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12 dicembre 2012 - Parere Penale
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Da: wizipy 12/12/2012 13:33:45
traccia pedopornografia? nessuno l'ha ancora svolta?

Da: Legal7512/12/2012 13:34:09
Postatei pareri completi

Da: Dux12/12/2012 13:34:18
Pandorina le norme in esame sn 2 314 e 322 ter....l'art. 2 va osservato sulla seconda...e qui mi fermo...penso di essere stato abbastanza chiaro...

Da: Avvocato 198012/12/2012 13:34:20
Nell'ambito delle misure di sicurezza assume un ruolo peculiare la figura della confisca, la cui disciplina generale è contenuta nell'art. 240 c.p. Attraverso detta misura ablatoria vengono acquisiti dallo Stato beni che per la loro intrinseca natura ovvero per un collegamento funzionale con un illecito penale devono considerarsi criminosi.

Per quanto attiene ai presupposti applicativi della confisca occorre precisare che questa, a differenza della altre misure di sicurezza, prescinde dall'accertamento della pericolosità sociale del reo, essendo sufficiente la commissione di un reato o di un quasi reato.

In linea generale, essa è di applicazione facoltativa (art. 240, comma 1, c.p.) ovvero obbligatoria (art. 240, comma 2, c.p.)

Attraverso la l. 29 settembre 2000, n. 300, che ha inciso sul titolo dedicato ai delitti contro la Pubblica Amministrazione, la confisca obbligatoria è stata estesa, grazie alle previsioni contenute nell'art. 322 ter c.p.. ad alcune fattispecie ivi previste e, inoltre, è stato inserito l'istituto della confisca per equivalente, già contemplato dal nostro ordinamento in materia di usura (l.  7 marzo 1996, n. 108).

Il tratto che connota tale figura giuridica consiste nella possibilità, per l'autorità giudiziaria, di procedere, qualora manchino i beni che si identificano con il profitto e il prezzo del reato, all'ablazione di beni diversi per un valore equivalente al prezzo del reato (art. 322 ter, comma 1) ovvero al profitto del medesimo (art. 322 ter, comma 2, c.p.).

Fin dall'introduzione dell'istituto della confisca si è aperto un dibattitto relativo alla natura giuridica di tale sanzione penale. Precisamente, ci si è chiesti se, conformemente all'intitolato legale, debba considerarsi una misura di sicurezza ovvero assuma i tratti di una vera e propria pena.

La distinzione è di non poco momento, atteso che, ai sensi dell'art. 200 c.p., si applica alle misure di sicurezza un divieto di retroattività temperato, in forza del quale può trovare applicazione la legge in vigore al tempo dell'esecuzione della misura di sicurezza, ancorchè sia diversa da quella prevista al tempo del reato comesso, mentre per le pene vale il principio di irretroattività sancito nell'art. 2, comma 1, c.p., il quale ammette deroghe soltanto a favore del reo. Secondo la tesi tradizionale, la ratio di tale opzione normativa riposa sulla diverse funzioni perseguite dalla pena e della misura di sicurezza. Nel primo caso prevalgono esigenze di prevenzione generale, nel secondo caso, invece, è valorizzato il contenuto terapeutico della misura sanzionatoria, sicchè trova giustificazione l'applicazione di uno strumento più moderno, sebbene diverso da quello previsto al tempo della perfezione dell'illecito. Resta inteso che, per non svuotare di contenuto le garanzie del reo, è necessario che la previsione di una misura di sicurezza applicabile per il fatto realizzato già sussista al momento della commissione di questo. 

Proprio in materia di confisca per equivalente, le indicazioni provenienti dalla l. 29 settembre 2000, n. 300 orientano a ritenere che la confisca abbia una natura giuridica assimilabile a quella della pena. L'art. 15 (Norma transitoria), preclude infatti l'applicazione retroattiva della confisca per equivalente.

Detto rilievo, già condiviso dalla giurisprudenza delle Sezioni unite in materia di responsabilità degli enti dipendente da reato (Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008 - 2 luglio 2008, n. 26654), è stato recentemente confermato dalla Corte costituzionale (Corte cost., 2 aprile 2009, n. 97) la quale, recependo l'approccio sostanzialistico in materia penale, tipico della giurisprudenza della Corte della Europea dei Diritti dell'Uomo, ha riconosciuto nella confisca per equilavente i tratti dell'afflittività, tipici della pena. Poste queste premesse, la Consulta ha statuito che un'applicazione retroattiva dell'istituto di cui all'art. 322 ter c.p. violerebbe l'art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, a tenore del quale nessuno può essere punito con un pena più grave di quella prevista al momento in cui è stato commesso il fatto e, conseguentemente, contrasterebbe con l'art. 117, comma 1, Cost. che impone al legislatore italiano di esercitare la potestà legislativa rispettando i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Nel caso di specie, accedendo all'ultimo indirizzo delle Sezioni unite, Tizio potrà ottenere, previa istanza di riesame del sequestro preventivo, la restituzione dei propri beni.

La prima problematica che viene in rilievo nel caso di specie attiene alla possibilità di ritenere integrati gli estremi del delitto di peculato dalla condotta di Tizio, il quale riveste la qualità di pubblico ufficiale.

L'art. 314 c.p. prevede espressamente che "Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita".
Nella giurisprudenza della Suprema Corte si osserva un indirizzo interpretativo pacifico secondo il quale il momento consumativo del delitto di peculato deve individuarsi nel comportamento appropriativo dell'agente avente a oggetto il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia il possesso per ragioni d'ufficio o di servizio. In particolare, peraltro, a detta della Corte, l'interesse all'integrità patrimoniale della Pubblica Amministrazione viene leso dal comportamento incompatibile con il titolo per il quale si possiede il bene pubblico (ex plurimis, Cass. pen., Sez. VI, 3 novembre 2003 - 20 gennaio 2004, n. 1256) indipendentemente, quindi, dalla mancanza di danno patrimoniale conseguente all'appropriazione. In tale ipotesi, difatti, la condotta dell'agente lede l'altro interesse tutelato dalla disposizione, vale a dire il buon andamento, la legalità e l'imparzialità dell'amministrazione (Cass. pen., Sez. VI, 4 ottobre 2004 - 31 gennaio 2005, n. 2963).

A ciò si aggiunga che, secondo l'opinione della Suprema Corte "Non v'è dubbio che la condotta appropriativa del notaio vada qualificata come peculato. La qualifica di pubblico ufficiale spetta al notaio non solo nell'esercizio del suo potere certificativo in senso stretto, ma in tutta la sua complessa attività, disciplinata da norme di diritto pubblico (legge notarile) e diretta alla formazione di atti pubblici! (Cass. Pen. SEZ. V, 11 dicembre 2009, n. 47178)
Tornando al caso di specie, la circostanza che il notaio sia responsabile d'imposta ed assuma come tale la veste di coobbligato solidale, che la legge affianca al soggetto passivo d'imposta, al fine di agevolare la riscossione dei tributi, non vale certo ad escludere la qualifica pubblicistica che gli compete.

Configurandosi pertanto l'ipotesi di reato prevista dall'art. 314 c.p.c., Tizio  potrà essere  "punito con la reclusione da quattro a dieci anni" (art. 314 c.p. così come modificato dalla, L. 6 novembre 2012, n. 190.).

Occorre ora chiedersi se effettivamente la misura cautelare, funzionale a quella ablativa, possa o meno avere a oggetto i beni nella disponibilità di Tizio.

La questione si colloca nel contesto relativo alla definizione dello spettro operativo della confisca per equivalente disciplinata nell'art. 322 ter c.p.

L'art. 322 ter, introdotto nel codice penale dalla l. 29 settembre 2000, n. 300, in occasione delle ratifiche da parte del nostro Paese di specifiche convenzioni internazionali volte a contrastare i fenomeni corruttivi, dispone al comma 1, che in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei delitti contro la Pubblica Amministrazione previsti negli articoli da 314 a 322 c.p. è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono "il profitto o il prezzo" salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando questa non sia possibile, la confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale "prezzo" (c.d. confisca per equivalente). Nei termini chiariti dall'autorevole insegnamento delle Sezioni unite della Suprema Corte, la ratio dell'istituto della confisca per equivalente risiede nella scelta di privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall'attività criminosa, anche di fronte all'impossibilità di aggredire l'oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale misura che assume a tutti gli effetti i tratti distintivi di una vera e propria sanzione (Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008 - 2 luglio 2008, n. 26654).

Stando alla formulazione letterale della disposizione (art. 322 ter, comma 1, c.p.), come rilevato dalla costante e più recente giurisprudenza di legittimità, la confisca per equivalente non è applicabile in relazione al profitto del delitto di peculato (art. 314 c.p.), dovendo ritenersi limitata al solo tantundem del prezzo del reato (Cass. pen., Sez. VI, 5 novembre 2008 - 7 aprile 2009, n. 14966; Cass. pen., Sez. VI, 10 marzo 2009, n. 10679).

Depongono a favore di questa soluzione argomenti di diversa natura.

In prospettiva sistematica, si esclude che il legislatore abbia utilizzato nell'art. 322 ter c.p. il termine prezzo in senso atecnico, così da comprendere qualsiasi utilità connessa al reato, derogando alla disciplina generale stabilità nell'art. 240 c.p., ove le nozioni di prezzo e profitto sono nettamente distinte.

Da un punto di vista esegetico, poi, sembra chiara la volontà del legislatore di escludere, salvo le ipotesi del comma 2 dell'art. 322 ter c.p., il profitto del reato dalla confisca per equivalente.

In senso contrario si registra un isolato orientamento che aderisce a una interpretazione estensiva secondo la quale, riguardo al delitto di peculato, sono assoggettabili a confisca, ai sensi dell'art. 322 ter c.p., comma 1, beni nella disponibilità dell'imputato per un valore corrispondente a quello relativo al profitto o al prezzo del reato (Cass. pen., Sez. VI, 29 marzo 2006 - 17 luglio 2006, n. 24633).

Di recente, a dirimere l'illustrato contrasto giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni unite della Suprema Corte. La Corte ha precisato che, in difetto di una nozione legale di profitto del reato, può accogliersi la ricostruzione semantica di tale concetto offerta dalla dominante giurisprudenza di legittimità secondo la quale esso deve essere identificato con il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al prodotto e al prezzo del reato. In particolare, il prodotto rappresenta ciò che materialmente deriva dall'illecito, vale a dire le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato, il prezzo, invece, deve individuarsi nel compenso dato o promesso a una determinata persona, a titolo di corrispettivo dell'esecuzione dell'illecito (ex plurimis, Cass. pen., S.U., 3 luglio 1996 - 17 ottobre 1996, n. 9149).
Le Sezioni unite, pertanto, alla luce della netta distinzione fra le nozioni di prezzo e profitto del reato, unitamente alla mancanza di una chiara indicazione legislativa che attribuisca a tali termini un significato diverso da quello comunemente assegnato dalla giurisprudenza di legittimità, ritengono che non sussista alcun elemento idoneo a far ritenere che il legislatore, nella formulazione dell'art. 322 ter, comma 1 c.p., abbia usato il termine prezzo in senso atecnico, così da includere qualsiasi utilità connessa al reato sicchè, con riferimento al delitto di peculato può disporsi la confisca per equivalente prevista dall'art. 322 ter, comma 1, ultima parte c.p., soltanto del prezzo e non anche del profitto (Cass. pen., S.U., 25 giugno 2009 - 6 ottobre 2010, n. 38691).

Premesso quanto sopra deve tuttavia essere rilevato, la L. 6 novembre 2012, n. 190 ha parzialmente modificato il citato articolo 322-ter, primo comma: dopo le parole: «a tale prezzo» sono difatti state aggiunte aggiunte le seguenti: «o profitto». A seguito dell'intervento del Legislatore, non v'è pertanto dubbio che, per quanto concerne la misura di sicurezza della confisca per i delitti con­tenuti nel titolo II del Libro I del codice penale, ai sensi del novellato art. 322-ter c.p., in caso di condanna, è possibile disporre l'ablazione per equivalente non solo del prezzo del reato (cioè del corrispettivo per l'acquisto dell'utilità) ma anche del suo profitto, estendendo quindi la ritenzione a beni il cui valo­re corrisponde all'utilità economica immediatamente derivante dall'avvenuto compimento del fatto illecito.

A ciò si aggiunga che,  come affermato dalla Corte di cassazione in numerose pronunce - la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all'assenza di un "rapporto di pertinenzialità" (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni, conferiscono all'indicata confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura "eminentemente sanzionatoria", che impedisce l'applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell'articolo 200 del codice penale, secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, e possono essere, quindi, retroattive (ex multis, Cassazione penale, sentenze 39173, 39172 e 21566 del 2008). A tale conclusione si giunge sulla base della duplice considerazione che il secondo comma dell'articolo 25 della Costituzione vieta l'applicazione retroattiva di una sanzione penale, come deve qualificarsi la confisca per equivalente, e che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto in contrasto con i princípi sanciti dall'articolo 7 della Convenzione l'applicazione retroattiva di una confisca di beni riconducibile proprio a un'ipotesi di confisca per equivalente (Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 307A/1995, Welch v. Regno unito).

Stando così le cose, si ritiene che, nel caso di specie,

1.      laddove il reato sia stato commesso prima l'entrata in vigore della L. 6 novembre 2012, n. 190, Tizio potrà ottenere, previa istanza di riesame del sequestro preventivo, la restituzione dei propri beni;
2.      laddove il reato sia stato commesso dopo l'entrata in vigore della L. 6 novembre 2012, n. 190, i beni di tizio potranno essere validamente confiscati.

Da: The Special12/12/2012 13:36:24
Ho letto bene la traccia e gli articoli di riferimento. Premetto che non ho sotto mano un codice commentato e quindi non so gli orientamenti giurisprudenziali, tuttavia dalla lettura della traccia mi pare chiaro che sia un 600 quater.
La condotta di Tizio non è una divulgazione che attiene più che altro ad un invio generico a soggetti indeterminati, ma un invio determinato. Per me è un 600 quater.

Parere facilissimo

Da: dddddddddddd12/12/2012 13:36:37
È manifestamente infondata della q.l.c. degli art. 200, 322 ter c.p. e 1, comma 143, l. 24 dicembre 2007 n. 244, censurati, in riferimento all'art. 117, comma 1, cost., nella parte in cui prevedono la confisca obbligatoria cosiddetta "per equivalente" di beni di cui il reo abbia la disponibilità, per i reati tributari commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge. La questione è sollevata sulla base di un presupposto interpretativo - quello che la confisca in questione, dovendosi formalmente qualificare come misura di sicurezza e non come pena, deve essere retroattivamente applicata anche a reati commessi nel tempo in cui non era legislativamente prevista ovvero risultava diversamente disciplinata quanto a tipo, qualità e durata - erroneo, in quanto nella giurisprudenza di legittimità, sulla base della duplice considerazione che il comma 2 dell'art. 25 cost. vieta l'applicazione retroattiva di una sanzione penale e che la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto in contrasto con i princìpi sanciti dall'art. 7 della convenzione l'applicazione retroattiva di una confisca di beni riconducibile proprio ad un'ipotesi di confisca per equivalente, si è affermato che la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all'assenza di un "rapporto di pertinenzialità" tra il reato e detti beni, conferiscono all'indicata confisca una natura "eminentemente sanzionatoria", che impedisce l'applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell'art. 200 c.p., secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, e possono essere, quindi, retroattive.

Corte Costituzionale, 02/04/2009, n. 97

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Da: donnajuris12/12/2012 13:37:15
PER LA PEDOPORNOGRAFIA
PER AAASW
NULLA TI DICE L'AGENTE PROVOCATORE.... gli elementi prova sono inutilizzabili TUTTAVIA TIZIO PUR ESSENDO ASTRATTAMENTE CONFIGURABILE IL REATO DI CUI AL 4 COMMA DEL 600 TER TUTTAVIA ED IN CONCRETO NON POTRA' ESSERE CONDANNATO PER L'INUTILIZZABILITA' DELLE PROVE ACQUISITE ED INVERO

gli elementi di prova, infatti, sono stati acquisiti attraverso una attività di contrasto espletata ai sensi dell'articolo 14 legge 269/98, il quale però limita la liceità di una tale attività solo al fine di contrastare i delitti di cui agli articoli 600bis, primo comma, 600ter, commi primo, secondo e terzo, e 600quinquies Cp. Ne consegue che,, la suddetta attività di contrasto - quand'anche fossero sussistenti tutti gli altri presupposti richiesti dalla legge per la sua legittimità -  non poteva in nessun modo essere diretta a scoprire comportamenti di quei soggetti che si limitavano esclusivamente a procurarsi o a detenere materiale pedopornografico così come non poteva essere assolutamente utilizzata per scoprire i comportamenti di quei soggetti che si limitavano, anche consapevolmente, a cedere ad altri, anche a titolo gratuito materiale pedopornografico (articolo 600ter, comma quarto, Cp), ossia si limitavano ad una singola cessione di immagini o di filmati pedopornografici, dovendo invece essere diretta esclusivamente alla scoperta dei comportamenti consistenti nella "distribuzione" o "divulgazione" o "pubblicizzazione" ad un numero indeterminato di persone del detto materiale (ovvero a scoprire i comportamenti integranti un altro dei reati espressamente indicati dalla disposizione in esame). Poiché pertanto gli elementi di prova a carico di TIZIO per il reato di cui all'articolo 600quater Cp, sono stati acquisiti mediante un'attività che, avendo oltrepassato i limiti rigorosamente fissati dal suddetto articolo 14, è da considerarsi non solo irregolare o illegittima, ma addirittura illecita (in quanto l'attività dell'agente provocatore, di per se illecita, non trova più giustificazione e fondamento in una norma di legge).

e l'inutilizzabilità si estende acnhe al sequestro ai fini della configurabilità del 600 quater

Da: donnajuris12/12/2012 13:39:04
per la traccia notaio
il sequestro è illegittimo la modifica non si applica

Da: aaasw12/12/2012 13:39:17
io ho fatto il parere sulla pedopornografia per me è il più semplice!!!la conclusione è Tizio sarà imputabile per detenzione di materiale pedopornografico ai sensi dell'art. 600 quater c.p., ma non per divulgazione ex art. 600 ter comma 3 c.p. atteso che lo scambio del materiale illecito è avvenuto in una conversazione privata tra Tizio e Caio e tra Tizio e l'agente di polizia.
Tuttalpiù, potrà ravvisarsi, nella condotta di Tizio, il reato previsto dall'art. 600 ter comma 4 c.p., in quanto quest'ultimo provvedeva ad inviare le immagini incriminate attraverso la posta elettronica a privati destinatari e non pubblicandole su siti web accessibili ad utenti indeterminabili. Tale reato andrebbe ad assorbire il reato ex art. 600 quater c.p. e conseguentemente eliminare il concorso tra le due condotte criminose.

Da: fffffff12/12/2012 13:39:18
Ragazzi la pubblicate una possibile soluzione della seconda traccia sulla pedopornografia ?

Da: uniti!!!12/12/2012 13:39:32
ma se la L. 190/2012  è entrata in vigore da poco...
come fanno i candidati ad averla?
?
?
cosa ne pensate??'

Da: petrosino81  -banned!-12/12/2012 13:39:55
credo che la migliore conclusione sia senza parlare di irretroattività di leggi che si può aggrappare Tizio, in base alle recenti modifiche ...............................O MI SBAGLIO???

Da: uniti!!!12/12/2012 13:41:33
sarei dacordo con te petrosino...
anche perchè i candidati non posso avere una legge di poche settimane fa e perchè le traccie di sicuro sono state scritte prima
COSA NE PENSATE?

Da: afafafaffafaffafafa12/12/2012 13:41:59

- Messaggio eliminato -

Da: il barone12/12/2012 13:47:14
Credo che lo svolgimento delle tracce odierne sia decisamente semplice e consenta una maggiore chiarezza nella formulazione del parere, a prescindere dalla conoscenza approfondita o meno delle materie in esame, per chi ha acquisito una adeguata tecnica espositiva.
Avere la necessità di ricorrere a scopiazzature o a disperati aiuti da casa mi lascia alquanto perplesso sulla reale competenza dei candidati che ricorrono a questi espedienti e sulle loro capacità di analisi delle questioni prettamente giuridiche.
Probabilmente una eventuale bocciatura non è sempre sinonimo di "nefandezze" del sistema ma semplicemente il sintomo che il candidato ancora non è pronto a svolgere la professione di avvocato. L'acquisizione di una valida tecnica di redazione di un parere, cosa che quotidianamente si sarà portati a svolgere durante l'esercizio della professione, a volte, può richiedere un tempo maggiore dei due anni canonici di pratica o forse la necessità di modificare i propri metodi di apprendimento se non addirittura la necessità di frequentare altro studio e altro dominus, un buon avvocato non sempre è anche un buon insegnante.
In conclusione, a mio avviso, scrivere sulla base di un ragionamento proprio e delle capacità logico-sintetiche possedute è decisamente più proficuo rispetto alla semplicistica scopiazzatura di pareri altrui scovati nei meandri della rete e facilmente individuabili da parte di chi sarà chiamato a correggere l'elaborato, google lo sa usare il candidato ma anche l'esaminatore.
Detto questo, un in bocca al lupo a chi se lo merita veramente, perchè il duro lavoro alla fine ripaga sempre. Gli avvocati "posticci" non avranno mai una lunga e proficua carriera.

IL BARONE

Da: Aiuto!12/12/2012 13:48:58
Ma niente niente sulla traccia pedopornografia?

Da: Reby 25 12/12/2012 13:49:05
MA TUTTI GLI AVVOCATI DI STAMATTINA DOVE SONO?HANNO PRESO SOLTANTO LE TRACCE E VIA...AVEVANO DETTO DI VOLER AIUTARE TUTTI...MAH...

Da: avvocatoinvocato12/12/2012 13:49:51
Appunto, la modifica sul codice non c'è e non potrebbe esserci:è di poche settimane fa!!

Da: petrosino81  -banned!-12/12/2012 13:51:02
NON è COSI......LA MODIFICA DEL 2012 HA FATTO VCADERE LA DISTINZIONE,.............C'è CONFISCA

Da: bravissimo12/12/2012 13:51:05
quoto.

ma tanto è inutile fare sangue amaro. parenti e amici si aiutano. non si ha nulla da perdere.
se non sono bravi perchè non hanno studiato o perchè hanno avuto un pessimo dominus, verranno bocciati ugualmente. e se non è allo scritto, sarà all'orale.

il sistema non è malfunzionante al 100%.

Da: dddddddddddd12/12/2012 13:53:05
Scusate, ma mi sa tanto che la fretta ci sta facendo andare "fuori tema": allora, la modifica legislativa dell'art.322 ter non c'entra nulla con il caso in esame, dato che gli appartamenti non sono in ogni caso (leggete la traccia) il "profitto" del reato (non si dice da nessuna parte che gli appartamenti siano stati acquistati con i soldi trattenuti.
A mio avviso la norma da tenere in considerazione è il terzo comma dell'art.322 ter: "Nei casi di cui ai commi primo e secondo, il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato"
Quindi è sbagliato parlare di "Profitto", occorre soltanto vedere se vi sia corrispondenza o meno tra il valore degli immobili e quello delle somme indebitamente trattenute

Da: wizipy 12/12/2012 13:53:13
x favore, niente sulla traccia pedopornografia?

Da: presepe12/12/2012 13:53:56
anche se io l'ho passato lo scorso anno al quinto tentativo sono qui ad aiutare chi sta dentro e spero davvero che questo imbecille che pubblica gli articoli sugli animali, suoi simili, passi il prossimo natale in un letto di ospedale mentre tutti i dottori sono a fare la settimana bianca...

Da: giiiii12/12/2012 13:54:04
E vero forse ha ragione dddddddd

Da: commissione esaminatrice12/12/2012 13:54:08

- Messaggio eliminato -

Da: francesco/francesca12/12/2012 13:55:07

- Messaggio eliminato -

Da: Traccia notaio - sent intera12/12/2012 13:55:47
FATTO E DIRITTO
Il G.I.P. del Tribunale di Roma, in data 20 maggio 2008, emetteva decreto di sequestro preventivo, ai sensi dell'art. 321 c.p.p., comma 2, in relazione all'art. 322 ter c.p., di beni intestati o nella disponibilità di C.L., sino alla concorrenza dell'importo di Euro 4.844.456,03, quale equivalente del profitto che si assumeva dallo stesso realizzato per effetto di condotte illecite, in danno dell'Inpdap, riconducibili alle previsioni degli artt. 81 cpv. e 314 c.p..
Il sequestro aveva ad oggetto beni diversi (saldo di conto corrente, automobile e quote societarie).
L'adozione di detto provvedimento si connetteva alle indagini esperite dalla Procura della Repubblica di Roma, per il delitto di peculato continuato - configurato a carico del C. e di tale M.F.G. (il primo quale legale rappresentante della "Ge.Fi Fiduciaria Romana" s.p.a. e presidente della società consortile (Ge.Fi. - Ciemme) costituita con la "Nuova Ciemme" s.p.a.;
il secondo quale amministratore delegato della "Nuova Ciemme" s,p.a.
e della società consortile, concessionaria - nel periodo 2002 - 2004 - della gestione di alcuni lotti del patrimonio immobiliare dell'Inpdap), perchè, in violazione dell'art. 26 della Convenzione di gestione (che vietata alla società concessionaria di aprire conti correnti presso istituti diversi da quelli che effettuavano servizio di cassa per l'ente), avevano fatto transitare i flussi finanziari relativi alla commessa Inpdap (canora di locazione e oneri accessori riscossi dagli inquilini) in un conto corrente bancario, non noto all'ente e quindi fuori da ogni possibilità di controllo, per poi farli confluire anche per la parte di spettanza dell'ente (segnatamente, per l'importo di Euro 4.420.879,71) su altro conto corrente riconducibile ai predetti.
Al solo C. veniva altresì contestato di essersi appropriato di fondi depositati presso un conto corrente bancario utilizzato per la gestione di immobili dell'Inpdap per il periodo 1996 - 2002, nonostante la cessazione della convenzione di gestione, auto- liquidando fatture a favore della società concessionaria per un controvalore di 423.576,32 Euro, eludendo così la procedura di controllo e pagamento di competenza dell'ente pubblico.
Sull'istanza di riesame presentata nell'interesse del C., il Tribunale di Roma confermava il provvedimento di sequestro con ordinanza dell'8 luglio 2008.
D Tribunale, in particolare, riteneva configurabile la qualità di incaricato di pubblico servizio in capo al C., argomentando che la gestione del patrimonio immobiliare dell'Inpdap doveva essere considerata attività strettamente funzionale alle finalità pubbliche dell'ente, principali e non meramente accessorie, di erogazione di prestazioni in danaro ai suoi assistiti.
Ravvisava inoltre nei fatti fumus del delitto di peculato contestato, sulla base di "palesi ed inequivoci" elementi di fatto desumibili dalla dettagliata informativa di p.g. e dalle dichiarazioni di un coindagato, assunte ai sensi dell'art. 392 c.p.p., non emergendo al contrario, dalle prospettazioni difensive, l'immediato rilievo della insussistenza del fumus stesso, anche in relazione all'elemento soggettivo del reato.
Secondo il Collegio, le dichiarazioni rilasciate dal C. alla polizia giudiziaria dimostrerebbero che costui intese attuare, trattenendo la somma di oltre 4 milioni di Euro, una sorta di compensazione di crediti e debiti tra la società di gestione e l'Inpdap non prevista dalla convenzione di gestione e comunque tutta da verificare. L'utilizzazione di un conto corrente presso una banca di conoscenza dell'indagato (conto Master) ed in una zona geografica nella quale costui aveva propri interessi, aggirando così i controlli da parte dell'Inpdap, ignara della situazione, paleserebbe l'interesse personale perseguito dall'indagato.
In riferimento alla contestazione di appropriazione indebita, il Tribunale rilevava che lo stesso C. aveva addotto di aver agito, nonostante la cessazione della convenzione, in una prospettiva di continuità di gestione - quanto alla mancata chiusura del conto corrente bancario dedicato alla conduzione della commessa - ed aveva ammesso la possibilità di errori e duplicazioni nel pagamento delle fatture, non smentendo pertanto i rilevi accusatori.
In ordine all'oggetto del sequestro, la difesa aveva eccepito l'inapplicabilità - in caso di peculato - del sequestro per equivalente del "profitto" del reato, finalizzato alla confisca, di cui all'art. 322 ter c.p., comma 1, sull'essenziale rilievo che la formulazione letterale della norma considera come termine di raffronto il solo "prezzo" del reato.
Il Tribunale, invece, respingeva tale eccezione, richiamando la giurisprudenza di legittimità formatasi in tema di confisca ex art. 640 quater c.p., e sostenendo che non vi era ragione per non estenderla anche al profitto del reato di peculato, ove si consideri il richiamo nell'art. 322 ter c.p., comma 1, al peculato e al "profitto".
Circa l'entità del sequestro, il Collegio affermava che non spettano al tribunale del riesame "adempimenti estimatori", rimessi invece alla fase della confisca.
In relazione, infine, alla lamentata carenza di un accertamento preliminare riferito alla verifica di una possibile confiscabilità "diretta" di beni costituenti il prezzo o il profitto del reato, il Tribunale richiamava un recente orientamento di questa Corte Suprema (Sez. 6^, n. 31692/2007) secondo il quale - qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali, ai sensi dell'art. 322 ter c.p., è prevista la confisca per equivalente, sia costituito da denaro - l'adozione del sequestro preventivo in vista dell'applicazione di detta misura non può essere subordinata alla verifica che il denaro sia confluito nella effettiva disponibilità dell'indagato giacchè, altrimenti, si verrebbe a ristabilire la necessità di un nesso pertinenziale tra la "res" ed il reato, che la legge, con l'introduzione della confisca "per equivalente", ha escluso.
Avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame ha proposto ricorso per cassazione il difensore del C., articolando tre doglianze con le quali lamenta:
a) Inosservanza o erronea applicazione della legge penale per l'impossibilità di ricondurre, anche solo in astratto, il fatto contestato alla fattispecie di peculato.
Secondo la prospettazione difensiva, tale delitto non sarebbe configurabile, nella specie, in quanto la somma che si assume essere oggetto di peculato non sarebbe mai entrata nella disponibilità della società concessionaria, a causa di una considerevole morosità degli inquilini degli immobili gestiti. L'appropriazione di denaro sarebbe stata desunta dall'accusa solo da una mera posta contabile del rendiconto redatto all'atto della conclusione del rapporto tra l'Inpdap ed il gestore, che però non indicherebbe alcuna somma effettivamente esistente e disponibile.
La somma di oltre 4 milioni di Euro rappresenterebbe, quindi, soltanto un credito dell'ente, liquidabile esclusivamente qualora la società concessionaria avesse incassato la somma di circa sette milioni di Euro complessivamente dovuta dagli inquilini.
In conclusione, una corretta lettura del documento contabile redatto dall'indagato avrebbe impedito ictu oculi di configurare il reato di peculato.
b) Contrarietà del ragionamento giustificativo della decisione rispetto alle risultanze di atti processuali specificatamente indicati.
Si assume, in proposito, che il Tribunale del riesame avrebbe travisato, nella valutazione del fumus commissi delicti, la prova documentale ritualmente prodotta dall'indagato. Da tale documentazione emergerebbe appunto che, a fronte del credito dell'Inpdap, l'importo di 4.420.879,71 Euro non costituisce una somma entrata nella disponibilità effettiva del gestore, a causa della mancata riscossione dei canoni locatizi.
Viene richiamato, a sostegno della formulazione di detta doglianza, il principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di sequestro probatorio, secondo cui integra il vizio di cui al novellato art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) la contraddittorietà del ragionamento giustificativo della decisione rispetto alle risultanze di cui agli atti del processo specificamente indicati dal ricorrente.
c) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione alla confisca per equivalente disciplinata dall'art. 322 ter c.p..
Il ricorrente lamenta, infine, la violazione dell'art. 322 ter c.p., poichè l'istituto della confisca per equivalente del "profitto" del reato, da tale norma previsto, erroneamente sarebbe stato ritenuto applicabile alla fattispecie di peculato, che non rientrerebbe, invece, tra le ipotesi delittuose per le quali detta confisca è consentita. L'art. 322 ter c.p., comma 1, consentirebbe, invero, la confisca per equivalente per il reato di peculato solo in relazione al "prezzo" del reato ed una estensione della misura al "profitto", in via interpretativa, si porrebbe in evidente contrasto con l'art. 25 Cost..
La Sesta Sezione penale di questa Corte Suprema, assegnataria del ricorso - all'udienza camerale del 6 marzo 2009 - ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618 c.p.p., (con ordinanza a 15549, depositata il 9 aprile 2009), avendo ravvisato un contrasto interpretativo in ordine all'assoggettabilità alla confisca per equivalente di beni di valore corrispondente al profitto del reato di peculato.
Il Primo Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l'odierna Camera di consiglio.
L'ultimo motivo di ricorso è fondato e merita accoglimento.
1. Va rilevata, preliminarmente, la infondatezza delle altre due doglianze, riferite alla questione della configurabilità, nella specie, del "fumus" del delitto di peculato.
Il ricorrente contesta al riguardo - come si è detto - che la somma che si assume essere oggetto di tale reato sia entrata nella disponibilità effettiva della società concessionaria, prospettando, al contrario, che essa rappresenterebbe un mero credito dell'Inpdap, liquidabile soltanto se la società concessionaria avesse incassato dagli inquilini circa sette milioni di Euro. A sostegno di tale affermazione, richiama il documento contabile prodotto agli inquirenti e lamenta che esso sarebbe stato travisato dai giudici del riesame.
Tali doglianze, però, più che riferirsi ad un controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale, ineriscono piuttosto ad una valutazione sulla fondatezza dell'ipotesi accusatoria, non ammessa in sede di procedimento incidentale riguardante l'applicazione di una misura di cautela reale.
Il Tribunale ha stabilito, sul punto, che le somme dovute all'ente furono trattenute dalla società concessionaria, anche ammettendo che tale operazione possa essere stata effettuata, come sostenuto dall'indagato, a titolo di compensazione dei debiti dell'ente medesimo.
E la giurisprudenza dominante di questa Corte Suprema individua il momento consumativo del peculato avente ad oggetto il denaro nel momento in cui l'agente si appropria di esso e, quindi, ancor prima della scadenza del rendiconto: non ha influenza l'intenzione di restituire le somme nè la restituzione del tantundem, nè la scadenza del termine per la presentazione del rendiconto, in quanto la lesione del bene giuridico si è già verificata con l'appropriazione, nè verrebbe cancellata la lesione dell'interesse relativo alla integrità patrimoniale della pubblica amministrazione (vedi Cass., Sez. 6^: 20.1.2004, n. 1256, P.G. in proc. Bosinco ed altri 2.3.1999, n. 4328, Abate; 10.6.1993, il 8009, Ferolla).
Pertanto - salvi ovviamente i casi espressamente eccettuati dalla legge - in tema di peculato si esclude il riconoscimento dell'autotutela per la realizzazione dei propri diritti, in quanto l'eventuale mancanza di danno patrimoniale conseguente all'appropriazione non esclude la sussistenza del delitto, atteso che rimane pur sempre leso dalla condotta dell'agente l'altro interesse, diverso da quello patrimoniale, protetto dalla norma, cioè quello del buon andamento, legalità e imparzialità della pubblica amministrazione (Cass., Sez. 6^: 31.1.2005, n. 2963, Aiello;
10.6.1993, n. 8009, Ferolla). In definitiva, a nulla rileva che l'agente, trattenendo le somme incassate per conto dell'ente, abbia preteso di esercitare un proprio supposto diritto ricorrendo a una sorta di autoliquidazione del proprio credito, trattandosi di comportamento non tollerabile a fronte del suddetto interesse della pubblica amministrazione.
2. Al terzo motivo di ricorso inerisce la questione controversa sottoposta all'esame di queste Sezioni Unite ed essa consiste nello stabilire "se, in riferimento al delitto di peculato, possa disporsi la confisca per equivalente, prevista dall'art. 322 ter c.p., comma 1, ultima parte, non solo del prezzo ma anche del profitto del reato".
2.1 L'art. 322 ter c.p. - introdotto dalla L. 29 settembre 2000, n. 300, in occasione della ratifica di specifiche convenzioni internazionali rivolte a contrastare i fenomeni corruttivi - prevede:
- al comma 1: che, in caso di condanna o di applicazione di pena "patteggiata" per i più gravi delitti contro la pubblica amministrazione (quelli previsti dagli artt. da 314 a 320 c.p.), anche se commessi dai soggetti indicati nell'art. 322 bis c.p., comma 1, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono "il profitto o il prezzo", salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando questa non sia possibile, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale "prezzo" (c.d. confisca per equivalente);
- al comma 2: che, in caso di condanna per il delitto di corruzione attiva (art. 321 c.p.), è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono "il profitto", salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando questa non sia possibile, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio o agli altri soggetti indicati nell'art. 322 c.p., comma 2;
- al comma 3: che il giudice, nei casi di cui ai precedenti due commi, con la sentenza di condanna determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti "il profitto o il prezzo" del reato ovvero in quanto di valore corrispondente "al profitto o al prezzo" del reato.
La previsione della "confisca per equivalente" (alla quale già si riferivano l'art. 735 bis c.p.p., introdotto dalla L. 9 agosto 1993, n. 328, e l'art. 644 c.p., in tema di usura, come riformulato dalla L. 7 marzo 1996, n. 108) - nel caso in cui i beni costituenti il profitto o il prezzo del reato non siano aggredirli per qualsiasi ragione - è rivolta a superare gli ostacoli e le difficoltà per la individuazione dei beni in cui si "incorpora" il profitto iniziale, nonchè ad ovviare ai limiti che incontra la confisca dei beni di scambio o di quelli che ne costituiscono il reimpiego.
Ciò comporta che la stessa confisca per equivalente - alla quale è funzionale il sequestro preventivo di ciò che a tale provvedimento ablativo può essere soggetto all'esito del procedimento - può riguardare (a differenza dell'ordinaria confisca prevista dall'art. 240 c.p., che può avere ad oggetto soltanto cose direttamente riferibili al reato) beni che, oltre a non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo, neppure hanno alcun collegamento diretto con il singolo reato (cfr. Cass., Sez. Unite, 22.11.2005, n. 41936, Muri).
La ratio dell'istituto è quella di privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall'attività criminosa, anche di fronte all'impossibilità di aggredire l'oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento, che assume "i tratti distintivi di una vera e propria sanzione" (vedi Cass., Sez. Unite: 2.7.2008, n. 26654, Fisia Italimpianti Spa ed altri e 15.10.2008, n. 38834, P.M. in proc. De Maio).
2.2 Nell'interpretazione dell'art. 322 ter c.p., l'indirizzo giurisprudenziale assolutamente prevalente, ancorato al dato letterale della norma, è orientato nel senso che la anzidetta previsione della confiscabilità (e quindi del prodromico sequestro) per equivalente non è applicabile in relazione al "profitto" del delitto di cui all'art. 314 c.p., dovendo ritenersi limitata, invece, al solo tantundem del "prezzo" del reato (così Cass., Sez. 6^:
11.4.2006, n. 12852, P.M. in proc. Ingravallo; 11.4.2006, n. 12853, P.M. in proc. Fornarelli; 22.5.2006, n. 17566, P.M. in proc. Tortorici; decisioni alle quali si sono adeguate, senza particolari motivazioni, Cass.: Sez. 6^: 18.5.2007, n. 19586, Pantonio;
10.3.2009, n. 10679; Marzetti; 7.4.2009, n. 14966, Marzetti).
Ciò in quanto:
- appare "insostenibile" che il legislatore, nella formulazione dell'art. 322 ter c.p., abbia usato il termine "prezzo" in senso atecnico, così da includere qualsiasi utilità connessa al reato, perchè le nozioni di "prezzo" e di "profitto" risultano nettamente distinte già nell'art. 240 c.p., e non sarebbe logico ritenere che sia voluto derogare sul punto con l'art. 322 ter c.p.;
- nell'iter parlamentare dell'approvazione della L. n. 300 del 2000, (che ha introdotto l'art. 322 ter c.p.) - mentre in una prima versione era prevista la confisca per equivalente di beni di valore corrispondente al profitto e al prezzo dei reati previsti dagli artt. da 317 a 322 bis c.p. - nella versione definitiva la confisca medesima è stata limitata, per i reati previsti dagli artt. da 314 a 322 bis c.p., all'equivalente del solo prezzo:
- risulterebbe chiara la volontà del legislatore nel senso di escludere, al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 322 ter c.p., comma 2, il profitto del reato da tale ipotesi di confisca;
- tale scelta normativa, in sè non qualificabile come irrazionale od illogica, risulterebbe esercizio della potestà discrezionale del legislatore; nè la stessa si porrebbe in contrasto con le norme pattizie internazionali, atteso che queste ultime hanno ad oggetto esclusivamente ipotesi riconducibili, nel diritto interno, alle fattispecie della corruzione e della concussione e non già a quella del peculato;
- non sarebbe dirimente il principio affermato dalle Sezioni Unite, con la sentenza 22.11.2005, n. 41936, Muci, riferita all'oggetto della confisca per equivalente prevista dall'art. 640 quater c.p., in quanto la estensione di essa anche all'equivalente del profitto si giustificherebbe in forza del rinvio disposto in tale articolo all'intero testo dell'art. 322 ter c.p., e quindi anche alla confisca prevista dal comma 2, comprensiva della confisca di valore sia del prezzo sia del profitto.
2.3 In senso contrario si pone un'unica decisione di questa Corte (Cass., Sez. 6^, 25.3.2005, n. 11902, Baldas) che, se pure in modo non diretto (perchè sulla questione non vi era ricorso dell'interessato), aderisce di fatto ad una interpretazione estensiva secondo la quale, in relazione al delitto di peculato, sono assoggettabili a confisca, in forza dell'art. 322 ter c.p., beni nella disponibilità dell'imputato per un valore corrispondente a quello relativo al profitto o al prezzo del reato (analoga pronuncia si rinviene in relazione ad un'ipotesi di confisca per equivalente di denaro rinvenuto in conti bancari nella disponibilità di soggetti indagati per concussione: Cass., Sez. 6^, 17.7.2006, n. 24633, Lucci ed altro).
3. Tra i due orientamenti giurisprudenziali dianzi illustrati ritengono queste Sezioni Unite di aderire al primo di essi, cioè all'interpretazione restrittiva, secondo la quale deve escludersi la confiscabilità per equivalente approfitto del reato di cui all'art. 314 c.p..
Tale conclusione si basa sulle seguenti considerazioni.
3.1 Le nozioni di "prezzo" e di "profitto" del reato sono nettamente distinte in relazione al trattamento fattone dall'art. 240 c.p., e devono ritenersi presupposte nella loro diversa valenza tecnica dall'art. 322 ter c.p.c. 3.2 Queste Sezioni Unite hanno già rilevato che non è rinvenibile in alcuna disposizione legislativa una definizione della nozione di "profitto dei reato" e che tale locuzione viene utilizzata in maniera meramente enunciativa nelle varie fattispecie in cui è inserita, assumendo quindi un'ampia "latitudine semantica" da colmare in via interpretativa (Sezioni Unite, 2.7.2008, n. 26654, Fisia Italimpianti Spa ed altri). In detta pronuncia (con riferimento alla confisca di valore prevista dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 19) sono state richiamate le consolidate affermazioni giurisprudenziali sulla nozione di "profitto del reato" contenuta nell'art. 240 c.p., secondo le quali: "il profitto a cui fa riferimento l'art. 240 c.p.p., comma 1, deve essere identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al "prodotto" e al "prezzo" del reato. Il prodotto è il risultato empirico dell'illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato; il prezzo va individuato nel compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell'esecuzione dell'illecito" (vedi Sez. Unite: 24.2.1993, n. 1811, Bissoli; 17.10.1996, n. 9149, Chabni Samir).
All'espressione "vantaggio economico", tuttavia, non va attribuito il significato di "utile netto" o di "reddito", bensì quello di "beneficio aggiunto di tipo patrimoniale" (cfr. Sez. Unite: 9.7.2004, n. 29951, Curatela fall., in proc. Focarelli; 9.7.2004, n. 29952, Curatela fall., in proc. Romagnoli): il termine "profitto", invero, non può essere inteso come espressione di una grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti positive e negative del reddito (cfr. Sez. Unite, 2.7.2008, n. 26654, Fisia Italimpianti Spa ed altri).
La delineata nozione di "profitto" del reato può peraltro subire un ridimensionamento quanto il reato, come nel caso in esame, non si inserisca nello scenario di un'attività totalmente illecita. In ipotesi, infatti, in cui il comportamento penalmente rilevante venga attuato nell'ambito di un'attività contrattuale e non coincida con la stipulazione del contratto in sè, ma vada ad incidere unicamente sulla fase di esecuzione del programma negoziale, è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall'agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente. Il corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall'obbligato ed accettata dalla controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas, non può costituire, pertanto, una componente del profitto da reato, perchè trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale (vedi Cass.: Sez. Unite, n. 26654/2008 e, in tema di corruzione, Sez. 6^, 29.4.2009, n. 17897, P.M. in proc. Ferretti).
Altro principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità (di recente ribadito da Sez. Unite, n. 26654/2008) è che il profitto del reato presuppone l'accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell'agente. Il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l'effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo: occorre cioè una correlazione diretta del profitto con il reato ed una stretta affinità con l'oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall'illecito (vedi Sez. Unite, 19.1.2004, n. 920, Montella). Tale criterio di selezione non appare scalfito dalla pronuncia (Sez. Unite 6.3.2008, n. 10280, Miragliotta) che, con riferimento alla confisca "diretta" (c.d. di proprietà) del profitto della concussione, ha ricompreso nella nozione di profitto anche il bene acquistato con il denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, sottolineando che tale reimpiego deve comunque essere "causalmente" ricollegabile al reato e al profitto "immediato" dello stesso.
3.3 Il "prezzo del reato", invece - come già si è detto - è stato individuato dalla giurisprudenza nel "compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell'esecuzione dell'illecito", ovvero in "un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l'interessato a commettere il reato" (Sez. Unite, n. 9149/1996, Chabni Samir).
Ad esso non può essere attribuita la definizione di "utilità economica" ricavata dalla commissione del reato (Sez. Unite, 24.2.1993, n. 1811, Bissoli) e, in coerenza con tale affermazione, questa Corte ha escluso, fra l'altro, che possano identificarsi nel "prezzo del reato": il denaro esposto nel gioco d'azzardo (Sez. Unite, n. 1811/1993, Bissoli), il corrispettivo versato allo spacciatore per la cessione di sostanza stupefacente (Sez. Unite, n. 9149/1996, Chabni Samir), la cosa incautamente acquistata (Sez. 2^, 5.10.1998, n. 10456, Asseliti), il danaro consegnato dalla prostituta al suo sfruttatore (Sez. 3^, 10.2.2000 - 7.4.2000, n. 661, Brunetti).
3.4 A fronte della netta distinzione tra le nozioni di "prezzo" e di "profitto" del reato come sopra delineata - ed in mancanza di una chiara indicazione normativa che attribuisca a tali termini un significato diverso da quello comunemente loro assegnato (pure tenendo conto del travagliato iter parlamentare di approvazione della L. n. 300 del 2000, che, attraverso scansioni particolarmente tortuose, ha portato a ripetuti assestamenti del testo legislativo) - deve convenirsi, dunque, che non esiste alcun elemento idoneo a far ritenere che il legislatore, nella formulazione dell'art. 322 ter c.p., abbia usato il termine "prezzo" in senso atecnico, così da includere qualsiasi utilità connessa al reato.
Argomento troppo debole, a sostegno di un'interpretazione contraria, appare quello secondo il quale - nella lettura dell'art. 322 ter c.p., - l'espressione "valore corrispondente a tale prezzo", conclusiva del comma 1, potrebbe riferirsi, per le significazioni omnicomprensive attribuibili all'aggettivo indicativo "tale", anche al valore dei beni integranti il "profitto", precedentemente indicati. Si tratta, invero, di un'interpretazione grammaticale opinabile, stante comunque l'uso dell'aggettivo al singolare, mentre la ricognizione del significato della formula legislativa non può prescindere dalle connessioni concettuali e dal collegamento sistematico con la formulazione dell'art. 240 c.p..
Nella formulazione definitiva dell'art. 322 ter c.p., appare perciò inconfutabile la previsione della inoperatività della confisca per equivalente per i profitti derivanti dalle fattispecie di reato previste al comma 1, diverse dalla corruzione attiva, nelle quali il vantaggio ottenuto dal reato non è qualificabile come "prezzo".
La dottrina ha generalmente evidenziato che tale restrizione non appare coerente con la ratio dell'istituto della confisca per equivalente, diretta ad attuare un riequilibrio compensativo a favore della collettività, una sorta di prelievo pubblico dei proventi illeciti nel loro complesso.
Ciè è senz'altro condivisibile (e queste Sezioni Unite, già nella sentenza n. 41936/05, Muci, hanno fatto riferimento ad una "indubbia stonatura"), ma all'apposizione normativa del limite non può ovviarsi con una interpretazione sostanzialmente correttiva, essendo invece necessario l'intervento del legislatore.
4. Nè può ritenersi che la limitazione in oggetto sia stata abrogata dall'art. 335 bis c.p., (introdotto dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 6), attribuendo a tale norma la funzione di estendere la confisca a tutte le ipotesi in cui residuino utilità economiche rivenienti all'autore dalla commissione di ciascuno dei reati previsti dagli artt. da 314 a 335 c.p..
L'art. 335 bis c.p., infatti, non contempla espressamente la confisca di valore e la clausola di salvezza di "quanto previsto dall'art. 322 ter c.p." appare escludere tale istituto dall'ambito di applicazione della norma.
5. Alla conclusione dianzi raggiunta potrebbe obiettarsi che sia la nozione di "prezzo" sia quella di "profitto" possono ricomprendersi all'interno del più ampio concetto di "provento" del reato:
locuzione frequentemente utilizzata dalla normativa comunitaria, alla quale anche questa Corte, in passato, aveva assegnato carattere onnicomprensivo e, quindi, nella sua latitudine semantica, inclusivo di tutto ciò che deriva dalla commissione del reato nelle diverse nozioni - indicate nell'art. 240 c.p., commi 1 e 2 - di prezzo, prodotto e profitto (Sez. Unite, 28.4.1999 - 8.6.1999, n. 9, Bacherotti).
Ciò si uniformerebbe all'obbligo di interpretazione "conforme" della normativa nazionale al diritto dell'Unione Europea ed alle Convenzioni internazionali.
In tale prospettiva il riferimento essenziale è:
- alla decisione - quadro del Consiglio dell'Unione Europea relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato (2005/212/GAI) del 24 febbraio 2005, con la quale è stata demandata agli Stati membri l'adozione, entro il 15 marzo 2007, delle "misure necessarie per poter procedere alla confisca totale o parziale di strumenti o proventi di reati punibili con una pena privativa della libertà superiore ad un armo o di beni il cui valore corrisponda a tali proventi" (qualificandosi come "provento" "ogni vantaggio economico derivato da reati");
- al secondo Protocollo della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee del 19 giugno 1997 (ratificato in Italia con la L. 4 agosto 2008, n. 135), dove si stabilisce, all'art. 5, che ciascuno Stato membro dell'Unione Europea adotti le misure che gli consentano il sequestro e la confisca o comunque di ordinare la privazione degli strumenti e dei "proventi della frode, della corruzione attiva o passiva e del riciclaggio di denaro o di proprietà del valore corrispondente a tali proventi".
I reati presi in considerazione dal Protocollo sono: la "frode", ovvero le condotte descritte all'art. 1 della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee; la "corruzione passiva", ovvero le condotte di cui all'art. 2 del Protocollo della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee, del 27 settembre 1996; la "corruzione attiva", ovvero le condotte di cui all'art. 3 dello stesso Protocollo; il "riciclaggio di denaro", come definito nella direttiva del Consiglio 91/308/CEE, del 10 giugno 1991, relativa alla prevenzione dell'uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite, in relazione ai proventi della frode,, almeno nei casi gravi, e della corruzione attiva o passiva.
In relazione agli atti dianzi citati si assume, dunque, che - secondo un'interpretazione comunitariamente orientata - potrebbe pervenirsi alla configurazione di una nozione di "provento del reato" suscettibile di ricomprendere, in tutte le sue possibili forme, il profitto derivato direttamente o indirettamente dal reato e il suo impiego.
Non può dimenticarsi, però, che la Corte di giustizia di Lussemburgo - con la sentenza 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino, che ha applicato un criterio ormai consolidato per quanto attiene la normativa comunitaria - ha stabilito che:
- Il giudice nazionale deve, nell'applicare il diritto interno, attenersi ad una interpretazione "conforme" alle decisioni - quadro adottate nell'ambito del titolo 6^ del Trattato sull'Unione Europea.
Pertanto, il giudice dello Stato membro è tenuto ad applicare il diritto nazionale per quanto possibile "alla luce della lettera e dello scopo della decisione - quadro", al fine di conseguire il risultato perseguito da questa e di conformarsi così all'art. 34, n. 2 - lett. b), del Trattato. In altri termini, fin dove il diritto interno consente un'interpretazione conforme alla decisione - quadro, in quanto, ad esempio, le disposizioni pertinenti contengono clausole generali o concetti giuridici indefiniti, il giudice nazionale deve utilizzare l'intero spazio valutativo ad esso concesso in favore del diritto dell'Unione Europea.
- L'obbligo per il giudice nazionale di far riferimento al contenuto di una decisione - quadro quando interpreta le norme pertinenti del proprio diritto trova tuttavia due criteri - limite: da un lato, il limite generale, di ordine logico - formale, consistente nel divieto di pervenire ad una interpretazione contra legem del diritto nazionale; dall'altro, il limite specifico costituito dai precisi vincoli derivanti dai principi generali del diritto. Sotto quest'ultimo aspetto, la Corte Europea di giustizia ha precisato che l'obbligo di interpretazione conforme "trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, ed in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, chiarendo, più specificatamente, che tali principi "ostano a che il detto obbligo possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione - quadro e indipendentemente da una legge adottata per l'attuazione di quest'ultima, la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni" (vedi pure le sentenze della Corte di giustizia: 11 giugno 1987, causa 14/86, Pretore di Salò; 26 settembre 1996, causa C168/95, Arcaro; 7 gennaio 2004, causa C60/02; 3 maggio 2005, cause C387/02, C391/02 e C403/02, Berlusconi ed altri). Tale limite deriva dal principio della legalità della pena, che appartiene ai principi generali del diritto comuni alle tradizioni costituzionali degli Stati membri e che è sancito anche: dall'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali; dall'art. 15, n. 1, prima frase, del Patto internazionale sui diritti civili e politici;
nonchè dall'art. 49, n. 1, prima frase, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
Quanto ai rapporti tra diritto comunitario, obblighi internazionali e diritto interno, la nostra Corte Costituzionale - pur riconoscendo il carattere coordinato dell'ordinamento nazionale e dell'ordinamento comunitario, pur ammettendo, altresì, l'impatto diretto dei principi e delle norme comunitarie all'interno del nostro ordinamento - ha tuttavia precisato che in ogni caso devono essere rispettati i principi fondamentali della Costituzione italiana ed i diritti fondamentali inalienabili della persona.
La stessa Corte costituzionale ha stabilito che l'obbligo di una interpretazione conforme agli obblighi internazionali, derivanti da fonti non contemplate dagli artt. 10 e 11 Cost., discende in via generale dall'art. 117, comma 1, della stessa Carta fondamentale. Il suddetto parametro costituzionale comporta: da un lato, l'obbligo del legislatore ordinano di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con gli "obblighi internazionali" di cui all'art. 117 Cost., comma 1, viola per ciò stesso quell'articolo; dall'altro, l'obbligo del giudice nazionale di interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale "interposta", egli deve investire la Corte Costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117 Cost., comma 1, (Corte Cost.: sentenze nn. 348 e 349 del 2007).
Peraltro, è costante la giurisprudenza costituzionale secondo la quale l'art. 25 Cost., comma 2, deve ritenersi ostativo all'adozione di una pronuncia additivo che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore.
Deve concludersi pertanto, che l'utilizzo della normativa sovranazionale, allo scopo di integrazione di elementi normativi va escluso allorquando - come si verificherebbe nel caso di specie - gli esiti di una esegesi siffatta si traducano in una interpretazione in malam partem della fattispecie penale nazionale.
Va rilevato ancora che la L. 4 agosto 2008, n. 135 (che ha ratificato il secondo Protocollo della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee del 19 giugno 1997) non può ritenersi aver determinato, per i reati rientranti nell'ambito di operatività dell'art. 322 ter c.p., il riconoscimento della possibilità della confisca per equivalente anche dei relativi "profitti".
La stessa relazione illustrativa della legge da atto, infatti, della mancanza di norme attuative sul punto, tanto che, al momento della sua emanazione, già la L. 25 febbraio 2008, n. 34 (Legge comunitaria 2007) aveva conferito al Governo la delega (divenuta ormai inefficace per la scadenza del termine di adempimento) a dare attuazione alla decisione - quadro del Consiglio dell'Unione Europea 2005/212/GAI del 24.2.2005, relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi del reato.
6. Per compiutezza argomentativa deve evidenziarsi, infine, che - nelle more della redazione della motivazione della presente sentenza - è stata pubblicata (nella G.U. n. 188 del 14.8.2009 ed è entrata in vigore il giorno successivo) la L. 3 agosto 2009, n. 116, (Ratifica ed esecuzione della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall'Assemblea generale dell'ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003, nonchè norme di adeguamento interno e modifiche al codice penale e al codice di procedura penale).
La Convenzione internazionale anzidetta, aperta alla firma a Menda il 9 dicembre 2003, è composta da un ampio Preambolo e da 71 articoli e costituisce il primo accordo intervenuto tra Stati a livello mondiale per il contrasto della corruzione come fenomeno transnazionale.
L'art. 2, lett. e), della Convenzione medesima, in particolare, nel definire i "proventi del crimine" oggetto delle misure espropriative, fa riferimento anche ai beni provenienti "indirettamente" dal reato, con nozione ben più ampia di quella di "profitto" elaborata dalla giurisprudenza nazionale.
Di tale normativa non hanno, ad evidenza, potuto tenere conto queste Sezioni Unite al momento della presente decisione.
Anche in relazione alla L. n. 116 del 2009, deve darsi atto, comunque, della mancanza di norme attuative nel nostro Paese, rilevandosi che il Governo non ha dato attuazione alla delega conferitagli dalla già citata Legge Comunitaria 2007, n. 34/2008, il cui art. 31 fissava quali criteri direttivi della disciplina della confisca del "provento del reato":
- (n. 1) la obbligatorietà della confisca del prodotto e del prezzo del reato, nonchè del profitto derivato direttamente o indirettamente dal reato, e del suo impiego, nella parte in cui non debbano essere restituiti al danneggiato, nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti;
- (n. 3) l'obbligo di eseguire sempre la confisca, totale o parziale, su altri beni di valore equivalente a quello delle cose che costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto del reato, con eccezione dei beni impignorabili ai sensi dell'art. 514 c.p.c..
7. Per tutte le considerazioni dianzi svolte va affermato, in conclusione, il principio di diritto secondo il quale "in riferimento al delitto Ai peculato, può disporsi la confisca per equivalente, prevista dall'art. 322 ter c.p., comma 1, ultima parte, soltanto del prezzo e non anche il profitto del reato".
8. Il Collegio è ben consapevole che - mentre, nella corruzione, la somma percepita dal pubblico ufficiale costituisce "prezzo del reato" ogni qualvolta sia stata data o ricevuta come controprestazione per lo svolgimento dell'azione illecita - la maggior parte degli altri reati previsti dall'art. 323 ter c.p., comma 1, non risultano caratterizzati, invece, dall'esecuzione nella dinamica delittuosa di illecite prestazioni corrispettive, sicchè il beneficio economico conseguito dal reo non può che identificarsi nel "profitto del reato". Cosè è: nella concussione, per "il denaro od altra utilità" estorti (Cass., Sez. 6^, 25.1.1995, n. 4114, Giacalone);
nel reato di cui all'art. 316 ter c.p., per "la indebita percezione di pubbliche erogazioni" (Cass., Sez. 2^, 28.3.2003, n. 14817, P.G. in proc. Caminati ed altro); nel peculato per "il danaro o altra cosa mobile" oggetto di appropriazione (ex plurimis, Cass., Sez. 6^, 20.10.2000, n. 10797, Mazzitelli).
Per tali delitti la confisca del "prezzo", inteso come compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato, appare ipotesi quasi puramente scolastica, tale comunque da svuotare l'istituto della confisca per equivalente di gran parte della sua valenza operativa.
Evidenti risultano, altresì, le discrasie di un sistema sanzionatorio nel quale:
- Al solo profitto fa riferimento, per la confisca di valore, l'art. 600 septies c.p., (come novellato dalla L. 11 agosto 2003, n. 228), dove viene stabilito che, nei casi in cui non sia possibile la confisca diretta di beni che costituiscono il profitto o il prezzo dei delitti contro la personalità individuale, previsti dalla sezione 1^ del capo 3^ dello stesso codice, la misura ablatoria abbia ad oggetto "beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto". - La L. 18 aprile 2005, n. 62, (Legge comunitaria 2004) ha stabilito (con l'art. 9) - nel complesso delle disposizioni volte a modificare il testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998 - che, in caso di condanna per uno dei reati ivi previsti (abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato), sia disposta "la confisca del prodotto o del profitto conseguito dal reato e dei beni utilizzati per commetterlo" e, in caso l'esecuzione della stessa non sia possibile, che la stessa possa avere ad oggetto "una somma di denaro o beni di valore equivalente". - La L. 16 marzo 2006, n. 146, (Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall'Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001) ha previsto, all'art. 11, che, per i reati di criminalità organizzata transnazionale, definiti all'art. 3 della stessa legge, qualora la confisca delle cose che costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del reato non sia possibile, il giudice ordini la confisca di somme di denaro, beni od altre utilità di cui il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona fisica o giuridica, "per un valore corrispondente a tale prodotto, profitto o prezzo". - La confisca di valore di cui all'art. 648 quater c.p., introdotto con il D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231, (Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonchè della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione) fa espresso riferimento all'equivalente del prodotto, profitto o prezzo dei reati previsti dagli artt. 648 bis e 648 ter c.p., (riciclaggio ed impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita).
- La L. 24 dicembre 2007, n. 244 (Legge finanziaria 2008), con l'art. 1, comma 143, ha esteso la confisca di valore anche ai reati fiscali, prevedendo che "nei casi di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 bis, 10 ter, 10 quater e 11, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all'art. 322 ter c.p.". - La L. 23 luglio 2009, n. 99, (Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonchè in materia di energia) - pubblicata, nelle more della redazione della motivazione della presente sentenza, nella G.U. n. 176 del 31.7.2009, suppl ord. n. 136 - ha introdotto l'art. 474 bis c.p., che prevede la confisca obbligatoria delle cose che servirono o furono destinate a commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p., (contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni - introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) e "delle cose che ne sono l'oggetto, il prodotto, il prezzo o il profitto, a chiunque appartenenti", nonchè, qualora ciò non sia possibile, "la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità "per un valore corrispondente (esclusivamente n.d.r.) al profitto", richiamando espressamente altresì l'art. 322 ter c.p., comma 3. - Il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, contenente la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche in ordine a taluni delitti, per lo più coincidenti con quelli richiamati dagli artt. 322 ter e 640 quater c.p., ha poi previsto in via generale all'art. 19, in caso di condanna, la confisca obbligatoria, nei confronti dell'ente, del prezzo o del profitto del reato e, nel caso non sia possibile la sua esecuzione, la confisca di "somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato". - Il D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, contenente la disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, ha novellato l'art. 2641 c.c., prevedendo la confisca obbligatoria del profitto o del prodotto e dei beni utilizzati per commettere uno dei reati previsti dal titolo 11^ del Libro 5^ del codice civile, o, in caso di impossibilità, di denaro o beni di valore equivalente.
- La L. 27 dicembre 2006, n. 296 (Legge finanziaria 2007), con la novella del comma 2 bis, ha reso applicabile ai delitti previsti dagli artt. 314, 316, 316 bis, 316 ter, 317, 318, 319, 319 ter, 320, 322, 322 bis e 325 c.p., la speciale "confisca allargata" di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, convertito con modificazioni dalla L. n. 356 del 1992, riguardante il denaro, i beni o le altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza.
Queste Sezioni Unite, con la sentenza 22.11.2005, n. 41936, Muci, hanno ritenuto ammissibile la confiscabilità per equivalente anche del profitto dei reati indicati nell'art. 640 quater c.p..
Palese risulta, dunque, la simultanea coesistenza di una congerie di norme settoriali, non coordinate tra loro, in cui l'istituto della confisca per equivalente viene previsto, in modo altalenante, talvolta in termini perspicui ed efficienti e talaltra, invece, senza un efficace spazio di operatività. Nè mancano profili di contraddittorietà, come può rilevarsi, ad esempio, attraverso la constatazione che, mentre per le persone fisiche condannate per i delitti richiamati dall'art. 322 ter c.p., comma 1, non può farsi luogo alla confisca per equivalente del profitto, ciò risulta invece ammesso nei confronti dell'ente eventualmente coinvolto in relazione agli stessi fatti.
Si pone perciò la necessità che il legislatore provveda a disciplinare in modo sistematico tutte le ipotesi di confisca obbligatoria e di confisca per equivalente, già previste con norme frammentarie e prive di coordinamento.
A fronte, però, di una disposizione normativa che limita inequivocabilmente la confisca per equivalente al solo "prezzo" del reato, va ribadito che questa Corte non può pervenire ad una non consentita estensione "in malam partem" del dettato legislativo.
9. Per le argomentazioni dianzi svolte, deve disporsi l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata nonchè del decreto di sequestro 20.5.2008 del G.I.P. del Tribunale di Roma e la restituzione dei beni sequestrati all'avente diritto, mandandosi alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 626 c.p.p..
(Torna su   ) P.Q.M.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, visti gli artt. 127 e 325 c.p.p., annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata nonchè il decreto di sequestro 20.5.2008 del G.I.P. del Tribunale di Roma e dispone restituirsi i beni sequestrati all'avente diritto. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 626 c.p.p..
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 giugno 2009.

Da: rtyj12/12/2012 13:56:16
francesco/francesca sei veramente un coglione

Da: saintvenant12/12/2012 13:56:48

- Messaggio eliminato -

Da: gerry112/12/2012 13:57:04
alla luce delle recenti sentenze della corte costituzionale e delle sezioni unite cassazione si può desumere che la confisca per equivalente costituisce una misura a carattere sanzionatorio in quanto costituisce una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti ed esime dallo stabilire quel rapporto pertinenziale tra reato e misura. dunque deve essere considerata come una pena a tutti gli effetti, con applicazione dell'art. 2 c.p. e non dell'art. 200 c.p.

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