività di cessione, ad essa è stata aggiunta dalla legge n. 38/2006, l'ulteriore attività di "offrire", termine che rafforza e completa la portata della norma, in quanto chi offre svolge opera di proselitismo, mentre chi cede può anche essere indotto a farlo in maniera forzata. È un reato comune a forma vincolata. Quanto all'elemento soggettivo, la fattispecie è punibile a titolo di dolo generico, richiedendo esclusivamente la cosciente volontaria realizzazione di una delle condotte incriminate, a prescindere dalle concrete finalità . Il reato di detenzione di materiale pedopornografico ex art 600 quater c.p. non richiede, ai fini della sua configurabilità , un concreto pericolo di diffusione del predetto materiale, essendo sufficiente la mera consapevole detenzione del medesimo. La fattispecie incriminatrice ricomprende la memorizzazione del materiale e dei file elettronici nell'hard disk del sistema informatico, in cd-rom, dvd, pendrive, ipod, telefonini o altri mezzi in grado di archiviare documenti multimediali . L'elemento soggettivo del delitto de quo è costituito dal dolo generico, che ovviamente presuppone la consapevolezza che i soggetti raffigurati siano minorenni e della provenienza illecita del materiale. In sostanza, la cessione occasionale, singolarmente effettuata (ex comma 4 art 600 ter c.p.), del materiale pornografico è fattispecie per sua natura sussidiaria rispetto a quelle previste nei commi precedenti dello stesso art. 600 ter c.p., che non può trovare applicazione quando sussistano gli elementi per la operatività degli stessi. Per cedere il materiale (che è cosa diversa dall'informazione), bisogna prima detenerlo. In tale situazione la detenzione di materiale pedopornografico assume i connotati di un antefatto non punibile e per tale ragione rimane assorbita nel delitto di cessione. In definitiva, la condotta di Tizio di cui all'art. 600 quater c.p., rimarrà assorbita in quelle di cui all'art. 600 ter c.p. allorchè sussista una progressione criminosa o un assorbimento e la condotta della detenzione sia prodromica a quelle di cui all'art. 600 ter c.p. Mentre è configurabile il concorso formale tra il delitto di detenzione di materiale pedopornografico e quello di divulgazione di notizie finalizzate allo sfruttamento di minori, diversamente il concorso è escluso tra il delitto di cessione di materiale pedopornografico e quello di detenzione dello stesso materiale, in quanto la condotta di detenzione rappresenta un antefatto non punibile rispetto a quella di cessione, rimanendo assorbita in quest'ultima (Cassazione Penale, Sez. III, n. 36364 del 23-9-2008). L'ipotesi di offerta o cessione di materiale pedopornografico (art. 600 ter, comma 4, c.p.) contiene dal punto di vista concettuale quella di detenzione inclusa nell'imputazione di cui all'art. 600 quater c.p. (procurarsi o detenere): infatti la giurisprudenza di legittimità ha affermato, in via generale, che anche la stessa divulgazione di materiale illecito presuppone la sua detenzione, perché non si può evidentemente divulgare volontariamente "materiale pedopornografico" se non si è in possesso e non si detiene consapevolmente il materiale stesso. E' stato quindi, in relazione allo specifico, escluso il concorso tra il delitto di cessione di materiale pedopornografico e quello di detenzione dello stesso materiale, "in quanto la condotta di detenzione rappresenta un antefatto non punibile rispetto a quella di cessione, rimanendo assorbita in quest'ultima" (Cassazione Penale, Sez. III, n. 35696 del 3 ottobre 2011). Nella fattispecie in oggetto tra la condotta di cui all'art. 600 quater c.p. e quella di cui all'art. 600 ter c.p., comma 4 esiste assorbimento e non concorso di reati o concorso apparente di norme, perchè il reo per cedere il materiale ha dovuto prima procurarselo. Per quanto riguarda l'eventuale configurazione della circostanza aggravante ad affetto speciale della ingente quantità , la valutazione del carattere, ingente o meno, del materiale, deve essere condotta con riferimento non solo al numero dei supporti, dato di per sé indiziante, ma anche al numero di immagini, da considerare come obiettiva unità di misura, che ciascuno di essi contiene. Spetterà di conseguenza al giudice con riferimento al caso concreto valutare l'eventuale presenza di tale circostanza aggravante. | |
Da: osservazioni | 12/12/2012 15:10:44 |
per dddd....al di là della differenza tra profitto e prezzo...le case non sono confiscabili se ci si vuole attenere alla lettera della traccia | |
Da: Ulde 84 | 12/12/2012 15:11:07 |
Tenuto conto che non siamo a conoscenza della data di consumazione del reato di Tizio il Notaio ma invece siamo certi dell'irretroattività della legge 190/12 che è entrata in vigore il 28.11.12 (che cazzimma ma secondo me quelli che hanno fatto la traccia nemmeno lo sapevano bestie che sono), io direi che se la consumazione del reato è avvenuta prima, si applica le sezioni unite 2009, se invece è avvenuta dopo (ma è davvero poco probabile) certamente la nuova legge influirà sulla potenziale richiesta di restituzione di quanto in sequestro | |
Da: caludiacali | 12/12/2012 15:11:28 |
- Messaggio eliminato - | |
Da: dddddddddddd | 12/12/2012 15:12:33 |
Scusa boh.... è proprio la sentenza della corte costituz che citi tu a riconoscere la natura sanzionatoria e la conseguenziale irretroattività . Idem Cassazione penale, sez. III, 24/09/2008, n. 39172. Quindi la modifica legislativa è DIRIMENTE.....sono stati veramente cattivi con questo compito, apparentemente molto facile, ma in realtà difficile proprio per la modifica del 322 ter che, con i mezzi che hanno in aula, NON POTEVA NON PASSARE INOSSERVATA!!! Ma come cacchio potevano saperlo??? Anche nell'ultima versione di juris data non c'è cenno della modifica!! | |
Da: dddddddddddd | 12/12/2012 15:13:32 |
GIUSTO Ulde 84!!! | |
Da: MARCOS75 | 12/12/2012 15:13:49 |
CALUDIACALI METTI LA DIFFERENZA TRA ENTRA IN VIGORE DELLA NOVELLA LEGISLTAIVA E NON? | |
Da: Avvocato 1980 | 12/12/2012 15:14:25 |
PARERE 1 La prima problematica che viene in rilievo nel caso di specie attiene alla possibilità di ritenere integrati gli estremi del delitto di peculato dalla condotta di Tizio, il quale, come si evince dalla traccia, riveste la qualità di pubblico ufficiale. L'art. 314 c.p., come da ultimo novellato dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, prevede espressamente che "Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni". Nella giurisprudenza della Suprema Corte si osserva un indirizzo interpretativo pacifico secondo il quale il momento consumativo del delitto di peculato deve individuarsi nel comportamento appropriativo dell'agente avente a oggetto il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia il possesso per ragioni d'ufficio o di servizio. In particolare, peraltro, a detta della Corte, l'interesse all'integrità patrimoniale della Pubblica Amministrazione viene leso dal comportamento incompatibile con il titolo per il quale si possiede il bene pubblico (ex plurimis, Cass. pen., Sez. VI, 3 novembre 2003 - 20 gennaio 2004, n. 1256) indipendentemente, quindi, dalla mancanza di danno patrimoniale conseguente all'appropriazione. In tale ipotesi, difatti, la condotta dell'agente lede l'altro interesse tutelato dalla disposizione, vale a dire il buon andamento, la legalità e l'imparzialità dell'amministrazione (Cass. pen., Sez. VI, 4 ottobre 2004 - 31 gennaio 2005, n. 2963). A ciò si aggiunga che, secondo l'opinione della Suprema Corte "Non v'è dubbio che la condotta appropriativa del notaio vada qualificata come peculato. La qualifica di pubblico ufficiale spetta al notaio non solo nell'esercizio del suo potere certificativo in senso stretto, ma in tutta la sua complessa attività , disciplinata da norme di diritto pubblico (legge notarile) e diretta alla formazione di atti pubblici! (Cass. Pen. SEZ. V, 11 dicembre 2009, n. 47178) Tornando al caso di specie, la circostanza che il notaio sia responsabile d'imposta ed assuma come tale la veste di coobbligato solidale, che la legge affianca al soggetto passivo d'imposta, al fine di agevolare la riscossione dei tributi, non vale certo ad escludere la qualifica pubblicistica che gli compete. Configurandosi pertanto l'ipotesi di reato prevista dall'art. 314 c.p.c., Tizio potrà essere "punito con la reclusione da quattro a dieci anni" (art. 314 c.p. così come modificato dalla, L. 6 novembre 2012, n. 190.). Nel caso di specie si ritiene peraltro che ricorra altresì la c.d. "continuazione" del reato in esame, in quanto Tizio con più azioni ha commesso una pluralità di violazioni della stessa disposizione di legge, in esecuzione del medesimo disegno criminoso. Premesso quanto sopra, occorre ora chiedersi se effettivamente la misura cautelare della confisca possa o meno avere a oggetto i beni nella disponibilità di Tizio. Nell'ambito delle misure di sicurezza la figura della confisca, la cui disciplina generale è contenuta nell'art. 240 c.p., assume un ruolo peculiare, Attraverso detta misura ablatoria vengono acquisiti dallo Stato beni che per la loro intrinseca natura ovvero per un collegamento funzionale con un illecito penale devono considerarsi criminosi. Per quanto attiene ai presupposti applicativi della confisca occorre precisare che questa, a differenza della altre misure di sicurezza, prescinde dall'accertamento della pericolosità sociale del reo, essendo sufficiente la commissione di un reato o di un quasi reato. In linea generale, essa è di applicazione facoltativa (art. 240, comma 1, c.p.) ovvero obbligatoria (art. 240, comma 2, c.p.) Attraverso la l. 29 settembre 2000, n. 300, che ha inciso sul titolo dedicato ai delitti contro la Pubblica Amministrazione, la confisca obbligatoria è stata estesa, grazie alle previsioni contenute nell'art. 322 ter c.p.. ad alcune fattispecie ivi previste e, inoltre, è stato inserito l'istituto della confisca per equivalente, già contemplato dal nostro ordinamento in materia di usura (l. 7 marzo 1996, n. 108). Il tratto che connota tale figura giuridica consiste nella possibilità , per l'autorità giudiziaria, di procedere, qualora manchino i beni che si identificano con il profitto e il prezzo del reato, all'ablazione di beni diversi per un valore equivalente al prezzo del reato (art. 322 ter, comma 1) ovvero al profitto del medesimo (art. 322 ter, comma 2, c.p.). Nel caso di specie, la questione si colloca, insomma, nel contesto relativo alla definizione dello spettro operativo della confisca per equivalente disciplinata nell'art. 322 ter c.p. L'art. 322 ter, introdotto nel codice penale dalla l. 29 settembre 2000, n. 300, in occasione delle ratifiche da parte del nostro Paese di specifiche convenzioni internazionali volte a contrastare i fenomeni corruttivi, dispone al comma 1, che in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei delitti contro la Pubblica Amministrazione previsti negli articoli da 314 a 322 c.p. è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono "il profitto o il prezzo" salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando questa non sia possibile, la confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità , per un valore corrispondente a tale "prezzo" (c.d. confisca per equivalente). Nei termini chiariti dall'autorevole insegnamento delle Sezioni unite della Suprema Corte, la ratio dell'istituto della confisca per equivalente risiede nella scelta di privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall'attività criminosa, anche di fronte all'impossibilità di aggredire l'oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale misura che assume a tutti gli effetti i tratti distintivi di una vera e propria sanzione (Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008 - 2 luglio 2008, n. 26654). Stando alla formulazione letterale della disposizione (art. 322 ter, comma 1, c.p.), come rilevato dalla costante e più recente giurisprudenza di legittimità , la confisca per equivalente non è applicabile in relazione al profitto del delitto di peculato (art. 314 c.p.), dovendo ritenersi limitata al solo tantundem del prezzo del reato (Cass. pen., Sez. VI, 5 novembre 2008 - 7 aprile 2009, n. 14966; Cass. pen., Sez. VI, 10 marzo 2009, n. 10679). Depongono a favore di questa soluzione argomenti di diversa natura. In prospettiva sistematica, si esclude che il legislatore abbia utilizzato nell'art. 322 ter c.p. il termine prezzo in senso atecnico, così da comprendere qualsiasi utilità connessa al reato, derogando alla disciplina generale stabilità nell'art. 240 c.p., ove le nozioni di prezzo e profitto sono nettamente distinte. Da un punto di vista esegetico, poi, sembra chiara la volontà del legislatore di escludere, salvo le ipotesi del comma 2 dell'art. 322 ter c.p., il profitto del reato dalla confisca per equivalente. In senso contrario si registra un isolato orientamento che aderisce a una interpretazione estensiva secondo la quale, riguardo al delitto di peculato, sono assoggettabili a confisca, ai sensi dell'art. 322 ter c.p., comma 1, beni nella disponibilità dell'imputato per un valore corrispondente a quello relativo al profitto o al prezzo del reato (Cass. pen., Sez. VI, 29 marzo 2006 - 17 luglio 2006, n. 24633). Di recente, a dirimere l'illustrato contrasto giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni unite della Suprema Corte. La Corte ha precisato che, in difetto di una nozione legale di profitto del reato, può accogliersi la ricostruzione semantica di tale concetto offerta dalla dominante giurisprudenza di legittimità secondo la quale esso deve essere identificato con il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al prodotto e al prezzo del reato. In particolare, il prodotto rappresenta ciò che materialmente deriva dall'illecito, vale a dire le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato, il prezzo, invece, deve individuarsi nel compenso dato o promesso a una determinata persona, a titolo di corrispettivo dell'esecuzione dell'illecito (ex plurimis, Cass. pen., S.U., 3 luglio 1996 - 17 ottobre 1996, n. 9149). Le Sezioni unite, pertanto, alla luce della netta distinzione fra le nozioni di prezzo e profitto del reato, unitamente alla mancanza di una chiara indicazione legislativa che attribuisca a tali termini un significato diverso da quello comunemente assegnato dalla giurisprudenza di legittimità , ritengono che non sussista alcun elemento idoneo a far ritenere che il legislatore, nella formulazione dell'art. 322 ter, comma 1 c.p., abbia usato il termine prezzo in senso atecnico, così da includere qualsiasi utilità connessa al reato sicchè, con riferimento al delitto di peculato può disporsi la confisca per equivalente prevista dall'art. 322 ter, comma 1, ultima parte c.p., soltanto del prezzo e non anche del profitto (Cass. pen., S.U., 25 giugno 2009 - 6 ottobre 2010, n. 38691). Premesso quanto sopra deve tuttavia essere rilevato, la L. 6 novembre 2012, n. 190 ha parzialmente modificato il citato articolo 322-ter, primo comma: dopo le parole: «a tale prezzo» sono difatti state aggiunte aggiunte le seguenti: «o profitto». A seguito dell'intervento del Legislatore, non v'è pertanto dubbio che, per quanto concerne la misura di sicurezza della confisca per i delitti con¬tenuti nel titolo II del Libro I del codice penale, ai sensi del novellato art. 322-ter c.p., in caso di condanna, è possibile disporre l'ablazione per equivalente non solo del prezzo del reato (cioè del corrispettivo per l'acquisto dell'utilità ) ma anche del suo profitto, estendendo quindi la ritenzione a beni il cui valo¬re corrisponde all'utilità economica immediatamente derivante dall'avvenuto compimento del fatto illecito. A ciò si aggiunga che, come affermato dalla Corte di cassazione in numerose pronunce - la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all'assenza di un "rapporto di pertinenzialità " (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni, conferiscono all'indicata confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura "eminentemente sanzionatoria", che impedisce l'applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell'articolo 200 del codice penale, secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, e possono essere, quindi, retroattive (ex multis, Cassazione penale, sentenze 39173, 39172 e 21566 del 2008). A tale conclusione si giunge sulla base della duplice considerazione che il secondo comma dell'articolo 25 della Costituzione vieta l'applicazione retroattiva di una sanzione penale, come deve qualificarsi la confisca per equivalente, e che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto in contrasto con i princÃpi sanciti dall'articolo 7 della Convenzione l'applicazione retroattiva di una confisca di beni riconducibile proprio a un'ipotesi di confisca per equivalente (Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 307A/1995, Welch v. Regno unito). Stando così le cose, si ritiene che, nel caso di specie, 1. laddove il reato sia stato commesso prima l'entrata in vigore della L. 6 novembre 2012, n. 190, Tizio potrà ottenere, previa istanza di riesame del sequestro preventivo, la restituzione dei propri beni; 2. laddove il reato sia stato commesso dopo l'entrata in vigore della L. 6 novembre 2012, n. 190, i beni di tizio potranno essere validamente confiscati. | |
Da: consegna a Roma | 12/12/2012 15:14:51 |
??? roma quando consegna? | |
Da: Avv. DTX | 12/12/2012 15:15:30 |
Nell'ambito delle misure di sicurezza assume un ruolo peculiare la figura della confisca, la cui disciplina generale è contenuta nell'art. 240 c.p. Attraverso detta misura ablatoria vengono acquisiti dallo Stato beni che per la loro intrinseca natura ovvero per un collegamento funzionale con un illecito penale devono considerarsi criminosi. Per quanto attiene ai presupposti applicativi della confisca occorre precisare che questa, a differenza della altre misure di sicurezza, prescinde dall'accertamento della pericolosità sociale del reo, essendo sufficiente la commissione di un reato o di un quasi reato. In linea generale, essa è di applicazione facoltativa (art. 240, comma 1, c.p.) ovvero obbligatoria (art. 240, comma 2, c.p.) Attraverso la l. 29 settembre 2000, n. 300, che ha inciso sul titolo dedicato ai delitti contro la Pubblica Amministrazione, la confisca obbligatoria è stata estesa, grazie alle previsioni contenute nell'art. 322 ter c.p.. ad alcune fattispecie ivi previste e, inoltre, è stato inserito l'istituto della confisca per equivalente, già contemplato dal nostro ordinamento in materia di usura (l. 7 marzo 1996, n. 108). Il tratto che connota tale figura giuridica consiste nella possibilità , per l'autorità giudiziaria, di procedere, qualora manchino i beni che si identificano con il profitto e il prezzo del reato, all'ablazione di beni diversi per un valore equivalente al prezzo del reato (art. 322 ter, comma 1) ovvero al profitto del medesimo (art. 322 ter, comma 2, c.p.). Fin dall'introduzione dell'istituto della confisca si è aperto un dibattitto relativo alla natura giuridica di tale sanzione penale. Precisamente, ci si è chiesti se, conformemente all'intitolato legale, debba considerarsi una misura di sicurezza ovvero assuma i tratti di una vera e propria pena. La distinzione è di non poco momento, atteso che, ai sensi dell'art. 200 c.p., si applica alle misure di sicurezza un divieto di retroattività temperato, in forza del quale può trovare applicazione la legge in vigore al tempo dell'esecuzione della misura di sicurezza, ancorchè sia diversa da quella prevista al tempo del reato comesso, mentre per le pene vale il principio di irretroattività sancito nell'art. 2, comma 1, c.p., il quale ammette deroghe soltanto a favore del reo. Secondo la tesi tradizionale, la ratio di tale opzione normativa riposa sulla diverse funzioni perseguite dalla pena e della misura di sicurezza. Nel primo caso prevalgono esigenze di prevenzione generale, nel secondo caso, invece, è valorizzato il contenuto terapeutico della misura sanzionatoria, sicchè trova giustificazione l'applicazione di uno strumento più moderno, sebbene diverso da quello previsto al tempo della perfezione dell'illecito. Resta inteso che, per non svuotare di contenuto le garanzie del reo, è necessario che la previsione di una misura di sicurezza applicabile per il fatto realizzato già sussista al momento della commissione di questo. Proprio in materia di confisca per equivalente, le indicazioni provenienti dalla l. 29 settembre 2000, n. 300 orientano a ritenere che la confisca abbia una natura giuridica assimilabile a quella della pena. L'art. 15 (Norma transitoria), preclude infatti l'applicazione retroattiva della confisca per equivalente. Detto rilievo, già condiviso dalla giurisprudenza delle Sezioni unite in materia di responsabilità degli enti dipendente da reato (Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008 - 2 luglio 2008, n. 26654), è stato recentemente confermato dalla Corte costituzionale (Corte cost., 2 aprile 2009, n. 97) la quale, recependo l'approccio sostanzialistico in materia penale, tipico della giurisprudenza della Corte della Europea dei Diritti dell'Uomo, ha riconosciuto nella confisca per equilavente i tratti dell'afflittività , tipici della pena. Poste queste premesse, la Consulta ha statuito che un'applicazione retroattiva dell'istituto di cui all'art. 322 ter c.p. violerebbe l'art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, a tenore del quale nessuno può essere punito con un pena più grave di quella prevista al momento in cui è stato commesso il fatto e, conseguentemente, contrasterebbe con l'art. 117, comma 1, Cost. che impone al legislatore italiano di esercitare la potestà legislativa rispettando i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Nel caso di specie, accedendo all'ultimo indirizzo delle Sezioni unite, Tizio potrà ottenere, previa istanza di riesame del sequestro preventivo, la restituzione dei propri beni. La prima problematica che viene in rilievo nel caso di specie attiene alla possibilità di ritenere integrati gli estremi del delitto di peculato dalla condotta di Tizio, il quale riveste la qualità di soggetto pubblico (notaio). Nella giurisprudenza della Suprema Corte si osserva un indirizzo interpretativo pacifico secondo il quale il momento consumativo del delitto di peculato deve individuarsi nel comportamento appropriativo dell'agente avente a oggetto il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia il possesso per ragioni d'ufficio o di servizio. In particolare, a detta della Corte, "non v'è dubbio che la condotta appropriativa del notaio vada qualificata come peculato. La qualifica di pubblico ufficiale spetta al notaio non solo nell'esercizio del suo potere certificativo in senso stretto, ma in tutta la sua complessa attività , disciplinata da norme di diritto pubblico (legge notarile) e diretta alla formazione di atti pubblici (negozi giuridici notarili)" (ex plurimis, Cass. pen., Sez. V, 11 dicembre 2009, n. 47178). Alla luce del quadro giurisprudenziale dianzi illustrato, deve quindi ritenersi la responsabilità di Tizio ex art. 314 c.p.. Ciò posto, occorre ora chiedersi se effettivamente la misura cautelare, funzionale a quella ablativa, potesse o meno avere a oggetto i beni nella disponibilità di Tizio. La questione si colloca nel contesto relativo alla definizione dello spettro operativo della confisca per equivalente disciplinata nell'art. 322 ter c.p. L'art. 322 ter, introdotto nel codice penale dalla l. 29 settembre 2000, n. 300, in occasione delle ratifiche da parte del nostro Paese di specifiche convenzioni internazionali volte a contrastare i fenomeni corruttivi, dispone al comma 1, che in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei delitti contro la Pubblica Amministrazione previsti negli articoli da 314 a 322 c.p. è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono "il profitto o il prezzo" salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando questa non sia possibile, la confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità , per un valore corrispondente a tale "prezzo" (c.d. confisca per equivalente). Nei termini chiariti dall'autorevole insegnamento delle Sezioni unite della Suprema Corte, la ratio dell'istituto della confisca per equivalente risiede nella scelta di privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall'attività criminosa, anche di fronte all'impossibilità di aggredire l'oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale misura che assume a tutti gli effetti i tratti distintivi di una vera e propria sanzione (Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008 - 2 luglio 2008, n. 26654). Stando alla formulazione letterale della disposizione (art. 322 ter, comma 1, c.p.), come rilevato dalla costante e più recente giurisprudenza di legittimità , la confisca per equivalente non è applicabile in relazione al profitto del delitto di peculato (art. 314 c.p.), dovendo ritenersi limitata al solo tantundem del prezzo del reato (Cass. pen., Sez. VI, 5 novembre 2008 - 7 aprile 2009, n. 14966; Cass. pen., Sez. VI, 10 marzo 2009, n. 10679). Depongono a favore di questa soluzione argomenti di diversa natura. In prospettiva sistematica, si esclude che il legislatore abbia utilizzato nell'art. 322 ter c.p. il termine prezzo in senso atecnico, così da comprendere qualsiasi utilità connessa al reato, derogando alla disciplina generale stabilità nell'art. 240 c.p., ove le nozioni di prezzo e profitto sono nettamente distinte. Da un punto di vista esegetico, poi, sembra chiara la volontà del legislatore di escludere, salvo le ipotesi del comma 2 dell'art. 322 ter c.p., il profitto del reato dalla confisca per equivalente. In senso contrario si registra un isolato orientamento che aderisce a una interpretazione estensiva secondo la quale, riguardo al delitto di peculato, sono assoggettabili a confisca, ai sensi dell'art. 322 ter c.p., comma 1, beni nella disponibilità dell'imputato per un valore corrispondente a quello relativo al profittto o al prezzo del reato (Cass. pen., Sez. VI, 29 marzo 2006 - 17 luglio 2006, n. 24633). A dirimere l'illustrato contrasto giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni unite della Suprema Corte. La Corte ha precisato che, in difetto di una nozione legale di profitto del reato, può accogliersi la ricostruzione semantica di tale concetto offerta dalla dominante giurisprudenza di legittimità secondo la quale esso deve essere identificato con il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al prodotto e al prezzo del reato. In particolare, il prodotto rappresenta ciò che materialmente deriva dall'illecito, vale a dire le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato, il prezzo, invece, deve individuarsi nel compenso dato o promesso a una determinata persona, a titolo di corrispettivo dell'esecuzione dell'illecito (ex plurimis, Cass. pen., S.U., 3 luglio 1996 - 17 ottobre 1996, n. 9149). Le Sezioni unite, pertanto, alla luce della netta distinzione fra le nozioni di prezzo e profitto del reato, unitamente alla mancanza di una chiara indicazione legislativa che attribuisca a tali termini un significato diverso da quello comunemente assegnato dalla giurisprudenza di legittimità , ritengono che non sussista alcun elemento idoneo a far ritenere che il legislatore, nella formulazione dell'art. 322 ter, comma 1�°, c.p., abbia usato il termine prezzo in senso atecnico, così da includere qualsiasi utilità connessa al reato sicchè, con riferimento al delitto di peculato può disporsi la confisca per equivalente prevista dall'art. 322 ter, comma 1, ultima parte c.p., soltanto del prezzo e non anche del profitto (Cass. pen., S.U., 25 giugno 2009 - 6 ottobre 2010, n. 38691). Stando così le cose, Tizio potrà avanzare istanza di riesame del sequestro preventivo per la restituzione dei propri beni. | |
Da: boh.... | 12/12/2012 15:16:00 |
si infatti....però sec me è necessario soffermarsi sulla natura di pena e non di misura di sicurezza della confisca, nello specifico quella per equivalente, altrimenti non può invocarsi il principio del divieto di retroazione sfavorevole. In effetti sono stati poprio pessimi..... | |
Da: caludiacali | 12/12/2012 15:16:21 |
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Da: bannate gli idioti | 12/12/2012 15:16:30 |
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Da: bannate gli idioti | 12/12/2012 15:19:09 |
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Da: common law | 12/12/2012 15:19:42 |
Signori!... la confisca per equivalente è regolata dall'art. 322ter c.p.... dovete valutare l'applicabilità di questa norma! | |
Da: caludiacali | 12/12/2012 15:19:53 |
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Da: patty penalista | 12/12/2012 15:20:05 |
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Da: Ulde 84 | 12/12/2012 15:20:42 |
Grazie DDDDDD. per chi ha bisogno:Leggete solo ddddddd. Poche cose ma giuste. | |
Da: bannate gli idioti | 12/12/2012 15:20:49 |
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Da: caludiacali | 12/12/2012 15:22:09 |
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Da: Dux | 12/12/2012 15:23:28 |
Ragazzi, scusate, ma per quello che leggo devo dire cha a molti servirebbe un ripasso sul 322-ter con relativo approfondimento dei concetti di prodotto prezzo e profitto ex art. 240. la sspl, 3 anni d pratica penale e la mia recente abilitazione, mi portano a pensare qst...ho dato un aiuto e spero sia servito in bocca al lupo ai candidati! | |
Da: fratellofuori | 12/12/2012 15:23:30 |
mi potreste dire a che ora finiscono a Roma? | |
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