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Esame avvocato Bari 2012
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Pagina: 1, 2, 3

Da: pax11/12/2012 13:46:44
in che senso??

Da: sfigados11/12/2012 14:47:46
speriamochemela cavo sei un gran coglione...cagliari non è benevola..anzi tutto il contrario vai a leggere le percentuali

Da: ---11/12/2012 14:57:08
corregge ancona!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Da: audry...11/12/2012 15:01:26
Con la traccia oggetto di parere mi si chiede di assumere le vesti di difensore di Caio al fine di tutelarlo in ordine alle possibilità, anche eventualmente recuperatorie,  benché problematiche, relativamente ad una serie di operazioni di conto corrente intercorse tra il 1994 ed il 2008 con la Banca X, gravate da interessi pattizi extralegali, capitalizzati sia trimestralmente che annualmente.  
Al fine di rendere il parere richiesto appare necessario muovere dagli istituti dell'anatocismo, della prescrizione dell'eventuale ripetizione di indebito e dalla natura convenzionale degli interessi passivi, con necessario coinvolgimento delle molteplici problematiche connesse al caso di specie.
Con il termine anatocismo (dal greco anà - di nuovo, e tokòs - interesse) si intende la capitalizzazione degli interessi su un capitale, affinché essi siano a loro volta produttivi di altri interessi (in pratica è il calcolo degli interessi sugli interessi). Nella prassi bancaria, tali interessi vengono definiti "composti". Un esempio di anatocismo è quello di capitalizzare (ossia sommare al capitale di debito residuo) gli interessi ad ogni scadenza di pagamento, anche se sono regolarmente pagati.
Il calcolo degli interessi in regime di capitalizzazione composta anziché in regime di capitalizzazione semplice determina una crescita esponenziale del debito, di conseguenza per periodi inferiori all'anno l'importo calcolato con la capitalizzazione composta sarà inferiore a quello che si determina nella capitalizzazione semplice.
Giuridicamente, in un'obbligazione pecuniaria l'applicazione dell'anatocismo comporterebbe, per il debitore, l'obbligo di pagamento, non solo del capitale e degli interessi pattuiti, ma anche degli ulteriori interessi calcolati sugli interessi già scaduti.
La legge autorizza il pagamento degli interessi legali sulle quote di debito (capitale e interessi), che non sono state regolarmente pagate a scadenza.
Malgrado l'anatocismo sia un istituto conosciuto dagli albori del prestito ad interesse, la normativa italiana non ha raggiunto un sufficiente grado di completezza, tant'è che la disciplina si basa ancora sul codice civile del 1942, ed in particolare sull'art. 1283 c.c.. Secondo questa norma, gli interessi scaduti, in assenza di usi contrari, possono produrre a loro volta interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi. In linea di principio, il codice civile vieta un regime di capitalizzazione composta degli interessi, ovvero il pagamento degli interessi su interessi di periodi precedenti.
Nonostante la tutela approntata dal citato articolo, che subordina l'anatocismo alla compresenza di alcuni presupposti ben determinati, per circa mezzo secolo nella prassi bancaria italiana hanno trovato applicazione pressoché generalizzata, nei contratti di apertura di conto corrente, le clausole di capitalizzazione trimestrale degli impieghi. Ciò grazie (anche) all'avallo della giurisprudenza, tanto di legittimità quanto di merito, che ha affermato la validità delle clausole di capitalizzazione trimestrale, escludendo l'esistenza di un contrasto con la previsione di cui all'art. 1283 codice civile, sulla base dell'affermazione dell'esistenza di un uso idoneo a derogare al divieto di anatocismo stabilito da tale norma.
Nel 1999 la Corte di Cassazione, invertendo il proprio orientamento giurisprudenziale, ha più volte affermato la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale, sostanzialmente argomentando nel senso della inesistenza di un uso normativo idoneo a derogare all'art. 1283 c.c..
Per evitare scompensi tra il lavoro dei giudici e la prassi, il legislatore ha ritenuto opportuno, con il decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342, modificare l'art. 120 del decreto legislativo 1ï¿��º settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia): tale intervento ha introdotto in materia il principio della eguale cadenza di capitalizzazione dei saldi attivi e passivi, nel contempo stabilendo - con norma transitoria - una sanatoria per il pregresso, facendo salve le clausole di capitalizzazione trimestrale contenute nei contratti conclusi prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina.
La norma transitoria è stata però dichiarata illegittima, per eccesso di delega e conseguente violazione dell'articolo 77 Costituzione, dalla Corte Costituzionale (sentenza 17 ottobre 2000, n. 425).
Il cosiddetto "decreto salva banche" fu presentato il 23 luglio 1999, e convertito in legge n. 342 del 4 agosto 1999. La Consulta, con la citata sentenza, ha abrogato l'art. 25, comma 3, dichiarato incostituzionale per: l'irretroattività della legge, la disparità di trattamento fra soggetti del testo Unico Bancario e creditori sottoposti all'anatocismo, il non rispetto dell'autonomia e indipendenza della magistratura.
Dopo la sentenza della Consulta, del 17 ottobre 2000, un secondo decreto fu approvato il 29 dicembre 2000, n. 394, convertito in legge 28 febbraio 2001, n. 24 il quale fornisce l'interpretazione autentica della legge antiusura n. 108 del 1996.
Venuta meno la norma transitoria, finalizzata ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova disciplina, paritetica, della materia, la Corte di Cassazione ha continuato, con una ulteriore serie di sentenze (tra le altre, si veda la sentenza 13 dicembre 2002, n. 17813), a ribadire il suo approccio più recente, peraltro estendendo i principi enunciati inizialmente con riferimento al conto corrente bancario anche ai contratti di mutuo. Infine, con sentenza Cass. Civ., SS.UU., 4 novembre 2004, n. 21095, la suprema Corte ha confermato in modo netto il revirement del 1999, così consolidando il nuovo trend giurisprudenziale.
Il tema dei diritti dei correntisti alla ripetizione di somme illegittimamente addebitate sul conto, soprattutto per interessi anatocistici e commissioni di massimo scoperto, presenta diversi e noti profili autorevolmente dibattuti.
Tra questi, un aspetto saliente è costituito dall'individuazione del giorno in cui inizia a decorrere il termine di prescrizione decennale per far valere tali diritti, ai sensi dell'art. 2935 cod. civ. ("la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere").
La giurisprudenza di merito, negli ultimi anni  - in particolare, dopo che la Cassazione ha affermato l'illegittimità della capitalizzazione trimestrale praticata dalle banche, è stata chiamata numerose volte a pronunciarsi sull'argomento e si è divisa, essenzialmente, tra due orientamenti.
Un orientamento ritiene che il termine di prescrizione decorra dalla chiusura del conto corrente, considerata la natura unitaria del contratto di conto corrente bancario, il quale darebbe luogo ad un unico rapporto giuridico, sicché la serie di accreditamenti ed addebiti costituirebbe un dato contabile, mentre è solo con la chiusura del conto che si stabilisce l'entità del credito e del debito delle parti.
Un diverso indirizzo afferma che la prescrizione decorra da ciascun addebito in conto corrente, poiché la relativa annotazione produrrebbe l'effetto di modificare il saldo e consentirebbe di esercitare il diritto di ripetizione.
In questo quadro sono intervenute le Sezioni Unite (Cass., S.U., 2 dicembre 2010, n. 24418), le quali hanno stabilito che, al fine di individuare il dies a quo della prescrizione, occorre distinguere tra il caso in cui il cliente gode di una apertura di credito (e perciò il versamento sul conto serve a ripristinare la provvista) ed il caso in cui il conto è scoperto o il versamento sia comunque extra fido (qui il versamento è un vero pagamento, con natura solutoria).
Nella prima ipotesi, ha giudicato la Corte di legittimità, il termine di prescrizione decorre dalla chiusura del conto, poiché i precedenti addebiti, appunto, non sono qualificabili tecnicamente come pagamenti; nella seconda ipotesi, invece, ogni versamento corrisponde ad un vero pagamento e come tale (ove fosse eseguito per effetto di una clausola nulla) produce immediatamente il diritto del cliente di chiederne la ripetizione, ed il termine di prescrizione di tale diritto, di conseguenza, inizia a decorrere subito.
Tale soluzione, seppure con le suddette distinzioni, dava un quadro finalmente solido in termini di certezza del diritto.
Ma, come la dottrina ha prontamente segnalato , il legislatore è intervenuto con una "particolarmente tempestiva previsione", mutando in modo radicale i termini della questione.
La norma cui si allude è l'art. 2, co. 61, del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, conv. con modif. dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10.
Il suo tenore è il seguente: "in ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'art. 2935 cod. civ. si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto".
Il senso della disposizione, così come colto da molte decisioni che l'hanno applicata (senza ravvisarne profili di illegittimità costituzionale), è che la prescrizione del diritto alla ripetizione inizia a decorrere, per ciascun addebito, dal momento in cui è avvenuta l'inerente annotazione in conto.
Il che si traduce nell'estinzione della gran parte delle pretese, specialmente in materia di anatocismo, atteso che in tale ambito, com'è noto, le controversie riguardano prevalentemente operazioni poste in essere negli anni '80 e '90 del secolo scorso, in relazione alla disciplina all'epoca vigente.
Taluni Giudici di merito, tuttavia, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale, in particolare censurando l'effetto retroattivo della norma, da cui sono scaturite nove ordinanze di rimessione alla Consulta.
Da qui l'ultimo capitolo della vicenda: la Corte Costituzionale, con sentenza del 5 aprile 2012, n. 78, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma sopra citata.
La Corte Costituzionale ha affermato che il principio di irretroattività della legge civile (art. 11 prel.) costituisce un valore fondamentale di civiltà giuridica e, pertanto, il legislatore può introdurre norme di interpretazione autentica, tali da incidere anche su situazioni preesistenti, solo se vi sia una situazione di obiettiva incertezza del dato normativo, oppure un contrasto giurisprudenziale irrisolto, o la necessità di recuperare il significato aderente all'originaria volontà del legislatore; e, comunque, sul presupposto che l'interpretazione autentica fornisca un significato già contenuto nella norma di legge interpretata, riconoscibile come una delle possibili letture del testo.
Sulla scorta di tale premessa la Consulta ha censurato la norma in questione, in quanto la stessa, derogherebbe con riferimento all'art2935 senza alcuna ragionevole giustificazione.
Da questa decisione si possono ora trarre due considerazioni di sintesi.
La prima è che per individuare il termine da cui decorre la prescrizione si ripristinano i criteri già emersi nella giurisprudenza precedente e sopra richiamati; dunque non si può fare riferimento alla norma dichiarata illegittima, con effetto (questo) certamente retroattivo, ossia valido anche per i giudizi pendenti, salvo il solo limite del giudicato (cfr. Cass., 6 maggio 2010, n. 10958).
La seconda considerazione è che, non solo vi è un "ripristino" degli orientamenti precedenti, ma vi è anzi un deciso rafforzamento dell'indirizzo maggioritario, per il quale la prescrizione decorre dalla chiusura del conto. Il contrario orientamento (prescrizione decorrente dai singoli addebiti), secondo la Corte Costituzionale, non può neppure ricondursi ad uno dei possibili significati dell'art. 2935 cod. civ.
Per ciò che attiene alla pattuizione di interessi passivi, l'Art.1284 commi 2ï¿��° e 3ï¿��° c.c. recita: "Allo stesso saggio (legale) si computano gli interessi convenzionali, se le parti non ne hanno determinato la misura. Gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto, altrimenti sono dovuti nella misura legale".
La L.154/1992, prima (artt. 2- 3- 4- 5- 6), ed il T.U. bancario n. 385 del 1993, poi, hanno introdotto obblighi generali di pubblicità e di pattuizione scritta delle condizioni contrattuali in materia bancaria e finanziaria, sancendo la nullità delle clausole di mero rinvio agli usi, per la determinazione dei tassi di interesse e di ogni altro prezzo e condizioni praticati, nonché delle clausole che prevedono tassi, prezzi, condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati, con un meccanismo di integrazione ex lege della clausola nulla, e stabilendo anche la necessità di comunicazioni specifiche al cliente - nei contratti di durata in cui sia stato convenuto, in una apposita clausola contrattuale, specificamente sottoscritta dal cliente, l'esercizio, da parte della banca, dello ius variandi dei tassi, dei prezzi e delle altre condizioni - delle variazioni a lui sfavorevoli, con diritto di recesso del medesimo cliente (art.118).
Lo ius variandi è stato comunque introdotto legislativamente solo con l'art.4 L.154/1992 (prima vi era solo di disposto di cui all'art.1283 c.c.). Viene quindi, con detta normativa, definitivamente sancita la nullità delle clausole per relationem determinative degli interessi ultralegali.
La Corte di Cassazione è intervenuta in diverse pronunce sulla problematica relativa alle clausole di mero rinvio agli usi di piazza, contenute nei contratti stipulati antecedentemente alla L.154/1992 ed al T.U. 385/1993 ed ancora in essere. All'art.7 delle norme generali regolanti il rapporto, riportate nel contratto, era infatti previsto che "gli interessi dovuti dal correntista, salvo patto diverso, si intendono determinati alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza e producono a loro volta interessi nella stessa misura".
Secondo l'orientamento oggi prevalente, la convenzione relativa agli interessi (nel regime anteriore alla L.154/192) deve ritenersi correttamente stipulata, ex art.1284 c.c., solo quando il relativo tasso risulti determinabile e controllabile in base a criteri, anche estrinseci rispetto al documento negoziale, univoci ed oggettivamente indicati, essendo nulla la clausola, delle condizioni generali di contratto, contenente un generico riferimento "alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito sulla piazza", ove non coordinata all'esistenza di vincolanti discipline fissate su larga scala nazionale con accordi interbancari che garantiscano, sin dall'atto della costituzione del rapporto, la totale assenza di discrezionalità nell'apprensione ed utilizzo del dato, vale a dire la misura del saggio.
In ogni caso tali clausole, stipulate anteriormente all'entrata in vigore della L.154/1992, sono divenute improduttive di ulteriori effetti, a partire dal 9/7/1992, data di entrata in vigore della nuova normativa, implicante espressamente la nullità delle clausole di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi di interesse, in quanto tale disciplina innovativa, se non incide sulla validità delle clausole contrattuali inserite in contratti già conclusi, per i principi regolanti le successioni delle leggi nel tempo, impedisce che esse possano continuare a produrre ulteriori effetti per l'avvenire nei rapporti ancora in corso.
Da notare che, di recente, la Suprema Corte (C.C. 4490/2002) ha ritenuto irrilevante la presenza di accordi di cartello interbancari, diretti a fissare i tassi di interesse attivi e passivi in modo vincolante in ambito comunitario, dovendo ritenersi detti accordi nulli in applicazione dell'art.2 della legge 287/199 che vieta le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente la concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante.
Risultano quindi nulle, anche relativamente ai contratti stipulati prima dell'entrata in vigore (giugno 1992) della L.154/1992, sia le clausole che non prevedono una specifica pattuizione scritta del tasso degli interessi, ma un generico rinvio agli usi di piazza, sia le clausole legittimanti l'esercizio da parte della banca di uno ius variandi in peius , rispetto al correntista, senza criteri di sufficiente, oggettiva e certa determinabilità del tasso applicato poi al rapporto. Alla declaratoria di nullità della clausola, consegue quindi l'applicazione dell'interesse legale ex art.1284 c.c.
Alla luce di quanto premesso, appare quanto mai opportuno prendere le mosse dalla citata sentenza delle S.U. del 2004 (n. 21095) , con la quale era stato statuito che la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi contenuta nei contratti predisposti dagli istituti di credito è nulla, perché non corrisponde ad un uso normativo. La materia, giova ribadire, è regolata dall'art. 1283 c.c., il quale dispone che "In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi".
Già nel 1999 erano comunque intervenute numerose pronunzie della Corte di Cassazione (Cass. n. 2374/99; n 3096/99; n. 3845/99), le quali, in sede di esegesi della richiamata disposizione, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con sentenze del ventennio precedente, hanno affermato il principio - reiteratamente confermato in altre ancora più recenti - secondo il quale "gli usi contrari", idonei ex art. 1283 a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo quelli "normativi" in senso tecnico, desumendone per l'effetto la nullità delle clausole bancarie anatocistiche, rispondendo la stipulazione delle medesime ad un uso meramente negoziale. Il nuovo corso giurisprudenziale era ormai stabile, ma fu comunque opportuno che anche le Sezioni Unite si pronunciassero: ogni dubbio era così da considerarsi, di conseguenza, eliminato e l'anatocismo da ritenersi illecito, produttivo dell'invalidità della relativa pattuizione e fonte dell'obbligo di rimborsare ai sensi dell'art. 2033 c.c. quanto trattenuto dall'istituto a tale titolo.
Una volta riconosciuto il diritto alla ripetizione delle somme trattenute dagli istituti per anatocismo, è sorta la questione relativa al termine di prescrizione del diritto alla rifusione del "maltolto".
In seguito alla virata giurisprudenziale del 1999 di cui si è detto, il legislatore è intervenuto con l'art. 25 d.lvo 4 agosto 1999 n. 342. Tale norma ha sostituito l'art 120 del d.lvo 1 settembre 1993 n. 385 (t.u.), disponendo, tra l'altro, che Il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CICR) dovesse stabilire modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria. Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturate, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera CICR del 9 febbraio 2000, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilirà le modalità e i tempi dell'adeguamento. In difetto di adeguamento le clausole divengono inefficaci e l'inefficacia può essere fatta valere solo dal cliente.
È quindi, come già cennato, intervenuta la Corte Costituzionale con sentenza 17 ottobre 2000 n. 425 che ha dichiarato l'illegittimità di tale ultimo comma. Il che, peraltro, non ha fatto venir meno quello precedente che demanda al CICR la formulazione della disciplina dell'anatocismo bancario. Tant'è che detto organo ha emanato la delibera 9 febbraio 2000, che consente, ma non retroattivamente, la capitalizzazione periodica degli interessi a determinate condizioni, le cui principali sono: che la periodicità della capitalizzazione sia la medesima per gli interessi attivi e per quelli passivi (diversamente da quanto avveniva in precedenza, perché una, la seconda, era trimestrale, mentre l'altra annuale); che la clausola sia espressamente approvata per iscritto.
Con sentenza 05 aprile 2012 n. 78, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 61, del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225 (c.d. Milleproroghe), convertito, con modificazioni, dalla l. 26 febbraio 2011, n. 10, il quale prevedeva che "In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'articolo 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione d'importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto".
Secondo la Corte, la norma censurata violava, con la sua efficacia retroattiva, il canone generale della ragionevolezza delle leggi (art. 3 Cost.). La stessa era, infatti, intervenuta sull'art. 2935 c.c. in assenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo, perché, in materia di decorrenza del termine di prescrizione relativo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, a parte un indirizzo del tutto minoritario della giurisprudenza di merito, si era ormai formato un orientamento maggioritario, che aveva trovato riscontro in sede di legittimità ed aveva condotto ad individuare nella chiusura del rapporto contrattuale o nel pagamento solutorio il dies a quo per il decorso di quel termine. La disposizione censurata, lungi dall'esprimere una soluzione ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili al citato art. 2935., derogava nettamente ad esso , innovando rispetto al testo previgente, senza peraltro alcuna ragionevole giustificazione. Per la Consulta l'efficacia retroattiva della deroga rendeva, per l'effetto, asimmetrico il rapporto contrattuale di conto corrente perché, retrodatando il decorso del termine di prescrizione, finiva per ridurre irragionevolmente l'arco temporale disponibile per l'esercizio dei diritti nascenti dal rapporto stesso. Con ciò veniva pregiudicata la posizione giuridica dei correntisti che, nel contesto giuridico anteriore all'entrata in vigore della norma denunziata, avevano avviato azioni dirette a ripetere somme illegittimamente addebitate loro.
Di qui la violazione dell'art. 3 Cost., perché la norma censurata, facendo retroagire la disciplina in esso prevista, non rispettava i principi generali di eguaglianza e ragionevolezza.
E così l'abusivo comportamento della banche di capitalizzare trimestralmente gli interessi passivi maturati a carico del cliente, e di computare anche su questi quelli del trimestre successivo ha trovato un'ulteriore censura.
Da quanto esposto discende che, essendo la materia stata regolata dal citato provvedimento espressamente previsto dalla legge, la questione si pone ormai per il periodo antecedente l'entrata in vigore dello stesso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 22 febbraio 2000 n. 43. Per quello successivo vi è, infatti, soltanto da verificare se l'istituto si sia adeguato alla normativa. Per quello precedente non vi sono dubbi in merito alla decorrenza del termine di prescrizione del diritto di ripetizione. Secondo le Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. n. 24418/10) ed oggi anche per la Corte Costituzionale il dies a quo coincide con la chiusura del conto. In altre parole, il termine decennale per chiedere la restituzione va fatto partire da quel momento,senza che abbia alcuna rilevanza il fatto che banca, dal 9 febbraio 2000 in poi, si sia uniformata alle disposizioni di cui si è detto. Potrà chiedersi tutto ciò che è stato trattenuto dall'apertura del conto, o meglio da quando quest'ultimo è stato in rosso, fino al 2000.
Resta a questo punto da chiedersi chi possa avvalersi delle pronunzie della Suprema Corte e della Consulta. La restituzione degli importi illegittimamente trattenuti dall'istituto può essere chiesta da chiunque, persona fisica, associazione, fondazione o società abbia intrattenuto con una banca un rapporto produttivo d'interessi passivi. Insomma, l'azione di ripetizione può essere intrapresa non solo da consumatori, ma anche da enti.
Per quanto riguarda il tipo contrattuale, da cui esso scaturisce, può trattarsi sia di conti correnti, sia di mutui, sia di contratti quali le anticipazioni su crediti: basta, come detto, che il medesimo fosse "in rosso", cioè passivo. Caio, prima di adire le vie legali, invierà per mio tramite una raccomandata a.r. alla banca con la richiesta di restituzione degli importi trattenuti in violazione dei citati precetti.

Da: Iosperiamochemelacavo111/12/2012 16:52:25
Innanzitutto nn mi sembra il caso di offendere.non ho detto parolacce,ho semplicemente detto che sarebbe meglio di Venezia. Per --- come sai che corregge Ancona?

Da: ---11/12/2012 18:46:09
mia madre è un magistrato

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Da: frank211/12/2012 18:55:22
a che ora la consegna a bari???

Da: bim bum bam11/12/2012 20:30:31
abbiamo cominciato a consegnare dalle 18.20....no comment sulle tracce....bip!

Da: bari..11/12/2012 21:18:13
ma è vero che bari viene corretta da lecce?

Da: iosperiamochemelacavo112/12/2012 11:47:29
si sa nulla sugli abbinamenti? pare che ieri abbiano detto i commissari che avrebbe corretto venezia

Da: frank212/12/2012 16:24:37
bari, a che ora consegna??'

Da: bim bum bam12/12/2012 18:17:37
17.30

Da: lex12/12/2012 19:19:36
attenti ai piccioni, oggi erano in
due che svolazzavano tranquilli

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